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Carneades genus hoc totum non probabat et nimis inconsiderate concludi hanc rationem putabat. Itaque premebat alio modo nec ullam adhibebat calumniam; cuius erat haec conclusio: 'Si omnia antecedentibus causis fiunt, omnia naturali conligatione conserte contexteque fiunt; quod si ita est, omnia necessitas efficit; id si verum est, nihil est in nostra potestate; est autem aliquid in nostra potestate; at, si omnia fato fiunt, omnia causis antecedentibus fiunt; non igitur fato fiunt, quaecumque fiunt.' | Carneade non approvava tutto questo complesso di argomentazioni e riteneva che tale ragionamento giungesse a conclusione in maniera troppo dissennata. Pertanto, incalzava in altro modo, senza ricorrere ad alcun cavillo; la sua conclusione era la seguente: "Se tutto accade per cause precedenti significa che tutto accade secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso; se le cose stanno in questi termini, è la necessità a produrre tutto; e se ciò è vero, nulla è in nostro potere; eppure qualcosa è in nostro potere; ma se tutto avviene per volere del fato, tutto accade per cause precedenti; quindi, non tutto ciò che accade, accade per volere del fato". |
Tullius Tironi sal.Omnia a te data mihi putabo, si te valentem videro. Summa cura exspectabam adventum Andrici, quem ad te miseram. Cura, si me diligis, ut valeas et, quum te bene confirmaris, ad nos venias. Vale. IIII Id. Apr. | Tullio (Cicerone) saluta Tirone.Considererò che tu mi abbia donato ogni cosa se ti vedrò star bene in salute. Aspetto con grande ansia l'arrivo di Menandro che ti ho mandato. Se mi vuoi bene, fai in modo di star bene e, quando starai bene, raggiungimi. Stammi bene, 10 aprile. |
Quid vero de modestia, quid de temperantia, quid de continentia, quid de verecundia, pudore pudicitiaque dicemus? Infamiaene metu non esse petulantes, an legum et iudiciorum? Innocentes ergo et verecundi sunt, ut bene audiant, et, ut rumorem bonum colligant, erubescent impudica loqui. At me istorum philosophorum pudet, qui <vitii> iudicium vitare <volunt, nec se> vitio ipso <no>tat<os> putant. | Che dovremo dire della moderazione, della temperanza, dell'equilibrio, della vergogna, della riservatezza e della pudicizia? Che forse non si è sfrontati per timore del disonore, o delle leggi e dei processi? Allora sono persone oneste e morigerate per sentire parlare bene di sé, e allo scopo di raccogliere commenti amichevoli, arrossiscono nel dire cose indecenti. Tuttavia io mi vergogno di codesti filosofi, che vogliono evitare di essere giudicati, né pensano di essersi messi in vista proprio per un'azione colpevole. |
Sed de ceteris et diximus multa et saepe dicemus; hunc librum ad te de senectute misimus. Omnem autem sermonem tribuimus non Tithono, ut Aristo Cius, (parum enim esset auctoritatis in fabula), sed M. Catoni seni, quo maiorem auctoritatem haberet oratio; apud quem Laelium et Scipionem facimus admirantis quod is tam facile senectutem ferat, eisque eum respondentem. Qui si eruditius videbitur disputare quam consuevit ipse in suis libris, attribuito litteris Graecis, quarum constat eum perstudiosum fuisse in senectute.Sed quid opus est plura? Iam enim ipsius Catonis sermo explicabit nostram omnem de senectute sententiam. | Su altri argomenti molto ho detto e molto dirò. Questo libro sulla vecchiaia lo dedico a te. Ho attribuito l'intero discorso non a Titono, come fa Aristone di Ceo - ci sarebbe del resto poca autorità in una leggenda -, ma a Marco Catone il vecchio, per dare maggiore autorità alla dissertazione. Vicino a lui immaginiamo Lelio e Scipione pieni di stupore perché sopporta la vecchiaia con tanta serenità e Catone intento a rispondere loro. Se ti sembrerà che discuta con più cultura di quanto non sia solito fare nei suoi libri, attribuiscilo alla letteratura greca di cui, com'è noto, fu accanito studioso da vecchio. Ma perché dilungarmi? Ormai il discorso di Catone in persona illustrerà appieno la mia idea della vecchiaia. |
Non est autem consentaneum, qui metu non frangatur, eum frangi cupiditate, nec qui invictum se a labore praestiterit, vinci a voluptate. Quam ob rem et haec vitanda et pecuniae fugienda cupiditas; nihil enim est tam angusti animi tamque parvi quam amare divitias, nihil honestius magnificentiusque quam pecuniam contemnere, si non habeas, si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre. Cavenda etiam est gloriae cupiditas, ut supra dixi; eripit enim libertatem, pro qua magnanimis viris omnis debet esse contentio.Nec vero imperia expetenda ac potius aut non accipienda interdum aut deponenda non numquam. | D'altra parte, non sarebbe ragionevole che chi non si lascia abbattere dalla paura, si lasciasse abbattere dalla cupidigia, e chi si è mostrato invincibile alla fatica, si lasciasse vincere dal piacere. Bisogna perciò evitare queste contraddizioni, e rifuggire anche dall'avidità del denaro: non c'è cosa che dimostri grettezza e bassezza d'animo quanto l'amor delle ricchezze; al contrario, nulla è più onesto e più nobile del disprezzo verso il denaro, se non lo possiedi; se lo possiedi, impiegarlo in una benefica elargizione. Bisogna anche guardarsi, come ho già detto, da uno sfrenato desiderio di gloria, perché ci toglie la libertà dello spirito, quella libertà che gli uomini magnanimi devono conquistare e difendere con forza. D'altra parte, non bisogna neppure aspirare ai supremi poteri, o, per meglio dire, talvolta conviene non accettarli, talora anche deporli. |
Sequitur tertia vituperatio senectutis, quod eam carere dicunt voluptatibus. O praeclarum munus aetatis, siquidem id aufert a nobis, quod est in adulescentia vitiosissimum! Accipite enim, optimi adulescentes, veterem orationem Archytae Tarentini, magni in primis et praeclari viri, quae mihi tradita est cum essem adulescens Tarenti cum Q. Maximo. Nullam capitaliorem pestem quam voluptatem corporis hominibus dicebat a natura datam, cuius voluptatis avidae libidines temere et ecfrenate ad potiendum incitarentur. | Segue la terza critica: la vecchiaia, dicono, è priva dei piaceri dei sensi. O magnifico dono dell'età se ci strappa il male più dannoso della giovinezza! Ascoltate, nobili giovani, le antiche parole di Archita di Taranto, uomo tra i più grandi ed eminenti, parole che mi furono riferite quando, da giovane, mi trovavo a Taranto con Quinto Massimo. La natura non ha dato agli uomini peste più esiziale del piacere sensuale, diceva Archita, e le voglie, ingorde di tal piacere e sfrenate, si lanciano ciecamente a conquistarlo. |
"At in Lysandri statuae capite Delphis exstitit corona ex asperis herbis, et quidem subito." Itane? Censes ante coronam herbae exstitisse quam conceptum esse semen? Herbam autem asperam credo avium congestu, non humano satu; iam quicquid in capite est, id coronae simile videri potest. Nam quod eodem tempore stellas aureas Castoris et Pollucis Delphis positas decidisse neque eas usquam repertas esse dixisti, furum id magis factum quam deorum videtur.Simiae vero Dodonaeae improbitatem historiis Graecis mandatam esse demiror. Quid minus mirum quam illam monstruosissumam bestiam urnam evertisse, sortes dissupavisse? Et negant historici Lacedaemoniis ullum ostentum hoc tristius accidisse! Nam illa praedicta Veientium, si lacus Albanus redundasset isque in mare fluxisset, Romam perituram; si repressus esset, Veios ***, ita aqua Albana deducta ad utilitatem agri suburbani, non ad arcem urbemque retinendam. "At paulo post audita vox est monentis ut providerent ne a Gallis Roma caperetur; ex eo Aio Loquenti aram in nova via consecratam". Quid ergo? Aius iste Loquens, quom eum nemo norat, et aiebat et loquebatur et ex eo nomen invenit; posteaquam et sedem et aram et nomen invenit, obmutuit! Quod idem dici de Moneta potest; a qua praeterquam de sue plena quid umquam moniti sumus? | "Ma a Delfi, sulla testa della statua di Lisandro, comparve una corona di erbe selvatiche, e, per di più, improvvisamente." Davvero? Pensi che una corona d'erba possa essere sorta prima che ne sia stato concepito il seme? Del resto, io credo che dell'erba selvatica non sia stata seminata da uomini, ma ammucchiata da uccelli; d'altronde, tutto ciò che si trova su una testa può apparire simile a una corona. Quanto poi al fatto che le stelle d'oro, insegne di Càstore e Pollùce, poste a Delfi, caddero e non si trovarono più in nessun luogo, come hai rammentato, questa mi pare un'impresa di ladri piuttosto che di dèi. Che, poi, la dispettosità di una scimmia di Dodona sia stata tramandata dagli storici greci, è cosa che non finisce di stupirmi. Che c'è di strano in questo, che quella bruttissima bestia abbia rovesciato l'urna e sparpagliato qua e là le sorti? E gli storici dicono che agli spartani non accadde alcun prodigio più malaugurante di questo! Quanto a quelle predizioni fatte ai veienti, che, se il lago Albano fosse traboccato e si fosse riversato in mare, Roma sarebbe andata incontro alla rovina; se invece l'acqua fosse stata trattenuta, la rovina sarebbe toccata a Veio, ‹io credo che› l'acqua del lago Albano fu incanalata per irrigare la campagna attorno a Roma, non per salvare la roccaforte e la città. "Ma poco dopo fu udita una voce che ammoniva i romani di provvedere perché Roma non fosse presa dai Galli; perciò fu consacrata nella Via Nuova un'ara in onore di Aio Loquente. Ma che dire del fatto che Aio Loquente, finché nessuno lo conosceva, parlava e discorreva e in seguito a ciò ebbe questo nome; quando però ottenne la sua ara e il suo nome, ammutolì? La stessa cosa si può dire della dea Moneta; dalla quale, eccettuata l'esortazione a sacrificare una scrofa gravida, quale ammonimento abbiamo mai ricevuto? |
Alter autem C. Fannius M. filius, C. Laeli gener, et moribus et ipso genere dicendi durior. is soceri instituto, quem, quia cooptatus in augurum conlegium non erat, non admodum diligebat, praesertim cum ille Q. Scaevolam sibi minorem natu generum praetulisset—cui tamen Laelius se excusans non genero minori dixit se illud, sed maiori filiae detulisse —, is tamen instituto Laeli Panaetium audiverat. eius omnis in dicendo facultas historia ipsius non ineleganter scripta perspici potest, quae neque nimis est infans neque perfecte diserta. | Invece l'altro Gaio Fannio, figlio di Marco, genero di Gaio Lelio, fu più duro sia nel carattere sia nel tipo di eloquenza. Costui, seguendo l'esempio del suocero, che non amava particolarmente, poiché non era stato cooptato nel collegio degli auguri tanto più che egli gli aveva preferito il genero più giovane, Quinto Scevola tuttavia Lelio, per scusarsi, gli disse di avere conferito quell'onore non al genero più giovane, ma alla figlia maggiore -, costui tuttavia, in base all'esempio di Lelio, aveva seguito l'insegnamento di Panezio? Tutto il suo talento di oratore lo si può valutare dalla sua opera storica, scritta non senza eleganza, in uno stile non eccessivamente stentato ma nemmeno del tutto facondo. |
Cavendum autem est, ne aut tarditatibus utamur [in] ingressu mollioribus, ut pomparum ferculis similes esse videamur, aut in festinationibus suscipiamus nimias celeritates, quae cum fiunt, anhelitus moventur, vultus mutantur, ora torquentur; ex quibus magna significatio fit non adesse constantiam. Sed multo etiam magis elaborandum est, ne animi motus a natura recedant, quod assequemur, si cavebimus ne in perturbationes atque exanimationes incidamus et si attentos animos ad decoris conservationem tenebimus. | Anche nel camminare ci vuole misura: quando si è in cammino, non si tenga un passo troppo lento e molle, come chi va in processione, e quando si ha fretta, non si prenda la corsa, perché il respiro diventa affannoso, il volto si altera e la bocca si storce: segni evidenti che non c'è in noi fermezza di carattere. Ma assai più ancora dobbiamo studiarci che non discordino dalla natura i moti dell'animo; il che ci verrà fatto, se ci guarderemo dal cadere in turbamenti e smarrimenti, e se terremo l'animo sempre vigile e attento a conservare il decoro. |
Haec omnia indices detulerunt, rei confessi sunt, vos multis iam iudiciis iudicavistis, primum quod mihi gratias egistis singu laribus verbis et mea virtute atque diligentia perditorum hominum coniurationem patefactam esse decrevistis, deinde quod P. Lentulum se abdicare praetura coegistis, tum quod eum et ceteros, de quibus iudicastis, in custodiam dandos censuistis, maximeque quod meo nomine supplicationem decrevistis, qui honos togato habitus ante me est nemini; postremo hesterno die praemia legatis Allobrogum Titoque Volturcio dedistis amplissima.Quae sunt omnia eius modi, ut ii, qui in custodiam nominatim dati sunt, sine ulla dubitatione a vobis damnati esse videantur. | Tutto questo è stato riferito dagli informatori, ammesso dagli accusati, giudicato da voi con molte deliberazioni, in un primo momento quando mi avete manifestato la vostra gratitudine con straordinari elogi e avete dichiarato che, grazie alle mie capacità e alla mia solerzia, era stata scoperta la congiura di questi uomini perduti; poi, quando avete costretto Publio Lentulo a dimettersi dalla carica di pretore; in seguito, quando avete deciso di arrestare Lentulo e gli altri che avete giudicato colpevoli; ma, soprattutto, quando avete decretato una cerimonia di ringraziamento a mio nome, onore che nessun civile aveva ricevuto prima di me; infine ieri, quando avete dato ingenti ricompense agli ambasciatori degli Allobrogi e a Tito Volturcio. In seguito a tali iniziative, l'impressione è che gli uomini nominatamente messi agli arresti siano già stati condannati da voi senza esitazione. |
CICERO ATTICO SAL.ix K. H. x fere a Q. Fufio venit tabellarius. nescio quid ab eo litterularum, uti me sibi restituerem; sane insulse, ut solet, nisi forte, quae non ames omnia videntur insulse fieri. scripsi ita ut te probaturum existimo. mihi duas a te epistulas reddidit, unam xi, alteram x ad recentiorem prius et leniorem laudo; si vero etiam Carfulenus Antoni consilia narras turbulenta. atque utinam potius per populum agat quam per senatum! quod quidem ita credo.sed mihi totum eius consilium ad bellum spectare videtur, si quidem D. Bruto provincia eripitur. quoquo modo ego de illius nervis existimo, non videtur fieri posse sine bello. sed non cupio, quoniam cavetur Buthrotiis. rides? aps condoleo non mea potius adsiduitate, diligentia, gratia perfici.quod scribis te nescire quid nostris faciendum sit, iam pridem me illa sollicitat. itaque stulta iam Iduum Martiarum est consolatio. animis enim usi sumus virilibus, consiliis, mihi crede, puerilibus. excisa enim est arbor, non evulsa. itaque quam fruticetur vides. redeamus igitur, quoniam saepe usurpas, ad Tusculanas disputationes. Saufeium de te celemus; ego numquam indicabo. quod te a Bruto scribis, ut certior fieret quo die in Tusculanum essem venturus, ut ad te ante scripsi, vi Kal., et quidem ibi te quam primum per videre velim. puto enim nobis Lanuvium eundum et quidem non sine multo sermone.redeo ad superiorem. ex qua praetereo illa prima de Buthrotiis; quae 'mihi sunt inclusa medullis,' sit modo, ut scribis, locus agendi. de oratione Bruti prorsus contendis quom iterum tam multis verbis agis. egone ut eam causam quam is scripsit? ego scribam non rogatus ab eo? nulla fieri potest contumeliosior. 'at' inquis 'aliquod' non recuso id quidem, sed et componendum argumentum est et scribendi exspectandum tempus maturius. licet enim de me ut libet existimes (velim quidem quam optime), si haec ita manant ut videntur (feres quod dicam), me Idus Martiae non delectant. ille enim numquam revertisset, nos timor confirmare eius acta non coegisset, aut, ut in Saufei eam relinquamque Tusculanas disputationes ad quas tu etiam Vestorium hortaris, ita gratiosi eramus apud illum (quem di mortuum perduint!) ut nostrae aetati, quoniam interfecto domino liberi non sumus, non fuerit dominus ille fugiendus. rubeo, mihi crede, sed iam scripseram; delere nolui.de Menedemo vellem verum fuisset, de regina velim verum sit. cetera coram, et maxime quid nostris faciendum sit, quid etiam nobis, si Antonius militibus obsessurus est senatum. hanc epistulam si illius tabellario dedissem, veritus sum ne solveret. itaque misi dedita. erat enim rescribendum tuis. | CICERONE AD ATTICOI1 24, verso le quattro e mezza del pomeriggio, è arrivato un corriere da parte di Quinto Fufio: non so che speciedi messaggio, con preghiera di riprendere i contatti con lui. Due righe abbastanza idiote, come il suo solito, a me noche non sembri idiota tutto quello che non ci è gradito. Gli ho scritto in un modo che riscuoterà, penso, la tua ap-provazione.Lo stesso corriere mi ha consegnato due lettere tue, una del 22, 1'altra del 23 maggio. Rispondo primaalla più recente, che è più piena di cose. Approvo; se poi c'è anche la defezione di Carfuleno, "alle sorgenti i fiumiora risalgono... " (come direbbe Euripide). I disegni di Antonio, secondo la tua esposizione, sono pura demagogia.Magari coinvolgesse il popolo nelle sue azioni, anziché il senato! Mentre invece credo che sia esattamente il contra-rio.Comunque tutta la sua strategia mi sembra puntare alla guerra, se a Decimo Bruto viene sottratta la provincia.Qualunque sia la mia personale valutazione delle forze di quest'ultimo, non pare che sia possibile cavarsela senzavenire a uno scontro aperto. Ma non lo desidero, poiché si sta provvedendo alla gente di Butroto. Ridi? A me dispia-cesinceramente che non si sia ottenuto piuttosto grazie alla mia insistenza, alla mia premura, ai miei buoni uffici.Quanto a quel che scrivi, di non sapere che debbano fare i nostri, è un pezzo che questo rompicapo mi preoccupa.Per questo oramai mi sembra futile consolarsi col ricordo del 15 marzo. Abbiamo rivelato un coraggio virile e uncervello, credi a me, da bambini. L'albero è stato reciso alla base, non sradicato. Eccoti perciò davanti agli occhiquesto gran rigoglio di polloni. E torniamo a parlare, visto che le nomini tanto spesso, delle mie "DiscussioniTuscolane,". Terrò segreto al tuo compagno di fede Saufeio il tuo tradimento dell'epicureismo: non ti denuncerò mai. Quanto alla richiesta di Bruto di cui ti fai tramite, di essere informato del giorno in cui dovrei arrivare alTuscolo, si tratta - come già scritto a te in precedenza - del 27 prossimo, e conto di vedere lì te appena possibile.Penso infatti di dover andare a Lanuvio e, naturalmente, non senza molte chiacchiere. Ma si vedrà.Vengo adesso alla lettera precedente. Innanzi tutto passo oltre la prima parte che riguarda la vicenda di Butroto:ce l'ho fissa nel cervello, purché - come scrivi tu - ci sia uno spazio per muoversi. Sei molto insistente aproposito del discorso di Bruto, giacché è la seconda volta che ci spendi tante parole. Io dovrei trattare la causa dicui ha scritto lui? Io dovrei scrivere non su sua richiesta? Non si può dare interferenza più offensiva! "Ma - dici tu- un che sul genere della prosa politica di Eraclìde... ". Questo non lo escluderei, però c'è da mettere insieme ilmateriale e da aspettare qualche tempo più in là. Pensa infatti di me come ti pare (certo mi piacerebbe tutto il benepossibile): se la storia procede come pare debba procedere (e abbi pazienza se te lo dico), il 15 marzo non mi dàalcuna soddisfazione. Lui in effetti non sarebbe mai ritornato dalla sua spedizione folle contro i Parti, noi nonsaremmo stati costretti dalla paura a ratificare i suoi atti; oppure, tanto per buttarmi dalla parte di Saufeio e lasciarperdere l'etica delle "Discussioni Tuscolane" (alle quali tu esorti addirittura un Vestorio!), ero tanto addentro ai suoifavori - che il cielo lo stramaledica anche se è morto -, che all'età mia non avrei avuto bisogno di scappare da unpadrone cos', visto che non sono libero adesso che il padrone è stato ammazzato. Sono tutto rosso, credimi; ma quelche ho scritto ho scritto e non voglio cancellarlo.Vorrei che fosse stata vera la notizia di Menedemo, vorrei che fosse vera quella della regina Cleopatra. Il resto avoce, e soprattutto quello che i nostri debbono fare: e anche quello che dobbiamo fare noi, se Antonio ha veramentel'intenzione di far picchettare dalle truppe il senato. Se avessi consegnato questa lettera al corriere di quel tipo, c'erail timore che l'avrebbe aperta. Così l'ho spedita appositamente: c'era da rispondere a tutte e due le tue lettere! |
Nec vero umquam bellorum civilium semen et causa deerit, dum homines perditi hastam illam cruentam et meminerint et sperabunt, quam P. Sulla cum vibrasset dictatore propinquo suo, idem sexto tricensimo anno post a sceleratiore hasta non recessit, alter autem, qui in illa dictatura scriba fuerat, in hac fuit quaestor urbanus. Ex quo debet intellegi talibus praemiis propositis numquam defutura bella civilia. Itaque parietes modo urbis stant et manent, iique ipsi iam extrema scelera metuentes, rem vero publicam penitus amisimus.Atque in has clades incidimus, (redeundum est enim ad propositum), dum metui quam cari esse et diligi malumus. Quae si populo Romano iniuste imperanti accidere potuerunt, quid debent putare singuli? Quod cum perspicuum sit benivolentiae vim esse magnam, metus imbecillam, sequitur ut disseramus, quibus rebus facillime possimus eam, quam volumus, adipisci cum honore et fide caritatem. | Non mancheranno mai il germe e il motivo delle guerre civili. finché gli uomini perversi ricorderanno quell'asta sanguinosa e spereranno in essa. L'aveva vibrata Publio Silla mentre era dittatore un suo parente, e dopo trentasei anni non si ritrasse da un'asta ancor più scellerata. Quell'altro Silla, che in quella prima dittatura era stato scrivano, in questa fu questore urbano. Da ciò si può comprendere che le guerre civili non mancheranno mai, allorché si propongono tali premi. Perciò solamente le mura della città rimangono in piedi e perdurano, ed esse pure, ormai, col timore di estremi crimini, ma la repubblica l'abbiamo interamente perduta. E se tali mali poterono accadere al popolo romano per un ingiusto esercizio del potere, che cosa devono aspettarsi i singoli cittadini? Pur essendo evidente che la forza della benevolenza sia grande, quella della paura debole, resta da trattare con quali mezzi possiamo conseguire nel modo più facile quell'affetto che noi vogliamo, insieme con l'onore e la lealtà. |
At etiam sunt, qui dicant, Quirites, a me eiectum in exilium esse Catilinam. Quod ego si verbo adsequi possem, istos ipsos eicerem, qui haec locuntur. Homo enim videlicet timidus aut etiam permodestus vocem consulis ferre non potuit; simul atque ire in exilium iussus est, paruit, ivit. Hesterno die, Quirites, cum domi meae paene interfectus essem, senatum in aedem Iovis Statoris convocavi, rem omnem ad patres conscriptos detuli. Quo cum Catilina venisset, quis eum senator appellavit, quis salutavit, quis denique ita aspexit ut perditum civem ac non potius ut inportunissimum hostem? Quin etiam principes eius ordinis partem illam subselliorum, ad quam ille accesserat, nudam atque inanem reliquerunt. | Ma c'è anche chi sostiene, Quiriti, che sono stato io a mandare in esilio Catilina. Se potessi ottenere un simile risultato con la parola, manderei in esilio proprio chi avanza simili insinuazioni. Un uomo così timoroso, così pieno di moderazione come Catilina non ha saputo sopportare la voce del console! Non appena gli è stato ordinato di andare in esilio, ha obbedito. Ma ascoltate: ieri, dopo aver rischiato la vita in casa mia, ho convocato il Senato nel tempio di Giove Statore e ho illustrato tutta la situazione ai senatori. Quando Catilina si è presentato, quale senatore gli ha rivolto la parola? Chi lo ha salutato? Chi non lo ha guardato come si guarda un cittadino corrotto, che dico, il peggior nemico? Non solo: i principali esponenti dell'ordine senatorio hanno lasciato completamente sgombro il settore dei seggi a cui lui si era avvicinato. |
Sed ea non pariter omnes egemus; nam ad cuiusque vitam institutam accommodandum est, a multisne opus sit an satis sit a paucis diligi. Certum igitur hoc sit, idque et primum et maxime necessarium familiaritates habere fidas amantium nos amicorum. Haec enim est una res prorsus, ut non multum differat inter summos et mediocres viros, eaque utrisque est propemodum comparanda. | Non tutti ne abbiamo ugualmente bisogno: deve essere proporzionato al modo in cui ciascuno regola la propria vita, se gli sia necessario l'esser amato da molti o da pochi. Si tenga ben fermo questo suggerimento, che è il primo ed il più importante, e cioè di avere la familiarità e la fedeltà degli amici che ci amano e ci ammirano. Questo è sicuramente il solo aspetto in cui non ci sia molta differenza tra gli uomini grandi e quelli mediocri: ambedue se lo devono procurare nella stessa misura. |
Sed quid plura? Ortum videamus haruspicinae; sic facillume quid habeat auctoritatis iudicabimus. Tages quidam dicitur in agro Tarquiniensi, cum terra araretur et sulcus altius esset impressus, exstitisse repente et eum adfatus esse qui arabat. Is autem Tages, ut in libris est Etruscorum, puerili specie dicitur visus, sed senili fuisse prudentia. Eius adspectu cum obstipuisset bubulcus clamoremque maiorem cum admiratione edidisset, concursum esse factum, totamque brevi tempore in eum locum Etruriam convenisse.Tum illum plura locutum multis audientibus, qui omnia verba eius exceperint litterisque mandarint. Omnem autem orationem fuisse eam qua haruspicinae disciplina contineretur; eam postea crevisse rebus novis cognoscendis et ad eadem illa principia referendis. Haec accepimus ab ipsis, haec scripta conservant, hunc fontem habent disciplinae. Num ergo opus est ad haec refellenda Carneade? Num Epicuro? Estne quisquam ita desipiens, qui credat exaratum esse, deum dicam an hominem? Si deum, cur se contra naturam in terram abdiderat, ut patefactus aratro lucem adspiceret? Quid? Idem nonne poterat deus hominibus disciplinam superiore e loco tradere? Si autem homo ille Tages fuit, quonam modo potuit terra oppressus vivere? Unde porro illa potuit, quae docebat alios, ipse didicisse? Sed ego insipientior quam illi ipsi qui ista credunt, qui quidem contra eos tam diu disputem. | Ma a che scopo dilungarci? Vediamo l'origine dell'aruspicìna; così giudicheremo nel modo più facile quale autorità essa abbia. Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tagete parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero poi per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicìna; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina. C'è dunque bisogno di Carneade per confutare cose del genere? O c'è bisogno di Epicuro? Può esserci qualcuno tanto insensato da credere che un essere vivente, non saprei dire se dio o uomo, sia stato tratto di sotterra da un aratro? Se devo considerarlo un dio, perché, contro la natura degli dèi, si era nascosto sotterra, sì da veder la luce solo quando fu messo allo scoperto da un aratro? Non poteva, essendo un dio, esporre agli uomini la sua dottrina dall'alto? Se, d'altra parte, quel Tagete era un uomo, come poté vivere soffocato dalla terra? Da chi, inoltre, poté aver appreso egli stesso ciò che andava insegnando agli altri? Ma sono io più sciocco di quelli che credono a queste cose, io che perdo tanto tempo a discutere contro di loro! |
Sunt etiam, qui aut studio rei familiaris tuendae aut odio quodam hominum suum se negotium agere dicant nec facere cuiquam videantur iniuriam. Qui altero genere iniustitiae vacant, in alterum incurrunt; deserunt enim vitae societatem, quia nihil conferunt in eam studii, nihil operae, nihil facultatum. | Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben custodire i propri beni, o per una certa avversione verso gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra: abbandonano l'umana società, perché non dedicano ad essa né amore, né attività, né denaro. |
Quid enim tam absurdum quam delectari multis inanimis rebus, ut honore, ut gloria, ut aedificio, ut vestitu cultuque corporis, animante virtute praedito, eo qui vel amare vel, ut ita dicam, redamare possit, non admodum delectari? Nihil est enim remuneratione benevolentiae, nihil vicissitudine studiorum officiorumque iucundius. | Siamo appagati da molte cose vane: onori, gloria, casa, vestiti, forma fisica, ma non apprezziamo affatto l'animo virtuoso, capace di amare e, per così dire, di ricambiare l'amore. C'è follia più grande? Niente, infatti, è più piacevole del reciproco affetto e della corrispondenza di attenzioni e cortesie. |
Causas, Caesar, egi multas, equidem tecum, dum te in foro tenuit ratio honorum tuorum, certe numquam hoc modo: "Ignoscite, iudices, erravit, lapsus est, non putavit, si umquam posthac...". Ad parentem sic agi solet; ad iudices: "Non fecit, non cogitavit; falsi testes, fictum crimen". Dic te, Caesar, de facto Ligari iudicem esse, quibus in praesidiis fuerit quaere; taceo, ne haec quidem colligo quae fortasse valerent etiam apud iudicem: "Legatus ante bellum profectus, relictus in pace, bello oppressus, in eo ipso non acerbus, totus animo et studio tuus".Ad iudicem sic, sed ego apud parentem loquor: "Erravi, temere feci, paenitet; ad clementiam tuam confugio, delicti veniam peto, ut ignoscatur oro". Si nemo impetravit, adroganter; si plurimi, tu idem fer opem qui spem dedisti. | Di cause, o Cesare, ne ho trattate molte con te, finché la tua carriera politica ti trattenne nel foro; nessuna, di certo, così: "Perdonate, o giudici; ha sbagliato, è caduto in errore, non ha creduto di far male; se mai, in avvenire dinanzi ad un padre si suole trattare così. Dinanzi ai giudici: "Non ha commesso il fatto, non ha avuto intenzione di commetterlo, sono falsi i testimoni, è falsa l'accusa". Dichiara, o Cesare, di farla da giudice nella questione di Ligario, cerca in quali file egli si sia schierato. Resto muto, non metto insieme neppure quegli argomenti che forse avrebbero valore anche dinanzi al giudice: "Partito come luogotenente prima della guerra, lasciato solo in tempo di pace, sorpreso dallo scoppio delle ostilità, vi partecipa senza accanimento, con lo zelo del suo animo è tutto a te devoto. Davanti a un giudice parlerei così, ma io parlo davanti a un padre: "Ho sbagliato, ho agito con avventatezza, mi pento; cerco rifugio nella tua clemenza, ti chiedo perdono del mio errore, ti prego di perdonarmi". Se nessuno ha ottenuto grazia da te, la mia preghiera è indiscreta, ma se moltissimi l'hanno ottenuta, tu, che ci hai dato la speranza, dacci anche l'aiuto. |
Omnium somniorum, Quinte, una ratio est; quae, per deos immortalis, videamus ne nostra superstitione et depravatione superetur. Quem enim tu Marium visum a me putas? Speciem, credo, eius et imaginem, ut Democrito videtur. Unde profectam imaginem? A corporibus enim solidis et a certis figuris vult fluere imagines; quod igitur Mari corpus erat? "Ex eo," inquit, "quod fuerat." Ista igitur me imago Mari in campum Atinatem persequebatur? "Plena sunt imaginum omnia; nulla enim species cogitari potest nisi pulsu imaginum." Quid ergo? Istae imagines ita nobis dicto audientes sunt, ut, simul atque velimus, accurrant? Etiamne earum rerum quae nullae sunt? Quae est enim forma tam invisitata, tam nulla, quam non sibi ipse fingere animus possit, ut, quae numquam vidimus, ea tamen informata habeamus, oppidorum situs, hominum figuras? Num igitur, cum aut muros Babylonis aut Homeri faciem cogito, imago illorum me aliqua pellit? Omnia igitur quae volumus nota nobis esse possunt: nihil est enim de quo cogitare nequeamus; nullae ergo imagines obrepunt in animos dormientium extrinsecus, nec omnino fluunt ullae; nec cognovi quemquam qui maiore auctoritate nihil diceret.Animorum est ea vis eaque natura, ut vigeant vigilantes nullo adventicio pulsu, sed suo motu incredibili quadam celeritate. Hi cum sustinentur membris et corpore et sensibus, omnia certiora cernunt, cogitant, sentiunt. Cum autem haec subtracta sunt desertusque animus languore corporis, tum agitatur ipse per sese. Itaque in eo et formae versantur et actiones, et multa audiri, multa dici videntur. Haec scilicet in imbecillo remissoque animo multa omnibus modis confusa et variata versantur, maxumeque reliquiae rerum earum moventur in animis et agitantur, de quibus vigilantes aut cogitavimus aut egimus; ut mihi temporibus illis multum in animo Marius versabatur recordanti quam ille gravem suum casum magno animo, quam constanti tulisset. Hanc credo causam de illo somniandi fuisse. | Di tutti i sogni, caro Quinto, una sola è la causa; e noi, per gli dèi immortali, stiamo attenti a non oscurarla con la nostra superstizione e con le nostre idee distorte. Quale Mario tu pensi che io abbia visto in sogno? Una sua sembianza, credo, una sua immagine, come ritiene Democrito. Donde sarebbe provenuta codesta immagine? Democrito sostiene che dai corpi solidi e da oggetti ben delimitati si emanano le immagini; a che cosa si era, dunque, ridotto ormai il corpo di Mario? "L'immagine," replicherà un democriteo, "provenne da quello che era stato il corpo di Mario." Era dunque codesta l'immagine di Mario che mi si fece incontro nella pianura di Atina? "Tutto lo spazio è pieno d'immagini: nessuna percezione è concepibile senza che qualche immagine colpisca la nostra vista." Ma, dunque, codeste immagini sono talmente obbedienti ai nostri ordini da accorrere appena noi lo vogliamo? Anche le immagini di quelle cose che non esistono? Ma quale figura c'è, tanto giammai veduta, tanto inesistente, che l'anima non possa costruirsi con la fantasia, di modo che noi possiamo rappresentarci dentro di noi cose che non abbiamo mai visto, città collocate in una data posizione, sembianze di uomini? Quando, dunque, penso alle mura di Babilonia o al volto di Omero, è forse una loro immagine che viene a colpirmi? In tal caso, tutto ciò che vogliamo può esserci noto, poiché non c'è niente a cui non possiamo pensare; nessuna immagine, dunque, s'insinua dal di fuori nelle anime dei dormienti, né, in generale, si distacca dai corpi solidi; e io non ho avuto notizia di alcuno che con maggiore autorità dicesse cose senza senso. Alle anime appartiene il potere e la caratteristica di essere sempre attive e vigilanti, non per un impulso esterno, ma per il proprio movimento straordinariamente veloce. Quando le anime hanno al loro servizio le membra, il corpo, i sensi, vedono, pensano, percepiscono tutto con più nitidezza. Quando questi ausilii vengono meno e l'anima rimane sola per il sopore del corpo, rimane da sola in stato di attività. Perciò in essa si presentano visioni e azioni, e all'anima sembra di ascoltare molte cose, di dirne molte. Queste numerose impressioni, confuse e modificate in ogni maniera, si agitano nell'anima indebolita e abbandonata a se stessa; e quelli che soprattutto si muovono e agiscono nelle anime sono i resti di ciò che abbiamo pensato o fatto quando eravamo svegli. Per esempio, in quell'epoca io pensavo molto a Mario, ricordando con quale grandezza d'animo, con quale fermezza aveva affrontato la sua grave sventura. Questa, credo, fu la ragione per cui io lo sognai. |
Quid enim censemus superiorem illum Dionysium quo cruciatu timoris angi solitum, qui cultros metuens tonsorios candente carbone sibi adurebat capillum? Quid Alexandrum Pheraeum quo animo vixisse arbitramur? Qui, ut scriptum legimus, cum uxorem Theben admodum diligeret, tamen ad eam ex epulis in cubiculum veniens barbarum, et eum quidem, ut scriptum est, conpunctum notis Thraeciis destricto gladio iubebat anteire praemittebatque de stipatoribus suis qui scrutarentur arculas muliebres et, ne quod in vestimentis telum occultaretur, exquirerent.O miserum, qui fideliorem et barbarum et stigmatiam putaret, quam coniugem. Nec eum fefellit; ab ea est enim ipsa propter pelicatus suspicionem interfectus. Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna. | E che? Possiamo noi comprendere da qual tormentoso timore veniva di solito assalito il famoso Dionigi il Vecchio, che temendo il rasoio del barbiere si bruciava da sé la barba con un tizzone ardente? E che? Con quale animo pensiamo che sia vissuto Alessandro di Fere? Costui - come si legge - pur amando molto la propria moglie, Tebe, tuttavia quando dal banchetto si recava nella sua stanza ordinava ad un barbaro, addirittura tatuato - come è scritto al modo dei Traci, di andare avanti con la spada sguainata e si faceva precedere da alcuni sgherri, incaricati di perquisire gli scrigni della donna e di accertarsi che non fosse nascosta un' arma tra le vesti. O infelice, che riteneva più fedele un barbaro tatuato che la propria moglie! E non si sbagliò: fu ucciso per mano della moglie, per sospetto d'infedeltà. Non c'è, in verità, alcuna forza di potere tanto grande che possa resistere a lungo sotto l'oppressione del timore. |
Hic ego, etsi eram perterritus non tam mortis metu quam insidiarum a meis, quaesivi tamen, viveretne ipse et Paulus pater et alii, quos nos exstinctos arbitraremur. "Immo vero", inquit, "hi vivunt, qui e corporum vinculis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero, quae dicitur, vita mors est. Quin tu aspicis ad te venientem Paulum patrem?". Quem ut vidi, equidem vim lacrimarum profudi, ille autem me complexus atque osculans flere prohibebat. | A questo punto io, anche se ero spaventato non tanto dal timore della morte quanto delle insidie da parte dei miei, chiesi tuttavia se vivessero lui stesso e mio padre Paolo e altri, che crediamo siano morti. "Tutt'altro", disse, "vivono questi, che volarono dai vincoli del corpo come da un carcere, mentre la vostra, che è detta vita, è morte. Perché non vedi tuo padre Paolo che ti viene incontro?". Appena lo vidi, proruppi in lacrime, ma lui abbracciandomi e baciandomi cercava di impedirmi il pianto. |
Reprimam iam me, non insequar longius, eoque minus quo plus poenarum habeo quam petivi. Tantum ponam brevi, duplicem poenam esse divinam, quod constat et ex vexandis vivorum animis et ea fama mortuorum, ut eorum exitium et iudicio vivorum et gaudio conprobetur. | Ma ora devo trattenermi ormai, e non potrei continuare oltre, tanto più che essi subirono punizioni maggiori di quanto io ne avessi richieste; soltanto vorrei affermare in poche parole questo, che duplice è la punizione divina, in quanto consiste nel tormentarne l'animo mentre gli uomini sono in vita, e la loro reputazione dopo morti è tale che la loro rovina è accolta dal giudizio e dalla gioia dei viventi. |
Videtisne igitur ut (Tarquinius) de rege dominus exstiterit, uniusque vitio genus reipublicae ex bono in taeterrimum conversum sit? Hic est enim dominus populi, quem Graeci tyrannum vocant. Nam regem illum volunt esse, qui consulit ut pater conservatque eos quibus est praepositus, quam optima in condicionem vivendi. Regia potestas sane bonum est reipublicae genus, ut dixi, sed tamen inclinatum et quasi pronum ad perniciosissimum statum. | Dunque, voi non vi accorgete (rendete conto) che (Tarquinio) sia divenuto da re despota, e che per colpa di una sola persona il popolo di una nazione si sia trasformato da probo a molto turpe? Questi infatti è il dominus populi che i Greci definiscono tiranno. Infatti ritengono che il re sia colui che si prende cura come un padre e mantiene nella migliore condizione di vita coloro ai quali è stato preposto. La monarchia è certamente un buon tipo di governo, come ho già affermato, ma tuttavia incline e quasi propenso ad una degenerazione estremamente pericolosa. |
Sed aliter leges, aliter philosophi tollunt astutias; leges, quatenus manu tenere possunt, philosophi, quatenus ratione et intellegentia. Ratio ergo hoc postulat, ne quid insidiose, ne quid simulate, ne quid fallaciter. Suntne igitur insidiae tendere plagas, etiam si excitaturus non sis, nec agitaturus? Ipsae enim ferae nullo insequente saepe incidunt. Sic tu aedes proscribas, tabulam tamquam plagam ponas, [domum propter vitia vendas,] in eam aliquis incurrat inprudens? | Ma le leggi reprimono i raggiri in un modo, in un altro i filosofi: le leggi, nei limiti in cui possono perseguirle legalmente, i filosofi, nei limiti in cui possono farlo con la ragione e l'intelligenza. Orbene, la ragione esige che non si faccia nulla con tranelli, nulla con simulazione, nulla con inganno. Costituisce allora un'insidia tendere le reti, anche se non hai intenzione di metterti a scovare la selvaggina o a spingerla verso di esse? Che le fiere vanno a cadervi spesso da sole, senza che nessuno le insegua. Così tu potresti mettere in vendita una casa, esporre un cartello, come se fosse una rete, [vendere la casa per i suoi difetti], e qualcuno potrebbe incapparvi inavvertitamente? |
Haec detur cura censoribus, quando quidem eos in re publica semper volumus esse. Apud eosdem qui magistratu abierint edant et exponant, quid in magistratu gesserint, deque iis censores praeiudicent. Hoc in Graecia fit publice constitutis accusatoribus, qui quidem graves esse non possunt, nisi sunt voluntarii. Quocirca melius rationes referri causamque exponi censoribus, integram tamen legi accusatori iudicioque servari. Sed satis iam disputatum est de magistratibus, nisi forte quid desideratis.Atticus:Quid? Si nos tacemus, locus ipse te non admonet, quid tibi sit deinde dicendum?Marcus:Mihine? De iudiciis arbitror Pomponi; id est enim iunctum magistratibus. | Questo incarico dovrebbe essere affidato ai censori, dal momento che noi vogliamo che essi siano sempre presenti nel nostro Stato. Coloro i quali escono da una magistratura dichiarino ed espongano presso i medesimi ciò che essi hanno compiuto durante tutta la carica ricoperta, ed i censori ne diano un giudizio preliminare. Questo in Grecia lo si fa nominando dei pubblici accusatori, i quali non possono agire con severità se non sono volontari. Per questo è meglio che si dia conto ai censori e si espongano loro le giustificazioni, e che tuttavia resti immune da pregiudizi l'azione della legge, dell'accusatore e dell'autorità giudiziaria. Ma ormai abbiamo discusso abbastanza dei magistrati, a meno che non vogliate sapere qualcosa di più.Attico:Perché? Se noi ce ne stiamo zitti, l'argomento stesso non te lo richiama in mente. Che cos'altro dovresti dirci?Marco:Io? Credo qualcosa sui processi, Pomponio; questo infatti è connesso con i magistrati. |
Quae cum ego non solum suspicarer, sed plane cernerem - neque enim obscure gerebantur - dixi in senatu in hoc magistratu me popularem consulem futurum. Quid enim est tam populare quam pax? qua non modo ei quibus natura sensum dedit sed etiam tecta atque agri mihi laetari videntur. Quid tam populare quam libertas? quam non solum ab hominibus verum etiam a bestiis expeti atque omnibus rebus anteponi videtis. Quid tam populare quam otium? quod ita iucundum est ut et vos et maiores vestri et fortissimus quisque vir maximos labores suscipiendos putet, ut aliquando in otio possit esse, praesertim in imperio ac dignitate.Quin idcirco etiam maioribus nostris praecipuam laudem gratiamque debemus, quod eorum labore est factum uti impune in otio esse possemus. Qua re qui possum non esse popularis, cum videam haec omnia, Quirites, pacem externam, libertatem propriam generis ac nominis vestri, otium domesticum, denique omnia quae vobis cara atque ampla sunt in fidem et quodam modo in patrocinium mei consulatus esse conlata? | Ed io, non solo sospettanto queste cose, ma vedendo(le) chiaramente - e infatti non accadevano di nascosto -, ho detto in senato che in questa carica sarei stato console del popolo. E infatti cosa c'è di tanto popolare quanto la pace? E mi sembra che non solo quelli ai quali la natura ha dato la percezione, ma anche tetti e campi si rallegrino di questa. Che c'è di tanto popolare quanto la libertà? E vedete che essa e ricercata non solo dagli uomini, ma anche dalle bestia e che è anteposta a tutte le (altre) cose. Che c'è di tanto popolare che la tranquillità? Ed essa è così allegra che sia voi che i vostri antenati e tutti gli uomini più forti pensano che bisogna sobbarcarsi le fatiche più grandi affinché una buona volta si possa stare in tranquillità, specialmente (gli uomini impegnati) nel comando e nella dignità (= i più prestigiosi). Che perciò anzi dobbiamo una lode precipua ai nostri antenati perché grazie alla loro fatica è avvenuto che noi possiamo stare tranquillamente in pace. Pertanto come posso non essere dalla parte del popolo, vedendo che tutte queste cose, Quiriti, (e cioè) la pace esterna, la libertà propria della vostra stirpe e del (vostro) nome, la tranquillità interna e infine tutte le cose che vi sono care e importanti, sono state portate in garanzia e in qualche modo tutela del mio consolato? |
Hic tu qua laetitia perfruere, quibus gaudiis exultabis, quanta in voluptate bacchabere, cum in tanto numero tuorum neque audies virum bonum quemquam neque videbis! Ad huius vitae studium meditati illi sunt, qui feruntur, labores tui, iacere humi non solum ad obsidendum stuprum, verum etiam ad facinus obeundum, vigilare non solum insidiantem somno maritorum, verum etiam bonis otiosorum. Habes, ubi ostentes tuam illam praeclaram patientiam famis, frigoris, inopiae rerum omnium, quibus te brevi tempore confectum esse senties. | Che gioia proverai con loro! Di quale piacere sarai pervaso! Quale delirante ebbrezza ti prenderà quando, tra tanti complici, non sentirai né vedrai un solo uomo onesto! In ossequio a questa vita si produssero gli sforzi di cui si parla: giacere sulla nuda terra per preparare una violenza, anzi, per commettere un delitto, passare la notte a insidiare il sonno dei mariti, anzi, i beni dei pacifici cittadini. Hai l'occasione di mostrare la tua famosa resistenza alla fame, al freddo, alle privazioni che tra poco, te ne accorgerai, ti stroncheranno. |
BRVTVS ATTICO SAL.scribis mihi mirari Ciceronem quod nihil significem umquam de suis actis. quoniam me flagitas, coactu tuo scribam quae sentio. omnia fecisse Ciceronem optimo animo scio; quid enim mihi exploratius esse potest quam illius animus in rem publicam? sed quaedam mihi videtur — quid dicam? imperite vir omnium prudentissimus an ambitiose fecisse qui valentissimum Antonium suscipere pro re publica non dubitarit inimicum. nescio quid scribam tibi nisi unum, pueri et cupiditatem et licentiam potius esse inritatam quam repressam a Cicerone, tantumque eum tribuere huic indulgentiae ut se maledictis non abstineat iis quidem quae in ipsum dupliciter recidunt, quod et pluris occidit uno seque prius oportet fateatur sicarium quam obiciat Cascae quod obicit et imitatur in Casca Bestiam.an quia non omnibus horis iactamus Idus Martias similiter atque ille Nonas Decembris suas in ore habet, eo meliore condicione Cicero pulcherrimum factum vituperabit quam Bestia et Clodius reprehendere illius consulatum soliti sunt? sustinuisse mihi gloriatur bellum Antoni togatus Cicero noster! quid hoc mihi prodest, si merces Antoni oppressi poscitur in Antoni locum successio et si vindex illius mali auctor exstitit alterius fundamentum et radices habituri altiores, si patiamur? ut iam ista quae facit dominationem an dominum [an Antonium] timentis sint. ego autem gratiam non habeo si quis, dum ne irato serviat, rem ipsam non deprecatur. immo triumphus et stipendium et omnibus decretis hortatio ne eius pudeat concupiscere fortunam cuius nomen susceperit, consularis aut Ciceronis est? quoniam mihi tacere non licuit, leges quae tibi necesse est molesta esse. etenim ipse sentio quanto cum dolore haec ad te scripserim, nec ignoro quid sentias in re publica et quam desperatam quoque sanari putes posse. nec me hercule te, Attice, reprehendo. aetas enim, mores, liberi segnem efficiunt; quod quidem etiam ex Flayio nostro perspexi. sed redeo ad Ciceronem. quid inter Salvidienum et eum interest? quid autem amplius ille decerneret? 'timet,' inquis, 'etiam nunc reliquias belli civilis.' quisquam ergo ita timet profligatum ut neque potentiam eius qui exercitum victorem habeat neque temeritatem pueri putet extimescendam esse? an hoc ipsum ea re facit, quod illi propter amplitudinem omnia iam ultroque deferenda putat? O magnam stultitiam timoris, id ipsum quod verearis ita cavere ut, cum vitare fortasse potueris, ultro arcessas et attrahas. nimium timemus mortem et exsilium et paupertatem. haec nimirum videntur Ciceroni ultima esse in malis et, dum habeat a quibus impetret quae velit et a quibus colatur ac laudetur, servitutem, honorificam modo, non aspernatur, si quicquam in extrema ac miserrima contumelia potest honorificum esse. licet ergo patrem appellet Octavius Ciceronem, referat omnia, laudet, gratias agat, tamen illud apparebit verba rebus esse contraria. quid enim tam alienum ab humanis sensibus est quam eum patris habere loco qui ne liberi quidem hominis numero sit? atqui co tendit, id agit, ad eum exitum properat vir optimus ut sit illi Octavius propitius. ego vero iam iis artibus nihil tribuo quibus Ciceronem scio instructissimum esse. quid enim illi prosunt quae pro libertate patriae, de dignitate, quae de morte, exsilio, paupertate scripsit copiosissime? quanto autem magis illa callere videtur Philippus qui privigno minus tribuerit quam Cicero qui alieno tribuat! desinat igitur gloriando etiam insectari dolores nostros. quid enim nostra victum esse Antonium, si victus est ut alii vacaret quod ille obtinuit? [6] tametsi tuae litterae dubia etiam nunc significant. vivat hercule Cicero, qui potest, supplex et obnoxius, si neque aetatis neque honorum neque rerum gestarum pudet; ego certe quin cum ipsa re bellum geram, hoc est cum regno et imperiis extraordinariis et dominatione et potentia quae supra leges se esse velit, nulla erit tam bona condicio serviendi qua deterrear, quamvis sit vir bonus, ut scribis, +Antonius+; quod ego numquam existimavi. sed dominum ne parentem quidem maiores nostri voluerunt esse. te nisi tantum amarem quantum Ciceroni persuasum est diligi ab Octavio, haec ad te non scripsissem. dolet mihi quod tu nunc stomacharis amantissimus cum tuorum omnium tum Ciceronis; sed persuade tibi de voluntate propria mea nihil esse remissum, de iudicio largiter. neque enim impetrari potest quin quale quidque videatur ei talem quisque de illo opinionem habeat.vellem mihi scripsisses quae condiciones essent Atticae nostrae; potuissem aliquid tibi de meo sensu perscribere. valetudinem Porciae meae tibi curae esse non miror. denique quod petis faciam libenter; nam etiam sorores me rogant. et hominem noro et quid sibi voluerit. | MARCO GIUNIO BRUTO AD ATTICOMi scrivi che Cicerone è un po' meravigliato che io non faccia mai dei riferimenti al suo operato: poiché la tua richiestaè esplicita, mi obblighi a mettere per iscritto quello che è il mio personale parere. So che Cicerone ha fatto tuttocon le migliori intenzioni: e in effetti, che cosa c'è che io abbia potuto verificare meglio della sua buona fede in materiadi politica? Pure, ho l'impressione che alcune delle iniziative di quest'uomo, pieno di sensibilità e di accortezza più diogni altro, siano nate -come devo dire?-o dalla inesperienza o dalla presunzione. Fatto sta che, per il bene della patria,non ha esitato un momento a dichiarare guerra ad Antonio quando era più potente che mai. Non so che cosa scriverti,tranne una cosa sola: che tanto l'ambizione quanto la mancanza di scrupoli del giovane Ottavio sono state attizzateanziché soffocate da Cicerone e che egli è tanto indulgente nei suoi confronti, che quello non si trattiene dagli insulti piùvolgari e per giunta da quelli che possono ricadere due volte contro di lui, dal momento che ha ucciso più di chiunque edeve ammettere di essere lui un assassino prima di rinfacciare a Casca quello che gli rinfaccia, mentrenell'attaccare Casca si comporta tale e quale a Calpurnio Bestia. O per il fatto che noi non ci riempiamo tutti imomenti la bocca con il 15 marzo, come a lui che ha sempre sulle labbra il suo 5 dicembre, potrà Ciceronerecriminare su una impresa gloriosa a maggior titolo di quanto Bestia e Clodio erano soliti lanciare impropericontro il suo consolato? Il nostro Cicerone si vanta poi con me di aver resistito senza rivestire l'uniformeall'attacco armato di Antonio. A che mi giova, se la ricompensa per la sconfitta di Antonio è la richiesta di far su-bentrareun altro al posto di Antonio e se il vindice di quel demonio è diventato il consigliere privato di un altro de-moniodestinato a prendere piede e a mettere radici ancora più profonde? Dobbiamo ammettere che il suo com-portamentoattuale sia dettato dalla paura della tirannide o di un tiranno o specificamente di Antonio? Io per menon mi sento obbligato se uno, nel mentre rifiuta di servire un padrone in preda all'ira, non condanna a chiarelettere contemporaneamente l'idea stessa del dispotismo. Anzi, un trionfo, paghe speciali per i soldati e in ognidecreto un'esortazione a non vergognarsi di ambire al successo dell'uomo di cui ha assunto il nome. Questo èdegno di un ex console repubblicano o di un Cicerone?Poiché non mi è stato concesso di tacere, leggerai cose che necessariamente ti arrecheranno dispiacere; ineffetti, io stesso mi accorgo con quanto dolore ti abbia parlato in questo modo, né ignoro quali siano le tueposizioni politiche e come tu sia dell'avviso che alla situazione -per quanto disperata-possa trovarsi rimedio: egiuro al cielo, Attico, che non ti muovo alcun rimprovero! I tuoi anni, le tue abitudini di vita, i figli ti rendono pocoproclive agli entusiasmi, cosa di cui mi ha fatto accorgere, in verità, anche l'amico Flavio. Ma torniamo aCicerone. Che differenza c'è fra lui e un Salvidieno Rulo? Quali onoranze maggiori proporrebbe per Ottavio unavventuriero arrivista come Salvidieno? Tu mi dirai: "Ma teme ancora gli ultimi soprassalti della guerra civile...".E allora, chiunque abbia tanta paura di un uomo sbaragliato sul campo non dovrebbe ritenere temibili sia lapotenza di chi ha in mano l'esercito vincitore sia i colpi di testa di un ragazzino? Oppure questo stessocomportamento deriva dalla considerazione che in omaggio alla sua "grandezza" bisogna oramai concedergli tuttoe di propria iniziativa? Quanta stupidità nella paura: prendere tante precauzioni contro l'oggetto stesso delle tuediffidenze da finire per attirarlo e farlo venire da te spontaneamente, quando forse lo si sarebbe potuto evitare!Abbiamo troppo timore della morte, dell'esilio, della povertà: queste ovviamente a Cicerone sembrano le sventureestreme, e pur di avere da chi ottenere quel che vuole e da chi essere incensato ed elogiato, non disdegna la servitù,purché fruttuosa di riconoscimenti - ammesso che possa esistere alcunché di fruttuoso in tal senso nell'ultimo epiù miserabile degli affronti.Ottavio chiami pure "padre", allora, Cicerone, deferisca ogni cosa al suo giudizio, lo elogi, lo ringrazi: si vedràchiaramente, nonostante tutto, che le parole non corrispondono ai fatti. Che c'è di tanto aborrente dalla sensibilitàumana quanto l'avere in luogo di padre uno che non si può nemmeno annoverare tra gli uomini liberi? Eppure aquello tende, per quello si adopera, verso quella meta si affretta questa degna persona: avere Ottavio favorevole.Dal canto mio oramai non concedo nulla a quelle arti, nelle quali so che Cicerone è preparatissimo. A che gligiovano le decine di pagine fastosamente dedicate alla difesa della libertà della patria, alla dignità personale, allamorte, all'esilio, alla povertà? Quanto in esse sembra più ferrato Filippo, che ha concesso al figliastro meno diquanto Cicerone conceda a un estraneo! Smetta dunque di esacerbare con l'aggiunta delle sue vanterie le nostresofferenze: che cosa ne viene a noi dal fatto che Antonio è stato vinto, se è stato vinto per poi lasciare a un altro ilposto che occupava lui? Benché tuttavia la tua lettera contenga ancora qualche dubbio in proposito. Viva alloraCicerone, perdio, che lo può, supplichevole e sottomesso, se non ha rispetto né per gli anni che ha né per le benemerenze acquisite né per il ricordo del suo passato: per me non ci saranno certamente condizioni di schiavitùtanto favorevoli, che siano capaci di distogliermi dal combattere contro una realtà che è fatta di aspirazionimonarchiche e di poteri straordinari e di tirannia e di sopraffazioni e che pretende di essere al di sopra delle leggi,benché Ottavio sia - come scrivi tu - una brava persona: cosa che io non ho mai creduto. Ma i nostri antenatinemmeno uno del loro sangue vollero come padrone. Se non avessi per te tanto affetto quanto Cicerone è persuasodi averne da parte di Ottavio, non ti avrei scritto queste cose: mi duole che tu ora possa disgustarti, dal momentoche tutti i tuoi amici ti sono cari ed egualmente Cicerone; ma convinciti che la mia personale simpatia nei suoiconfronti non ne esce minimamente incrinata: lo è invece, e ampiamente, d giudizio sul suo comportamento e non èassolutamente possibile trovare nessuno che non si faccia di lui un'opinione simile, una volta che tali siano lepremesse.Vorrei che mi avessi informato sul contratto nuziale della nostra cara Attica: avrei potuto esprimerti qualcosadelle mie impressioni. Non mi sorprende che la salute della mia Porcia ti stia tanto a cuore. In conclusione, daròvolentieri seguito a quanto mi chiedi, giacché me lo domandano anche le tue sorelle: prenderò contatto con lapersona e saprò quali siano i suoi propositi! |
Quid igitur timeam, si aut non miser post mortem aut beatus etiam futurus sum? Quamquam quis est tam stultus, quamvis sit adulescens, cui sit exploratum se ad vesperum esse victurum? Quin etiam aetas illa multo pluris quam nostra casus mortis habet; facilius in morbos incidunt adulescentes, gravius aegrotant, tristius curantur. Itaque pauci veniunt ad senectutem; quod ni ita accideret, melius et prudentius viveretur. Mens enim et ratio et consilium in senibus est; qui si nulli fuissent, nullae omnino civitates fuissent.Sed redeo ad mortem impendentem. Quod est istud crimen senectutis, cum id ei videatis cum adulescentia esse commune? | Allora, perché dovrei temere se, dopo morto, non sarò infelice o se sarò persino beato? E poi chi è così folle, per quanto giovane sia, da avere l'assoluta certezza di vivere sino a sera? Anzi, è proprio la giovinezza a essere esposta al pericolo di morire molto più della vecchiaia: i ragazzi contraggono malattie più facilmente, si ammalano in modo più grave, vengono curati con maggior difficoltà; quindi in pochi arrivano alla vecchiaia. Se così non fosse, si vivrebbe meglio e con più saggezza, perché riflessione, ragione e buon senso sono prerogative dei vecchi e senza i vecchi non sarebbe mai esistito lo stato. Ma ritorno alla morte incombente: perché farne un capo d'accusa della vecchiaia quando vedete che la condivide con la giovinezza? |
Reliquum est igitur crimen de veneno; cuius ego nec principium invenire neque evolvere exitum possum. Quae fuit enim causa quam ob rem isti mulieri venenum dare vellet Caelius? Ne aurum redderet? Num petivit? Ne crimen haereret? Numquis obiecit? num quis denique fecisset mentionem si hic nullius nomen detulisset? Quin etiam L. Herennium dicere audistis verbo se molestum non futurum fuisse Caelio nisi iterum eadem de re suo familiari absoluto nomen hic detulisset.Credibile est igitur tantum facinus ob nullam causam esse commissum? et vos non videtis fingi sceleris maximi crimen ut alterius causa sceleris suscipiendi fuisse videatur? | Dunque resta (“reliquum est”locuzione) l'accusa di (ablativo d'argomento) veneficio (= avvelenamento delittuoso): della quale io non posso né ritrovare l’origine né indagare (->ēvolvo, ēvolvis, evolvi, evolutum, ēvolvĕre) l’esito. Infatti quale è stata la causa, per qual motivo Celio avrebbe voluto somministrare il veleno ad una siffatta donna? Per non (finale negativa con“ne”) restituire l'oro? Forse che (“Num” introduce, come “Nonne”, l’interrogatica diretta retorica, per “Num” si suppone risposta negativa, per “nonne” positiva) lo rivendicò? Affinchè l’accusa non rimanesse implicata? Qualcuno glielo rinfacciò? Forse infine ne avrebbe fatto menzione se costui non avesse riportato il nome di qualcuno? Che anzi, avete anche sentito Lucio Erennio che mai sarebbe stato molesto per Celio (dativo di svantaggio) con l’eloquio se costui per la seconda volta non avesse denunciato per la medesima accusa il nome di un suo amico già assolto. Dunque è credibile che un tanto grande delitto sia stato commesso per nessuna vera motivazione? E voi non notate che l’accusa del massimo misfatto è stata costruita affinché sembrasse che ci fosse motivo di accertare l’altro delitto? |
Verum si quis est, qui etiam meretriciis amoribus interdictum iuventuti putet, est ille quidem valde severus (negare non possum) sed abhorret non modo ab huius saeculi licentia, verum etiam a maiorum consuetudine atque concessis. Quando enim hoc non factitatum est, quando reprehensum, quando non permissum, quando denique fuit, ut, quod licet, non liceret? Hic ego iam rem definiam, mulierem nullam nominabo; tantum in medio relinquam. | Tuttavia se c’è qualcuno che pensa che anche gli amori da meretrice siano stati vietati alla gioventù, egli è certamente assai severo (non lo posso negare) ma è lontano non solo dalla libertà si questo secolo ma anche dalla consuetudine e dalle concessioni degli antenati. Quando infatti questo non è sempre stato fatto, quando è stato criticato, quando non è stato permesso, quando insomma è accaduto che non fosse lecito ciò che è lecito? A questo punto definirò la cosa, non nominerò nessuna donna; lascerò una cosa così grande sospesa. |
Nunc, antequam ad sententiam redeo, de me pauca dicam. Ego, quanta manus est coniuratorum, quam videtis esse permagnam, tantam me inimicorum multitudinem suscepisse video; sed eam esse iudico turpem et infirmam et [contemptam et] abiectam. Quodsi aliquando alicuius furore et scelere concitata manus ista plus valuerit quam vestra ac rei publicae dignitas, me tamen meorum factorum atque consiliorum numquam, patres conscripti, paenitebit. Etenim mors, quam illi [mihi] fortasse minitantur, omnibus est parata; vitae tantam laudem, quanta vos me vestris decretis honestastis, nemo est adsecutus.Ceteris enim bene gesta, mihi uni conservata re publica gratulationem decrevistis. | Adesso, prima di ritornare al voto, dirò poche cose su di me. So di essermi procurato tanti nemici quanti sono i congiurati: e sono moltissimi, lo sapete bene. Ma è gente ignobile, vile, abietta, così li considero. Se un giorno, aizzati dai folli disegni di un criminale, dovessero prevalere sulla vostra autorità e su quella dello Stato, neppure allora mi pentirò delle mie azioni e delle mie decisioni, padri coscritti. Perché la morte, di cui essi forse ci minacciano, è stabilita per tutti, ma nessuno ha mai ottenuto tanta gloria quanta ne avete concessa a me con i vostri decreti. Ad altri avete tributato ringraziamenti per azioni militari, a me per aver salvato lo Stato. |
Sed tamen, Brute, inquit Atticus, de Caesare et ipse ita iudico et de hoc huius generis acerrumo existimatore saepissume audio, illum omnium fere oratorum Latine loqui elegantissume; nec id solum domestica consuetudine ut dudum de Laeliorum et Muciorum familiis audiebamus, sed quamquam id quoque credo fuisse, tamen, ut esset perfecta illa bene loquendi laus, multis litteris et iis quidem reconditis et exquisitis summoque studio et diligentia est consecutus. | "Comunque, Bruto," disse Attico "su Cesare io la penso così, e così sento dire molto spesso da costui che è critico acutissimo di questa materia: tra tutti gli oratori, è forse quello che parla il latino con più eleganza; e non solo in forza di una consuetudine domestica, come abbiamo sentito dire poco fa delle famiglie dei Lelio e dei Mucio sebbene io creda ci fosse anche questo, è stato tuttavia grazie ai vasti studi letterari, davvero ostici e di una minuziosa raffinatezza, e all'impegno grandissimo e scrupoloso, che egli è riuscito a portare a perfezione questo pregio del ben parlare. |
Ut enim benefici liberalesque sumus, non ut exigamus gratiam (neque enim beneficium faeneramur sed natura propensi ad liberalitatem sumus), sic amicitiam non spe mercedis adducti sed quod omnis eius fructus in ipso amore inest, expetendam putamus. | Come siamo generosi e liberali non per riscuotere una ricompensa - non diamo i nostri benefici a usura, ma per natura siamo propensi alla generosità -, così dobbiamo credere che si debba ricercare l'amicizia non nella speranza di un contraccambio, ma nella convinzione che il suo intero guadagno consista unicamente nell'amore. |
duo praeterea Lentuli consulares, quorum Pu blius ille nostrarum iniuriarum ultor, auctor salutis, quicquid habuit, quantumcumque fuit, illud totum habuit e disciplina; instrumenta naturae derant; sed tantus animi splendor et tanta magnitudo, ut sibi omnia, quae clarorum virorum essent, non dubitaret asciscere eaque omni dignitate obtineret. L. autem Lentulus satis erat fortis orator, si modo orator, sed cogitandi non ferebat laborem; vox canora, verba non horrida sane, ut plena esset animi et terroris oratio; quaereres in iudiciis fortasse melius, in re publica quod erat esse iudicares satis. | 268 E poi i due Lentulì consolari: l'uno, Publio, il vendicatore dei miei torti, il patrocinatore della mia salvezza, quel che aveva, quale che ne fosse l'entità, lo doveva interamente alla scuola; le doti naturali gli mancavano; ma tanta era la nobiltà e la grandezza del suo animo, che egli non esitava a rivendicare per sé le prerogative dei personaggi di più alto prestigio preservandole con dignità. Invece Lucio Lentulo fu un oratore piuttosto energico, se pure fu un oratore, ma non sopportava la fatica di preparare i discorsi. Aveva una voce sonora, e un'elocuzione non del tutto rozza: tanto che"' la sua eloquenza era piena di una formidabile animosità. Nei tribunali si sarebbe forse potuto richiedere qualcosa di meglio; nei dibattiti politici quel che aveva lo si poteva ritener sufficiente. |
[...] Locus autem et regio quasi ridiculi - nam id proxime quaeritur - turpitudine et deformitate - quadam continetur; haec enim ridentur vel sola vel maxime, quae notant et designant turpitudinem aliquam non turpiter. Est autem, ut ad illud tertium veniam, est plane oratoris movere risum; vel quod ipsa hilaritas benevolentiam conciliat ei, per quem excitata est; vel quod admirantur omnes acumen uno saepe in verbo positum maxime respondentis, non numquam etiam lacessentis; vel quod frangit adversarium, quod impedit, quod elevat, quod deterret, quod refutat; vel quod ipsum oratorem politum esse hominem significat, quod eruditum, quod urbanum, maxime quod tristitiam ac severitatem mitigat et relaxat odiosasque res saepe, quas argumentis dilui non facile est, ioco risuque dissolvit.Quatenus autem sint ridicula tractanda oratori, perquam diligenter videndum est, quod in quarto loco quaerendi posueramus. Nam nec insignis improbitas et scelere iuncta nec rursus miseria insignis agitata ridetur: facinerosos [enim] maiore quadam vi quam ridiculi vulnerari volunt; miseros inludi nolunt, nisi se forte iactant; parcendum autem maxime est caritati hominum, ne temere in eos dicas, qui diliguntur. | [...] Il posto e il terreno, per così dire, da cui scaturisce il comico - infatti questo è il secondo punto - è costituito dai difetti morali e dalla bruttezza fisica. Infatti si ride solamente o nella stragrande maggioranza dei casi, quando è messo in rilievo, sottolineato con bel garbo, qualche aspetto sgradevole. Per venire al terzo punto, è chiaro che all'oratore conviene suscitare il riso, o poiché la stessa ilarità suscita simpatia verso la persona che l'ha scatenata, o poiché tutti ammirano l'acume, spesso concentrato in una sola parola, soprattutto se è una risposta, ma anche se è un attacco, o poiché piega l'avversario, gli crea difficoltà, lo indebolisce, lo intimidisce, lo confuta, o poiché fa apparire l'oratore stesso come una persona raffinata, colta, arguta e soprattutto poiché mitiga e stempera la tristezza e la serietà, e spesso con un gioco o una risata dissolve odiose accuse, che non è facile confutare con argomentazioni. Il quarto punto, cioè entro quali limiti l'oratore possa usare l'arma del ridicolo, deve essere considerato con grandissima attenzione. Infatti non può essere oggetto del riso né la malvagia estrema anche macchiata di delitti, né l'infelicità estrema; si vuole infatti che i malfattori siano colpiti da una forza più potente del ridicolo, mentre non si vuole che siano derisi gli infelici, a meno che non siano arroganti; al contrario bisogna rispettare gli affetti degli uomini, affinché tu non parli con leggerezza nei riguardi di coloro che sono amati. |
Tullius s.d. Terentiae et Tulliae et Ciceroni suis.Accepi ab Aristocrito tres epistulas, quas ego lacrimis prope delevi; conficior enim maerore, mea Terentia, nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, ego autem hoc miserior sum quam tu, quae es miserrima, quod ipsa calamitas communis est utriusque nostrum, sed culpa mea propria est. Meum fuit officium vel legatione vitare periculum vel diligentia et copiis resistere vel cadere fortiter: hoc miserius, turpius, indignius nobis nihil fuit.Quare cum dolore conficior, tum etiam pudore: pudet enim me uxori meae optimae, suavissimis liberis virtutem et diligentiam non praestitisse; nam mihi ante oculos dies noctesque versatur squalor vester et maeror et infirmitas valetudinis tuae, spes autem salutis partenuis ostenditur. Inimici sunt multi, invidi paene omnes: eicere nos magnum fuit, excludere facile est; sed tamen, quamdiu vos eritis in spe, non deficiam, ne omnia mea culpa cecidisse videantur. | Tullio saluta la sua Terenzia e i suoi Tullia e Cicerone.Ho ricevuto tre lettere da Aristocrito, che (poco fa) quasi ho distrutto con le lacrime; o mia Terenzia, sono infatti consumato dal dolore, e le mie pene non mi tormentano più delle tue e delle vostre, tuttavia io sono per questo più triste di te, che sei tristissima, poiché la stessa disgrazia è comune ad entrambi noi, ma la colpa è esclusivamente mia. Sarebbe stato un dovere o evitare il pericolo con la legazione, o resistere con tenacia e truppe, o cadere valorosamente: niente sarebbe stato per noi più triste, più turpe, più indegno di questo (l'esilio). Perciò sono tanto distrutto dal dolore quanto anche dalla vergogna: infatti mi vergogno di non aver dato prova di virtù e cura alla mia ottima moglie e ai miei dolcissimi figli; infatti giorno e notte mi si presenta(no) davanti agli occhi la vostra desolazione e il dolore e la debolezza della tua salute, mentre la speranza di salvezza si mostra molto debole. I nemici, quasi tutti invidiosi, sono molti: esiliarmi è stato impegnativo, tenermi lontano è facile; ma tuttavia, fintanto che voi avrete speranza, io non mi perderò d'animo, affinché non sembri che ogni cosa sia decaduta per colpa mia. |
Vester etiam D. Brutus M. filius, ut ex familiari eius L. Accio poeta sum audire solitus, et dicere non inculte solebat et erat cum litteris Latinis tum etiam Graecis, ut temporibus illis, eruditus. quae tribuebat idem Accius etiam Q. Maxumo L. Pauli nepoti; et vero ante Maxumum illum Scipionem, quo duce privato Ti. Gracchus occisus esset, cum omnibus in rebus vementem tum acrem aiebat in dicendo fuisse. | Anche il vostro Decimo Bruto, figlio di Marco, come ero solito sentir dire dal poeta Lucio Accio, che era suo amico, parlava non senza buon gusto, e dimostrava competenza sia nelle lettere latine, sia, per quei tempi, anche in quelle greche. Gli stessi pregi Accio attribuiva anche a Quinto Massimo, nipote di Lucio Paolo; e diceva che, prima di Massimo, quello Scipione che da privato guidò l'azione in cui fu ucciso Tiberio Gracco, era impetuoso nel parlare così come era vigoroso in ogni altra cosa. |
[19] Quam ob rem illa, quae ex accusatorum oratione praemuniri iam et fingi intellegebam, fretus vestra prudentia, iudices, non pertimesco. Aiebant enim fore testem senatorem, qui se pontificiis comitiis pulsatum a Caelio diceret. A quo quaeram, si prodierit, primum cur statim nihil egerit, deinde, si id queri quam agere maluerit, cur productus a vobis potius quam ipse per se, cur tanto post potius quam continuo queri maluerit. Si mihi ad haec acute arguteque responderit, tum quaeram denique, ex quo iste fonte senator emanet.Nam si ipse orietur et nascetur ex sese, fortasse, ut soleo, commovebor; sin autem est rivolus accersitus et ductus ab ipso capite accusationis vestrae, laetabor, cum tanta gratia tantisque opibus accusatio vestra nitatur, unum senatorem solum esse, qui vobis gratificari vellet, inventum. | [19] Per questa cosa, oh giudici, non temo, sicuro della vostra saggezza, quelle cose che dal discorso degli accusatori ho capito ormai essere macchinate ed inventate. Infatti, dicevano che ci sarebbe un senatore in qualità di testimone, il quale direbbe di essere stato picchiato da Celio nei comizi pontifici. Chiederò a costui (Quaero= chiedere per sapere, preceduto da a/ab/e/ex + ablativo; diverso daPeto= chiedere per avere, con a/ab + ablativo), se verrà, innanzitutto perchè non abbia agito subito, poi, dal momento che ha preferito lamentarsi piuttosto che agire, perchè abbia scelto di farlo indotto da voi, piuttosto che spontaneamente, perchè abbia preferito lamentarsi tanto dopo piuttosto che subito. Se mi avrà risposto a queste cose acutamente ed argutamente, allora poi chiederò da quale fonte spunti codesto senatore. Infatti, se quel medesimo sgorgherà e nascerà da se stesso, forse ("fortasse" è “forse” nel senso di “approssimativamente”, e non nel senso di “può darsi che”, come "forsitan"), come sono solito (subordinata parentetica con“ut"), mi commuoverò; se d’altro canto (autem = valore avversativo) è un rivolo scaturito e condotto dal medesimo capo della vostra accusa, mi rallegrerò, poichè la vostra accusa conta su un tanto grande favore e tanto grandi risorse, che è stato trovato un unico senatore, il quale voglia far cosa grata a voi (gratificor, aris, gratificatus sum, gratificari + dativo, oppure pro + ablativo). |
M. CICERO S. D. P. SESTIO L. F. PROQ.Cum ad me Decius librarius venisset egissetque mecum, ut operam darem, ne tibi hoc tempore succederetur, quamquam illum hominem frugi et tibi amicum existimabam, tamen, quod memoria tenebam, cuiusmodi ad me litteras antea misisses, non satis credidi homini prudenti, tam valde esse mutatam voluntatem tuam; sed, posteaquam et Cornelia tua Terentiam convenit et ego cum Q. Cornelio locutus sum, adhibui diligentiam, quotiescumque senatus fuit, ut adessem, plurimumque in eo negotii habui, ut Q.Fufium tribunum pl. et ceteros, ad quos tu scripseras, cogerem mihi potius credere quam tuis litteris. Omnino res tota in mensem Ianuarium reiecta erat, sed facile obtinebatur. Ego tua gratulatione commotus, quod ad me pridem scripseras velle te bene evenire, quod de Crasso domum emissem, emi eam ipsam domum HS. XXXV aliquanto post tuam gratulationem; itaque nunc me scito tantum habere aeris alieni, ut cupiam coniurare, si quisquam recipiat, sed partim odio inducti me excludunt et aperte vindicem coniurationis oderunt, partim mihi non credunt et a me insidias metuunt nec putant ei nummos deesse posse, qui ex obsidione feneratores exemerit. Omnino semissibus magna copia est; ego autem meis rebus gestis hoc sum assecutus, ut bonum nomen existimer. Domum tuam atque aedificationem omnem perspexi et vehementer probavi. Antonium, etsi eius in me officia omnes desiderant, tamen in senatu gravissime ac diligentissime defendi senatumque vehementer oratione mea atque auctoritate commovi. Tu ad me velim litteras crebrius mittas. | CICERONE A PUBLIO SESTIOÉ venuto da me il tuo segretario Decio, e nel suo colloquio ha sollecitato il mio impegno a non far nominare peril momento il tuo successore: benché lo ritenessi una persona per bene e molto legata a te, tuttavia avendo a mente iltenore della tua lettera precedente non mi risolvevo a cre dere che, prudente quale sei, avessi mutato cosiradicalmente le tue intenzioni. Ma dopo una conversazione fra tua moglie Cornelia e Terenzia e dopo che io stessoebbi parlato con Quinto Cornelio, ho avuto ogni cura a partecipare a tutte le sedute del senato e mi sono dato moltoda fare per costringere il tribuno della plebe Quinto Fufio e gli altri ai quali avevi scritto, a prestar fede piuttosto ame che alle tue lettere. Ad ogni modo tutta la faccenda e stata rinviata a gennaio, ma non si trattava di una cosadifficile.Toccato dalle tue felicitazioni e dagli auguri che temp o addietro mi avevi inviato per il mio progetto dicomperare una casa da Crasso, mi sono ora deciso a comperarla, questa famosa casa, per tre milioni e mezzo disesterzi - a qualche distanza dal tuo biglietto di felicitazioni. Puoi immaginare che a questo punto sono immersonei debiti fino al collo, tanto da dichiararmi disponibile per una congiura... sempre che ci sia qualcuno disposto araccogliere l'offerta! Ma in parte mi tengono tagliato fuori, spinti da rancore e odio aperti, per chi di una congiuravera ha fatto giustizia, in parte non si fidano di me e hanno paura di una trappola e non credono che possanomancare soldi a chi ha tolto dai pasticci degli usurai. Qui sciala solo chi presta all'interesse del sei per cento al mese.Comunque dalle mie imprese un buon risultato l'ho raggiunto, e cioè di essere stimato - come debitore - ungrosso nome. Ho esaminato l'intero progetto edilizio di casa tua e mi e pia ciuto veramente molto. Quanto adAntonio, sebbene tutti ne rilevino la mancanza di considerazione nei miei confronti, l'ho tuttavia difeso in senatocon molta serietà e con molta cura e al senato l'autorevolezza del mio discorso ha fatto una grande impressione.Vorrei che mi scrivessi con un po' più di assiduità. |
Vitanda tamen suspicio est avaritiae. Mamerco, homini divitissimo, praetermissio aedilitatis consulatus repulsam attulit. Quare et si postulatur a populo, bonis viris si non desiderantibus, ad tamen approbantibus faciundum est, modo pro facultatibus, nos ipsi ut fecimus, et si quando aliqua res maior atque utilior populari largitione adquiritur, ut Oresti nuper prandia in semitis decumae nomine magno honori fuerunt. Ne M. Quidem Seio vitio datum est, quod in caritate asse modium populo dedit; magna enim se et inveterata invidia nec turpi iactura, quando erat aedilis, nec maxima liberavit.Sed honori summo nuper nostro Miloni fuit qui gladiatoribus emptis rei publicae causa, quae salute nostra continebatur, omnes P. Clodii conatus furoresque compressit. | Tuttavia bisogna anche evitare il sospetto di avarizia. Al ricchissimo Mamerco il rifiuto dell'edilità procurò la sconfitta nelle elezioni per il consolato. Perciò se il popolo richiede un'elargizione, anche se gli uomini onesti non la desiderano, e tuttavia l'approvano, si deve concedere solamente in base alle proprie possibilità economiche, come ho fatto io stesso, specie ogni qualvolta con un donativo popolare si mira a raggiungere uno scopo più importante e più utile, come, or non è molto, i banchetti imbanditi lungo le vie, a titolo di donativo, recarono grande onore ad Oreste. E neppure si imputò a biasimo di Marco Seio il fatto che vendette al popolo, durante una carestia, un moggio di grano per un asse: così si liberò d'una grande e antica odiosità popolare e con una spesa onesta, dal momento che era edile, e nemmeno eccessiva. Ma poco tempo fa ebbe grandissimo onore il nostro Milone, che rintuzzò gli assalti e i furori di Publio Clodio con gladiatori assoldati per conto dello Stato, la cui salvezza dipendeva dalla mia. |
CICERO BITHYNICOCum ceterarum rerum causa cupio esse aliquando rem publicam constitutam, tum velim mihi credas accedere etiam, id quo magis expetam, promissum tuum, quo in litteris uteris; scribis enim, si ita sit, te mecum esse victurum. Gratissima mihi tua voluntas est, facisque nihil alienum necessitudine nostra iudiciisque patris tui de me summi viri; nam sic habeto, beneficiorum magnitudine eos, qui temporibus valuerunt ut valeant, coniunctiores tecum esse quam me, necessitudine neminem.Quamobrem grata mihi est et memoria tua nostrae coniunctionis et eius etiam augendae voluntas. | CICERONE A BITINICOAgli altri motivi per i quali desidero una buona volta la restaurazione della repubblica, si aggiunge anche - tiprego di credermi - e anzi ancora di più mi sprona ad augurarmela, la promessa a cui ti riferisci nella tua lettera: tumi scrivi di voler stabilire con me, se gli eventi maturano, una più stretta relazione. Le tue intenzioni mi fanno unimmenso piacere: il tuo comportamento non è estraneo ai tradizionali vincoli che ci legano e all'opinione che ilnobile tuo padre si era fatta di me. Di una cosa devi essere convinto: quelli che si sono prodigati e si prodigano, aseconda delle occasioni, in tuo favore sono a te più uniti di me per l'entità dei loro benefici, ma nessuno per i legamidell'amicizia. Mi è grata dunque sia la memoria che serbi del nostro rapporto sia anche la volontà che mostri direnderlo più saldo. |
Quid huc accessit ex iure civili? Partitionis caput scriptum caute, ut centum nummi deducerentur: inventa est ratio cur pecunia sacrorum molestia liberaretur. Quodsi hoc qui testamentum faciebat cavere noluisset, admonet iuris consultus hic quidem ipse Mucius, pontifex idem, ut minus capiat quam omnibus heredibus relinquatur. Super<iores> dicebant, quicquid cepisset adstringi: rursus sacris liberatur. Hoc vero nihil ad pontificium ius, sed e medio est iure civili, ut per aes et libram heredem testamenti solvant et eodem loco res sit, quasi ea pecunia legata non esset, <et> si is cui legatum est stipulatus est id ipsum quod legatum est, ut ea pecunia ex stipulatione debeatur, sitque ea non <adligata sacris.> [...] | A questo cosa si aggiunse del diritto civile? Una clausola stesa con cautela che provvede a dedurne cento sesterzi; ed ecco trovato l'espediente per liberare il patrimonio dal molesto peso del culto. Che se colui il quale redigeva il testamento non avesse voluto ricorrervi, questo giureconsulto Mucio, pontefice egli stesso, consiglia di prendere meno di quanto venga lasciato globalmente agli eredi. I precedenti giuristi affermavano che, qualunque cosa avesse preso, l'erede era tenuto al culto; ed ora invece se ne liberano nuovamente. Ma questo non ha nessuna attinenza col diritto pontificio, ma è derivato dal bel mezzo del diritto civile, cioè che si riscatti in contanti l'erede testamentari, e che a tale condizione il patrimonio rimanga tale come se non fosse stato trasmesso per testamento, a condizione che colui, che ricevette un lascito, abbia fatto oggetto di contratto proprio ciò che gli veniva per eredità, in modo che questa parte di patrimonio gli sia dovuta in forza di contratto e non resti più [gravata dal culto] [...] |
Sed sic, Scipio, ut avus hic tuus, ut ego, qui te genui, iustitiam cole et pietatem, quae cum magna in parentibus et propinquis tum in patria maxima est; ea vita via est in caelum et in hunc coetum eorum, qui iam vixerunt et corpore laxati illum incolunt locum, quem vides". Erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens. "Quem vos, ut a Graiis accepistis, orbem lacteum nuncupatis. "Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mirabilia videbantur.Erant autem eae stellae, quas numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati sumus; ex quibus erat ea minima, quae ultima a caelo, citima a terris luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem facile vincebant. Iam ipsa terra ita mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret". | Ma così, Scipione, come questo tuo nonno, come me, che ti generai, coltiva la giustizia e la pietà, che è sia di grande importanza nei confronti dei parenti e dei familiari, sia importantissima nei confronti della patria; tale vita è la via verso il cielo e verso questo consesso di quelli che già vissero e, liberati dal corpo, abitano quel luogo che vedi". E questo era quella zona circolare rilucente di splendidissimo candore tra gli astri fiammeggianti. "(Luogo) che voi, come apprendeste dai Greci, chiamate via lattea; da quel luogo tutto il resto sembrava bellissimo e mirabile a me che lo contemplavo. C'erano infatti quelle stelle, che da questo nostro luogo non abbiamo mai visto, e tale grandezza di tutte queste che mai avremmo sospettato ci fosse, delle quali la più piccola era quella più lontana dal cielo e più vicina dalla terra, che risplendeva di luce non propria. I globi poi delle stelle facilmente superavano la grandezza della Terra. Anzi la Terra stessa mi sembrò così picola, che fui deluso del nostro impero, con il quale occupiamo solo un punto". |
Quemadmodum igitur, si quando ea, quae videtur utilitas, honestati repugnat, diiudicanda res sit, satis est supra disputatum. Sin autem speciem utilitatis etiam voluptas habere dicetur, nulla potest esse ei cum honestate coniunctio. Nam, ut tribuamus aliquid voluptati, condimenti fortasse non nihil, utilitatis certe nihil habebit. | In qual modo, dunque, vada risolta la questione nei casi in cui l'utilità apparente è in contrasto con l'onestà, è stato sufficientemente trattato sopra. Se, poi, si dirà che anche il piacere ha un'apparenza di utilità, esso non può avere alcun punto di contatto con l'onestà. Per concedere, difatti, qualche cosa al piacere, forse esso avrà un qualche carattere di condimento, ma niente di utile. |
Restat quarta pars, quae decore, moderatione, modestia, continentia, temperantia continetur. Potest igitur quicquam utile esse, quod sit huic talium virtutum choro contrarium? Atqui ab Aristippo Cyrenaici atque Annicerii philosophi nominati omne bonum in voluptate posuerunt virtutemque censuerunt ob eam rem esse laudandam, quod efficiens esset voluptatis. Quibus obsoletis floret Epicurus, eiusdem fere adiutor auctorque sententiae. Cum his "viris" equisque, ut dicitur, si honestatem tueri ac retinere sententia est, decertandum est. | Resta la quarta parte, che consiste nella convenienza, nella moderazione, nella modestia, nella continenza, nella temperanza. Può, dunque, qualche cosa essere utile, che sia contraria a questo coro di virtù? Eppure i Cirenaici, seguaci di Aristippo, e quelli che sono chiamati Annicerii, hanno posto ogni bene nel piacere ed hanno ritenuto che la virtù sia degna di lode perché produttrice di piacere; passati di moda questi fiorisce Epicuro, sostenitore e fautore quasi della stessa dottrina. Con questi filosofi bisogna combattere con guerrieri e cavalli, come si dice, se si vuole mantenere e salvaguardare l'onestà. |
Sulpici orationes quae feruntur, eas post mortem eius scripsisse P. Cannutius putatur aequalis meus, homo extra nostrum ordinem meo iudicio disertissimus. ipsius Sulpici nulla oratio est, saepeque ex eo audivi, cum se scribere neque consuesse neque po sse diceret. Cottae pro se lege Varia quae inscribitur, eam L. Aelius scripsit Cottae rogatu. fuit is omnino vir egregius et eques Romanus cum primis honestus idemque eruditissimus et Graecis litteris et Latinis, antiquitatisque nostrae et in inventis reb us et in actis scriptorumque veterum litterate peritus.quam scientiam Varro noster acceptam ab illo auctamque per sese, vir ingenio praestans omnique doctrina, pluribus et inlustrioribus litteris explicavit. | Le orazioni che vanno sotto il nome di Sulpicio, si ritiene che le abbia scritte, dopo la sua morte, il mio coetaneo Publio Cannuzio, a mio parere l'uomo più facondo al di fuori del nostro ordine." Orazioni autentiche di Sulpicio non ce ne sono, e spesso io l'ho sentito dire che di scrivere non aveva né l'abitudine né la capacità. L'orazione di Cotta che porta il titolo Autodifesa dall'accusa in base alla legge Varia, la scrisse, dietro richiesta di Cotta, Lucio Elio." Costui fu un uomo assolutamente egregio, e un cavaliere romano tra i più onorevoli, per di più coltissimo nelle lettere greche e latine, con una competenza erudita del nostro passato - per quanto riguarda sia il pro cesso di formazione delle istituzioni, sia gli accadimenti - e degli scrittori antichi. Da lui il nostro Varrone ha ricevuto questa scienza e la ha accresciuta con opera propria, e, da uomo eminente per ingegno e per universale sapere quale è, l'ha esposta in opere più vaste e più insigni. |
Sed (saepe enim redeo ad Scipionem, cuius omnis sermo erat de amicitia) querebatur, quod omnibus in rebus homines diligentiores essent; capras et oves quot quisque haberet, dicere posse, amicos quot haberet, non posse dicere et in illis quidem parandis adhibere curam, in amicis eligendis neglegentis esse nec habere quasi signa quaedam et notas, quibus eos qui ad amicitias essent idonei, iudicarent. Sunt igitur firmi et stabiles et constantes eligendi; cuius generis est magna penuria.Et iudicare difficile est sane nisi expertum; experiendum autem est in ipsa amicitia. Ita praecurrit amicitia iudicium tollitque experiendi potestatem. | Ma Scipione - ritorno spesso a lui perché suo era l'intero discorso sull'amicizia - si lamentava che gli uomini in tutto usino più attenzione che nell'amicizia. Tutti sanno dirti quante capre o pecore possiedono, ma quanti amici no. Nel procurarsi un gregge usano ogni riguardo, ma nello scegliere gli amici sono distratti né hanno, per così dire, segni particolari e marchi che li aiutino a giudicare coloro che sono idonei all'amicizia.Dobbiamo scegliere amici dotati di fermezza, stabilità e coerenza - e di tali caratteristiche vi è grande penuria! E giudicare una persona senza metterla alla prova è davvero difficile, ma la prova è fattibile solo se si è instaurato il legame. Così, l'amicizia precorre il giudizio e finisce con eliminare la possibilità di fare una verifica. |
Sed plerique perverse, ne dicam impudenter, habere talem amicum volunt, quales ipsi esse non possunt, quaeque ipsi non tribuunt amicis, haec ab iis desiderant. Par est autem primum ipsum esse virum bonum, tum alterum similem sui quaerere. In talibus ea, quam iam dudum tractamus, stabilitas amicitiae confirmari potest, cum homines benevolentia coniuncti primum cupiditatibus iis quibus ceteri serviunt imperabunt, deinde aequitate iustitiaque gaudebunt, omniaque alter pro altero suscipiet, neque quicquam umquam nisi honestum et rectum alter ab altero postulabit, neque solum colent inter se ac diligent sed etiam verebuntur.Nam maximum ornamentum amicitiae tollit qui ex ea tollit verecundiam. | Ma i più assurdamente, per non dire con impudenza, vogliono avere amici come loro stessi non possono essere e quel che essi non danno agli amici lo pretendono da loro. Invece è giusto prima di tutto essere uomini virtuosi e poi cercare altri simili a noi. Solo tra virtuosi può rafforzarsi la stabilità dell'amicizia, di cui sto trattando già da un po', quando cioè gli uomini, legati dall'affetto, sapranno in primo luogo dominare le passioni, di cui gli altri sono schiavi, e poi ameranno l'equità e la giustizia, si sobbarcheranno a ogni sacrificio l'uno per l'altro, non chiederanno mai nulla che contravvenga alla morale e al diritto, e instaureranno così non solo un rapporto di stima e amore, ma anche di rispetto. In verità, priva l'amicizia del suo più bell'ornamento chi la priva del rispetto. |
Venio nunc ad voluptates agricolarum, quibus ego incredibiliter delector; quae nec ulla impediuntur senectute et mihi ad sapientis vitam proxime videntur accedere. Habent enim rationem cum terra, quae numquam recusat imperium nec umquam sine usura reddit, quod accepit, sed alias minore, plerumque maiore cum faenore. Quamquam me quidem non fructus modo, sed etiam ipsius terrae vis ac natura delectat. Quae cum gremio mollito ac subacto sparsum semen excepit, primum id occaecatum cohibet, ex quo occatio, quae hoc efficit, nominata est, deinde tepefactum vapore et compressu suo diffundit et elicit herbescentem ex eo viriditatem, quae nixa fibris stirpium sensim adulescit culmoque erecta geniculato vaginis iam quasi pubescens includitur; ex quibus cum emersit, fundit frugem spici ordine structam et fcontra avium minorum morsus munitur vallo aristarum. | Vengo ora ai piaceri degli agricoltori, dei quali mi compiaccio incredibilmente, né queste gioie sono rese inaccessibili dalla vecchiaia e mi sembrano avvicinare molto alla vita del saggio. Infatti hanno a che fare con la terra, che giammai rifiuta un ordine e rstituisce sempre ad usura ciò che le si è affidato, ma alle volte minore, e per lo più con interesse maggiore; nondimeno senza dubbio mi piace non solo il frutto ma anche la forza della terra stessa e la natura. Terra che quando accoglie nel grembo, reso morbido e lavorato, il seme sparso, da principio lo racchiude nascosto e, da questo che fa ciò, l'erpicare ha preso il nome, poi intiepidito dal calore e con la sua pressione si dilata e da questo viene fuori una verde fogliolina che, consolidata con le fibre delle radici, a poco a poco emana profumo e dritta con il fusto nodoso crescendo è già quasi avvolta dalle guaine; dalle quali quando ne è venuta fuori produce il frutto della spiga disposto con ordine ed è protetto contro il morso degli uccelli più piccoli da una palizzata di reste. |
Iam virtutem ex consuetudine vitae sermonisque nostri interpretemur nec eam, ut quidam docti, verborum magnificentia metiamur virosque bonos eos, qui habentur, numeremus, Paulos, Catones, Galos, Scipiones, Philos; his communis vita contenta est; eos autem omittamus, qui omnino nusquam reperiuntur. | Diamo allora alla virtù il significato che ha nella vita quotidiana e nel parlar comune, senza misurarla, come fanno alcuni filosofi, dalla sonorità delle parole. E annoveriamo tra i virtuosi chi è considerato tale, i Paoli, i Catoni, i Galo, gli Scipioni, i Filo, di cui la vita di tutti i giorni si accontenta. E mettiamo da parte le utopie. |
Quae cum ita sint, patres conscripti, vobis populi Romani praesidia non desunt; vos ne populo Romano deesse videamini, providete. Habetis consulem ex plurimis periculis et insidiis atque ex media morte non ad vitam suam, sed ad salutem vestram reservatum. Omnes ordines ad conservandam rem publicam mente, voluntate, studio, virtute, voce consentiunt. Obsessa facibus et telis impiae coniurationis vobis supplex manus tendit patria communis, vobis se, vobis vitam omnium civium, vobis arcem et Capitolium, vobis aras Penatium, vobis illum ignem Vestae sempiternum, vobis omnium deorum templa atque delubra, vobis muros atque urbis tecta commendat.Praeterea de vestra vita, de coniugum vestrarum atque liberorum anima, de fortunis omuium, de sedibus, de focis vestris hodierno die vobis iudicandum est. | In queste condizioni, padri coscritti, l'appoggio del popolo romano non vi manca. Fate in modo che non sembri che manchiate voi al popolo. Avete un console che si è salvato da innumerevoli pericoli e insidie, addirittura dalla stretta della morte, non in nome della sua vita, ma della vostra salvezza! Tutte le classi sono unanimi nel pensiero, nella volontà, nella parola: vogliono conservare questo Stato. Assediata dalle torce e dai dardi di un'empia congiura, la patria comune vi tende, supplice, le mani. A voi si affida, a voi affida la vita di tutta la collettività, a voi la rocca e il Campidoglio, a voi gli altari dei Penati, a voi il fuoco eterno di Vesta, a voi i templi e i santuari di tutti gli dèi, a voi le mura e le case della città. Inoltre, è sulla vostra vita, sull'esistenza delle vostre mogli e dei vostri figli, sulle proprietà di tutti, sulle case e sui focolari che oggi dovete esprimere il vostro giudizio! |
Atque illae tamen omnes dissensiones erant eius modi [Quirites], quae non ad delendam, sed ad commutandam rem publicam pertinerent. Non illi nullam esse rem publicam, sed in ea, quae esset, se esse principes, neque hanc urbem conflagrare, sed se in hac urbe florere voluerunt. Atque illae tamen omnes dissensiones, quarum nulla exitium rei publicae quaesivit, eius modi fuerunt, ut non reconciliatione concordiae, sed internecione civium diiudicatae sint.In hoc autem uno post hominum memoriam maximo crudelissimoque bello, quale bellum nulla umquam barbaria cum sua gente gessit, quo in bello lex haec fuit a Lentulo, Catilina, Cethego, Cassio constituta, ut omnes, qui salva urbe salvi esse possent, in hostium numero ducerentur, ita me gessi, Quirites, ut salvi omnes conservaremini, et, cuun hostes vestri tantum civium superfuturum putassent, quantum infinitae caedi restitisset, tantum autem urbis, quantum flamma obire non potuisset, et urbem et civis integros incolumesque servavi. | Eppure, tutte queste lotte non miravano a distruggere lo Stato, ma a cambiarlo. Non si voleva abbatterlo, ma primeggiare in uno Stato vivo, non si voleva dare alle fiamme Roma, ma distinguersi in Roma. [E tutte queste lotte, di cui nessuna intendeva annientare lo Stato, furono tali da risolversi non con il ristabilimento della concordia sociale, ma con l'uccisione dei cittadini.] Invece, in questa guerra, l'unica a memoria d'uomo ad essere così vasta e feroce e tale che nessun popolo barbaro l'ha mai mossa contro la sua gente, una guerra in cui Lentulo, Catilina, Cetego e Cassio hanno stabilito di annoverare tra i nemici tutti gli uomini la cui salvezza avrebbe consentito di salvare lo Stato, ebbene, Quiriti, in questa guerra io mi sono mosso per assicurare a voi tutti la salvezza. E anche se i vostri nemici pensavano che sarebbero sopravvissuti solo quei cittadini che fossero scampati a una strage infinita e quella parte di città che si fosse sottratta alle fiamme, io ho salvato Roma, io ho salvato la cittadinanza! |
Etenim (ex divisione hoc secundum est) quae est continuato coniunctioque naturae, quam, ut dixi, vocantsympátheia, eius modi, ut thesaurus ex ovo intellegi debeat? Nam medici ex quibusdam rebus et advenientis et crescentis morbos intellegunt, nonnullas etiam valetudinis significationes, ut hoc ipsum, pleni enectine simus, ex quodam genere somniorum intellegi posse dicunt. Thesaurus vero et hereditas et honos et victoria et multa generis eiusdem qua cum somniis naturali cognatione iunguntur? Dicitur quidam, cum in somnis complexu Venerio iungeretur, calculos eiecisse.Videosympátheia: visum est enim tale obiectum dormienti, ut id, quod evenit, naturae vis, non opinio erroris effecerit. Quae igitur natura obtulit illam speciem Simonidi, a qua vetaretur navigare? Aut quid naturae copulatum habuit Alcibiadis quod scribitur somnium? Qui paulo ante interitum visus est in somnis amicae esse amictus amiculo. Is cum esset proiectus inhumatus ab omnibusque desertus iaceret, amica corpus eius texit suo pallio. Ergo hoc inerat in rebus futuris et causas naturalis habebat, an, et ut videretur et ut eveniret, casus effecit? | Inoltre (passiamo, secondo la nostra ripartizione, al secondo punto) che cos'è questa compattezza e concordia generale della natura, che, come ho detto, chiamanosympátheia, tale che un uovo debba essere il segno di un tesoro nascosto? I medici comprendono, in base a certi sintomi, l'approssimarsi e l'aggravarsi di una malattia; dicono anche che alcuni tipi di sogni possono fornire certe indicazioni sullo stato di salute, per esempio anche questa, se siamo ben pasciuti o denutriti. Ma un tesoro, un'eredità, un conseguimento d'una carica, una vittoria in battaglia, e molte altre cose di questo genere, da quale affinità naturale sono collegate ai sogni? Si narra che un tale, mentre sognava di congiungersi sessualmente con una donna, emise dei calcoli dalla vescica. Qui vedo lasympátheia: in sogno gli apparve una visione tale che l'evento realmente accaduto fu prodotto da un impulso della natura, non da un'illusione erronea. Ma quale forza naturale fece apparire a Simonide quel sogno dal quale fu sconsigliato di imbarcarsi? O quale connessione con la natura può aver avuto il sogno che, a quanto si tramanda, fece Alcibiade? Egli, poco prima di morire, sognò di essere ravvolto nel mantello della sua amante. Quando il suo cadavere giacque buttato a terra con spregio, insepolto e abbandonato da tutti, l'amante lo ricoprì col suo mantello. Ciò dunque era stato determinato in precedenza e aveva cause naturali, oppure per un mero caso avvennero sia il sogno, sia l'evento? |
Quam ob rem, ut saepe iam dixi, proficiscere ac, si mihi inimico, ut praedicas, tuo conflare vis invidiam, recta perge in exilium; vix feram sermones hominum, si id feceris, vix molem istius invidiae, si in exilium iussu consulis ieris, sustinebo. Sin autem servire meae laudi et gloriae mavis, egredere cum inportuna sceleratorum manu, confer te ad Manlium, concita perditos cives, secerne te a bonis, infer patriae bellum, exsulta impio latrocinio, ut a me non eiectus ad alienos, sed invitatus ad tuos isse videaris. | Perciò parti, te l'ho ripetuto più volte, e se vuoi scatenarmi contro la disapprovazione pubblica, perché sono un tuo nemico, come affermi, vattene dritto in esilio! Non mi sarà facile sopportare le critiche della gente, se lo farai; non mi sarà facile sostenere il peso dell'impopolarità , se andrai in esilio per ordine del console. Ma se preferisci contribuire alla mia lode e gloria, vattene con quell'infame branco di scellerati, raggiungi Manlio, chiama alla rivolta i cittadini disperati, sepà rati dagli onesti, dichiara guerra alla patria, esulta nel tuo empio banditismo! Non sembrerà , allora, che io ti abbia cacciato tra stranieri, ma che ti abbia invitato a raggiungere i tuoi. |
Periclitemur, si placet, et in iis quidem exemplis, in quibus peccari volgus hominum fortasse non putet. Neque enim de sicariis, veneficis, testamentariis, furibus, peculatoribus, hoc loco disserendum est, qui non verbis sunt et disputatione philosophorum, sed vinclis et carcere fatigandi, sed haec consideremus, quae faciunt ii, qui habentur boni. L. Minuci Basili locupletis hominis falsum testamentum quidam e Graecia Romam attulerunt. Quod quo facilius obtinerent, scripserunt heredes secum M.Crassum et Q. Hortensium, homines eiusdem aetatis potentissimos. Qui cum illud falsum esse suspicarentur, sibi autem nullius essent conscii culpae, alieni facinoris munusculum non repudiaverunt. Quid ergo? Satin est hoc, ut non deliquisse videantur? Mihi quidem non videtur, quamquam alterum vivum amavi, alterum non odi mortuum. | Facciamo la prova, se non hai nulla in contrario, e proprio basandoci su quegli esempi, in cui gli uomini in generale non credono, forse, di essere in fallo. Non si deve trattare, qui dei sicari, degli avvelenatori, dei falsificatori di testamenti, dei ladri, dei rei di peculato, che non devono essere domati con le parole e le discussioni dei filosofi, ma con le catene e il carcere; consideriamo, invece, le azioni di coloro che godono la fama di uomini dabbene. Taluni portarono dalla Grecia in Roma un falso testamento di Lucio Minuoio Basilo, uomo ricco; per poter raggiungere con maggior facilità il loro scopo, vi misero come eredi, insieme a loro, Marco Crasso e Quinto Ortensio, due uomini tra i più importanti in quel periodo; costoro, pur avendo sospettato che il testamento fosse falso, ma non essendo complici di alcuna colpa, non rifiutarono il piccolo regalo che veniva loro dalla colpa altrui. Dunque, è sufficiente questo perchè non sembrino colpevoli? In verità non mi pare, sebbene abbia amato l'uno, quando era in vita, e non nutra odio nei confronti dell'altro, ora che è morto. |
Ac primum de illis tribus, quae ante dixi, benevolentiae praecepta videamus; quae quidem capitur beneficiis maxime, secundo autem loco voluntate benefica benivolentia movetur, etiamsi res forte non suppetit; vehementer autem amor multitudinis commovetur ipsa fama et opinione liberalitatis, beneficentiae, iustitiae, fidei omniumque earum virtutum, quae pertinent ad mansuetudinem morum ac facilitatem. Etenim illud ipsum, quod honestum decorumque dicimus, quia per se nobis placet animosque omnium natura et specie sua commovet maximeque quasi perlucet ex iis, quas commemoravi, virtutibus, idcirco illos, in quibus eas virtutes esse remur, a natura ipsa diligere cogimur.Atque hae quidem causae diligendi gravissimae; possunt enim praeterea nonnullae esse leviores. | In primo luogo tra quei tre aspetti di cui ho parlato vediamo i consigli che riguardano la benevolenza. Questa, invero, la si guadagna soprattutto coi benefici, in secondo luogo essa è mossa dalla volontà di beneficare, anche se, per caso, il risultato non corrisponda. L'amore della folla, invero, è suscitato in maniera profonda dalla stessa fama e dall'opinione di generosità, beneficenza, giustizia e lealtà e da tutte quelle virtù che riguardano la mitezza di costumi e l'affabilità. Infatti, poiché quella stessa virtù, che chiamiamo onesto e conveniente, ci piace per se stessa e commuove l'animo di tutti con la sua natura ed il suo aspetto esteriore, e soprattutto quasi brilla tra quelle virtù che ho ricordato, proprio per questa ragione la natura stessa ci spinge ad amare coloro nei quali, secondo noi, esistono quelle virtù. Queste, invero, sono le cause più importanti dell'affetto; possono esisterne, inoltre, parecchie più lievi. |
Cumque plurimas et maximas commoditates amicitia contineat, tum illa nimirum praestat omnibus, quod bonam spem praelucet in posterum nec debilitari animos aut cadere patitur. Verum enim amicum qui intuetur, tamquam exemplar aliquod intuetur sui. Quocirca et absentes adsunt et egentes abundant et imbecilli valent et, quod difficilius dictu est, mortui vivunt; tantus eos honos, memoria, desiderium prosequitur amicorum. Ex quo illorum beata mors videtur, horum vita laudabilis.Quod si exemeris ex rerum natura benevolentiae coniunctionem, nec domus ulla nec urbs stare poterit, ne agri quidem cultus permanebit. Id si minus intellegitur, quanta vis amicitiae concordiaeque sit, ex dissensionibus atque ex discordiis percipi potest. Quae enim domus tam stabilis, quae tam firma civitas est, quae non odiis et discidiis funditus possit everti? Ex quo quantum boni sit in amicitia iudicari potest. | L'amicizia, dunque, comporta moltissimi e grandissimi vantaggi, ma ne presenta uno nettamente superiore agli altri: alimenta buone speranze che rischiarano il futuro e non permette all'animo di deprimersi e di abbattersi. Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio. E così gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel che è più difficile a dirsi, i morti vivi; tanto intensamente ne prolunga l'esistenza il rispetto, la memoria e il rimpianto degli amici. Ecco perché degli uni sembra felice la morte, degli altri lodevole la vita. Se poi privi la natura dei legami affettivi, nessuna casa, nessuna città potrà restare in piedi, neppure l'agricoltura sopravviverà. Se il concetto non è chiaro, basta osservare dissensi e discordie per capire quanto sia grande la forza dell'amicizia e della concordia. Quale casa è così stabile, quale città è così resistente da impedire a odi e divisioni interne di sconvolgerla da cima a fondo? Dal che si può giudicare quanto ci sia di buono nell'amicizia. |
Sin autem aut morum aut studiorum commutatio quaedam, ut fieri solet, facta erit aut in rei publicae partibus dissensio intercesserit (loquor enim iam, ut paulo ante dixi, non de sapientium sed de communibus amicitiis), cavendum erit, ne non solum amicitiae depositae, sed etiam inimicitiae susceptae videantur. Nihil est enim turpius quam cum eo bellum gerere quocum familiariter vixeris. Ab amicitia Q. Pompei meo nomine se removerat, ut scitis, Scipio; propter dissensionem autem, quae erat in re publica, alienatus est a collega nostro Metello; utrumque egit graviter, auctoritate et offensione animi non acerba. | Ma se il carattere o gli interessi cambieranno, come avviene di solito, o se il diverso orientamento politico diventerà motivo di contrasto (non mi sto riferendo, come ho appena detto, alle amicizie dei saggi, ma alle comuni), dovremo evitare di far credere che abbiamo fatto morire un'amicizia per concepire un odio. Niente è più indegno che aprire le ostilità contro la persona con cui hai vissuto in intimità. Scipione, lo sapete, a causa mia aveva rinunciato all'amicizia di Quinto Pompeo; per dissensi politici si staccò dal nostro collega Metello: in entrambi i casi agì dignitosamente, cioè con autorità, ma senza nutrire aspri rancori. |
Quamquam hoc animi, illud etiam ingenii magni est, praecipere cogitatione futura et aliquanto ante constituere, quid accidere possit in utramque partem et quid agendum sit, cum quid evenerit, nec committere, ut aliquando dicendum sit "non putaram". Haec sunt opera magni animi et excelsi et prudentia consilioque fidentis; temere autem in acie versari et manu cum hoste confligere immane quiddam et beluarum simile est; sed cum tempus necessitasque postulat, decertandum manu est et mors servituti turpitudinique anteponenda. | Questo è il pregio dell'animo grande; ma anche il grande intelletto ha un suo pregio: esso precorre col pensiero il futuro, determina con buon anticipo i possibili eventi favorevoli e sfavorevoli, stabilisce i vari comportamenti nelle varie circostanze; in una parola, si comporta in modo da non dover dire un giorno: "Oh, io non l'avrei mai creduto"! Queste sono le opere di un animo grande ed elevato, e che confida nel suo senno e nella sua saggezza. Ma cacciarsi alla cieca nella mischia e combattere a corpo a corpo col nemico, è un atto di bestiale ferocia; quando però il momento e la necessità lo richiedono, allora si combatta pure fino all'ultimo sangue e si anteponga la morte all'infamia della schiavitù. |
Nam cum de divinatione Quintus frater ea disseruisset quae superiore libro scripta sunt, satisque ambulatum videretur, tum in bibliotheca quae in Lycio est adsedimus. Atque ego: "Adcurate tu quidem", inquam, "Quinte, et stoice Stoicorum sententiam defendisti, quodque me maxime delectat, plurimis nostris exemplis usus es, et iis quidem claris et inlustribus. Dicendum est mihi igitur ad ea quae sunt a te dicta, sed ita nihil ut adfirmem, quaeram omnia, dubitans plerumque et mihi ipse diffidens.Si enim aliquid certi haberem quod dicerem, ego ipse divinarem, qui esse divinationem nego. Etenim me movet illud quod in primis Carneades quaerere solebat, quarumnam rerum divinatio esset. Earumne, quae sensibus perciperentur? At eas quidem cernimus, audimus, gustamus, olfacimus, tangimus. Num quid ergo in his rebus est, quod previsione aut permotione mentis magis quam natura ipsa sentiamus? Aut num nescio qui ille divinus, si oculis captus sit, ut Tiresias fuit, possit, quae alba sint, quae nigra dicere, aut, si surdus sit, varietates vocum aut modos noscere? Ad nullam igitur earum rerum quae sensu accipiuntur divinatio adhibetur. Atqui ne in iis quidem rebus quae arte tractantur divinatione opus est. Etenim ad aegros non vates aut hariolos, sed medicos solemus adducere; nec vero qui fidibus aut tibiis uti volunt ab haruspicibus accipiunt earum tractationem, sed a musicis. Eadem in litteris ratio est reliquisque rebus, quarum est disciplina. Num censes eos, qui divinare dicuntur, posse rispondere, sol maiorne quam terra sit an tantus quantus videatur, lunaque suo lumine an solis utatur? Sol, luna quem motum habeat? Quem quinque stellae, quae errare dicuntur? Nec haec qui divini habentur profitentur se esse dicturos, nec eorum, quae in geometria describuntur, quae vera, quae falsa sint: sunt enim ea mathematicorum, non hariolorum. | Dopo che mio fratello Quinto ebbe detto sulla divinazione ciò che ho riferito nel libro precedente, e ci parve di aver passeggiato abbastanza, ci mettemmo a sedere nella biblioteca che vi è nel Liceo. E io dissi: "Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi. Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso. Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino! E in verità mi fa impressione ciò che soprattutto era solito domandare Carneade: a quali oggetti si riferisce la divinazione. A quelli che si percepiscono coi sensi? Ma questi noi li vediamo, li udiamo, li gustiamo, ne sentiamo l'odore, li tocchiamo. C'è dunque in questi oggetti qualcosa che riusciamo a intuire mediante la previsione o l'esaltazione della mente anziché con le sole nostre facoltà naturali? O forse codesto presunto indovino, se fosse cieco come fu Tiresia, potrebbe dire quali cose sono bianche, quali nere? o, se fosse sordo, saprebbe distinguere le varie voci o le tonalità del canto? Dunque la divinazione non è applicabile a nessuna di quelle cose che sono oggetto di sensazione. D'altra parte, non c'è bisogno della divinazione nemmeno in ciò che è còmpito dell'attività intellettuale e pratica. Al capezzale dei malati non siamo soliti chiamare profeti o indovini, ma medici. Né quelli che vogliono imparare a suonare la cetra o il flauto ne apprendono la tecnica degli arùspici, ma dai musicisti. Lo stesso ragionamento vale per le lettere e per tutte le altre materie che sono oggetto d'insegnamento. Credi forse che quelli che hanno fama di essere indovini siano capaci di dire se il sole sia più grande della terra o tanto grande quanto lo vediamo, e se la luna risplenda di luce propria o riflessa dal sole? quale movimento abbiano il sole e la luna? quali le cinque stelle che chiamiamo erranti? Quegli stessi che son ritenuti indovini non presumono di saper dire queste cose, né di pronunciarsi sulla verità o falsità delle nozioni acquisite mediante figure geometriche: queste son cose di pertinenza dei matematici, non dei profeti. |
At illa quanti sunt, animum, tamquam emeritis stipendiis libidinis, ambitionis, contentionis, inimicitiarum cupiditatum omnium, secum esse secumque, ut dicitur, vivere! Si vero habet aliquod tamquam pabulum studi atque doctrinae, nihil est otiosa senectute iucundius. Videbamus in studio dimetiendi paene caeli atque terrae C. Galum, familiarem patris tui, Scipio. Quotiens illum lux noctu aliquid describere ingressum, quotiens nox oppressit, cum mane coepisset! Quam delectabat eum defectiones solis et lunae multo ante nobis praedicere! | Invece com'è prezioso per l'animo che ha preso congedo, per così dire, dal piacere dei sensi, dall'ambizione, dalle rivalità, dalle inimicizie, da tutte le passioni, starsene con se stesso e, come si dice, vivere con se stesso! Se poi trova, diciamo così, di che alimentarsi nello studio e nella cultura, niente è più piacevole di una vecchiaia libera da impegni. Vedevamo Caio Galo, amico di tuo padre, Scipione, struggersi nello sforzo di misurare quasi il cielo e la terra. Quante volte la luce del giorno lo sorprese a tracciare disegni iniziati di notte, quante volte la notte quando aveva iniziato al mattino! Come gli piaceva predirci con largo anticipo le eclissi di sole e di luna! |
Quam ob rem melius apud bonos quam apud fortunatos beneficium collocari puto. Danda omnino opera est, ut omni generi satis facere possimus, sed, si res in contentionem veniet, nimirum Themistocles est auctor adhibendus, qui cum consuleretur, utrum bono viro pauperi an minus probato diviti filiam collocaret 'Ego vero, inquit, malo virum, qui pecunia egeat, quam pecuniam quae viro'. Sed corrupti mores depravatique sunt admiratione divitiarum; quarum magnitudo quid ad unumquemque nostrum pertinet? Illum fortasse adiuvat, qui habet; ne id quidem semper; sed fac iuvare; utentior sane sit, honestior vero quomodo? Quod si etiam bonus erit vir, ne impediant divitiae quominus iuvetur, modo ne adiuvent, sitque omne iudicium, non quam locuples, sed qualis quisque sit.Extremum autem praeceptum in beneficiis operaque danda, ne quid contra aequitatem contendas, ne quid pro iniuria; fundamentum enim est perpetuae commendationis et famae iustitia, sine qua nihil potest esse laudabile. | Perciò ritengo che sia meglio collocare un beneficio presso i buoni che presso i dotati di fortuna. Bisogna, in genere, adoperarsi per soddisfare persone di ogni classe sociale, ma se si dovrà scegliere, certamente bisognerà seguire l'esempio di Temistocle; avendogli chiesto un tale se dovesse dare la figlia in sposa ad un uomo onesto ma povero o ad un uomo ricco ma meno onesto, rispose: "Preferisco, in verità, un uomo che manchi di denaro, anziché il denaro che manchi di un uomo". Ma a causa dell'ammirazione per le ricchezze si corrompono e depravano i costumi; ma la grandezza di esse in che riguarda ciascuno di noi? Forse giova a colui che le possiede, e neppure sempre; ma ammettiamo che giovi: sia pure, ma in qual modo potrà essere più onesto? Che se sarà anche un galantuomo, le sue ricchezze non dovranno impedire che gli si faccia del bene, purché non ne siano la ragione. Ogni giudizio riguardi non quanto ciascuno sia ricco, ma quali siano le sue qualità morali. L'ultimo consiglio nel dare benefici e nel rendere servigi è di non fare nulla contro l'equità e nulla a favore dell'ingiustizia; il fondamento di un continuo favore e di una fama perpetua è la giustizia, senza la quale non può esistere nulla degno di lode. |
Hinc patriae proditiones, hinc rerum publicarum eversiones, hinc cum hostibus clandestina colloquia nasci; nullum denique scelus, nullum malum facinus esse, ad quod suscipiendum non libido voluptatis impelleret; stupra vero et adulteria et omne tale flagitium nullis excitari aliis inlecebris nisi voluptatis; cumque homini sive natura sive quis deus nihil mente praestabilius dedisset, huic divino muneri ac dono nihil tam esse inimicum quam voluptatem; | Da qui i tradimenti della patria, da qui i colpi di stato, da qui nascono le collusioni segrete con il nemico, insomma, non c'è delitto, non c'è crimine che la brama del piacere non spinga a commettere; e poi stupri, adulteri e ogni infamia del genere non sono provocati da altro incitamento se non dal piacere dei sensi. Se è vero che la natura o un dio non ha dato all'uomo niente di più bello dell'intelligenza, è altresi vero che niente, come il piacere, è nemico di questo munifico dono divino. |
Et si non minus nobis iucundi atque inlustres sunt ii dies, quibus conservamur, quam illi, quibus nascimur, quod salutis certa laetitia est, nascendi incerta condicio, et quod sine sensu nascimur, cum voluptate servamur, profecto, quoniam illum, qui hanc urbem condidit, ad deos inmortalis benivolentia famaque sustulimus, esse apud vos posterosque vestros in honore debebit is, qui eandem hanc urbem conditam amplificatamque servavit. Nam toti urbi, templis, delubris, tectis ac moenibus subiectos prope iam ignis circumdatosque restinximus, idemque gladios in rem publicam destrictos rettudimus mucronesque eorum a iugulis vestris deiecimus. | E se il giorno in cui abbiamo salva la vita non ci è meno caro e prezioso del giorno in cui nasciamo, perché è certa la gioia della salvezza, ma incerta la condizione del nascere, e perché nasciamo senza averne consapevolezza, ma ci salviamo con soddisfazione, dal momento che, per riconoscenza, abbiamo elevato al rango degli dèi immortali il fondatore di questa città, sarà doveroso, per voi e i vostri posteri, onorare chi ha salvato questa stessa città, una città che è cresciuta dai tempi della sua fondazione. Avevano quasi ormai appiccato i fuochi tutt'intorno a Roma, nei templi, nei santuari, nelle case, alle mura: li abbiamo spenti. Avevano sguainato le spade contro lo Stato: le abbiamo respinte. Avevano puntato i pugnali alla vostra gola: li abbiamo abbattuti. |
quid mirum igitur ex spelunca saxum in crura eius incidisse? puto enim, etiamsi Icadius tum in spelunca non fuisset, saxum tamen illud casurum fuisse. Nam aut nihil omnino est fortuitum, aut hoc ipsum potuit evenire fortuna. Quaero igitur (atque hoc late patebit), si fati omnino nullum nomen, nulla natura, nulla vis esset et forte temere casu aut pleraque fierent aut omnia, num aliter, ac nunc eveniunt, evenirent. Quid ergo adtinet inculcare fatum, cum sine fato ratio omnium rerum ad naturam fortunamve referatur? | Cosa c'è di straordinario dunque, se dalla volta della grotta gli è caduto un masso sulle gambe? Penso che, se anche Icadio non fosse stato in quell'istante nella grotta, il masso sarebbe comunque caduto. O non si concede affatto la possibilità di una circostanza fortuita, oppure la vicenda di Icadio ha potuto aver luogo per caso. Allora mi domando - e la questione riguarderà un campo ben ampio: se il fato non avesse un nome, una natura, un'essenza e se la maggior parte degli eventi, o addirittura tutti, si determinassero in modo fortuito, arbitrario o casuale, avrebbero forse uno svolgimento diverso rispetto ad ora? Che scopo ha dunque insistere sul concetto di fato, quando, anche senza ricorrervi, si può far risalire l'ordine universale alla natura o al caso? |
Quare, patres conscripti, incumbite ad salutem rei publicae, circumspicite omnes procellas, quae inpendent, nisi providetis. Non Ti. Gracchus, quod iterum tribunus plebis fieri voluit, non C. Gracchus, quod agrarios concitare conatus est, non L. Saturninus, quod C. Memmium occidit, in discrimen aliquod atque in vestrae severitatis iudicium adduciturtenentur ii, qui ad urbis incendium, ad vestram omnium caedem, ad Catilinam accipiendum Romae restiterunt, tenentur litterae, signa, manus, denique unius cuiusque confessio; sollicitantur Allobroges, servitia excitantur, Catilina accersitur; id est initum consilium, ut interfectis omnibus nemo ne ad deplorandum quidem populi Romani nomen atque ad lamentandam tanti imperii calamitatem relinquatur. | Allora, padri coscritti, date tutto il vostro appoggio alla salvezza dello Stato! Guardate quali tempeste si abbatteranno su di voi, se non correrete ai ripari! Non è chiamato in causa, non è sottoposto alla severità del vostro giudizio un Tiberio Gracco, per aver aspirato alla rielezione di tribuno della plebe, né un Caio Gracco, per aver cercato di portare alla rivolta gli agrari, né un Lucio Saturnino, per aver ucciso Caio Memmio. Nelle nostre mani ci sono uomini che sono rimasti a Roma per scatenare incendi, per uccidervi tutti, per accogliere Catilina. Nelle nostre mani ci sono lettere, sigilli, scritture, infine la confessione di ciascuno di loro. Qui si tratta di collusione con gli Allobrogi e di rivolte servili; si richiama Catilina, si decide di eliminarvi tutti perché non rimanga nessuno a piangere il nome del popolo romano e a compatire le sventure di un impero così vasto. |
Mucius autem augur quod pro se opus erat ipse dicebat, ut de pecuniis repetundis contra T. Albucium. is oratorum in numero non fuit, iuris civilis intellegentia atque omni prudentiae genere praestitit. L. Coelius Antipater scriptor, quemadmodum videtis, fuit ut temporibus illis luculentus, iuris valde peritus, multorum etiam, ut L. Crassi, magister. | In quanto a Mucio l'Augure, sapeva parlare personalmente in propria difesa quand'era necessario, come nel processo per concussione dove ebbe come avversario Tito Albucio. Non venne annoverato tra i veri ora tori, ma brillò per la conoscenza del diritto civile e per ogni genere di interessi intellettuali. Lucio Celio Antipatro fu, come potete vedere, uno scrittore per quei tempi brillante ben esperto di diritto civile, e anche maestro di molti, come per esempio di Lucio Crasso. |
Panaetius igitur, qui sine controversia de officiis accuratissime disputavit quemque nos correctione quadam adhibita potissimum secuti sumus, tribus generibus propositis, in quibus deliberare homines et consultare de officio solerent, uno cum dubitarent, honestumne id esset, de quo ageretur, an turpe, altero utilene esset an inutile, tertio, si id, quod speciem haberet honesti, pugnaret cum eo, quod utile videretur, quomodo ea discerni oporteret, de duobus generibus primis tribus libris explicavit, de tertio autem genere deinceps se scripsit dicturum nec exsolvit id, quod promiserat. | Panezio, dunque, che senza alcun dubbio ha disputato in modo molto preciso intorno ai doveri, e che io ho seguito in linea di massima, pur avendo apportato qualche correzione, fissa tre tipi di domande sulle quali gli uomini sono soliti riflettere e quindi decidere intorno al dovere: la prima, quando si è incerti se sia onesto o meno ciò di cui si tratta; la seconda se sia utile o no; la terza concerne il modo in cui ciò che ha l'apparenza dell'onesto contrasti con ciò che sembra utile. Panezio trattò in tre libri i primi due quesiti, del terzo scrisse, invece, che ne avrebbe parlato in seguito, ma non mantenne ciò che aveva promesso; |
Quamquam, Quirites, non est illa legatio, sed denuntiatio belli, nisi paruerit; ita enim est decretum, ut si legati ad Hannibalem mitterentur. Mittuntur enim, qui nuntient, ne oppugnet consulem designatum, ne Mutinam obsideat, ne provinciam depopuletur, ne dilectus habeat, sit in senatus populique Romani potestate. Facile vero huic denuntiationi parebit, ut in patrum conscriptorum atque in vestra potestate sit, qui in sua numquam fuerit! Quid enim ille umquam arbitrio suo fecit? Semper eo tractus est, quo libido rapuit, quo levitas, quo furor, quo vinulentia; semper eum duo dissimilia genera tenuerunt, lenonum et latronum; ita domesticis stupris, forensibus parricidiis delectatur, ut mulieri citius avarissimae paruerit quam senatui populoque Romano. | E d'altronde, Quiriti, quella non è un'ambasciata, ma una dichiarazione di guerra, se non ubbidirà; così infatti è stato deciso, come se fossero mandato legati ad Annibale. Sono mandati infatti quelli che annunciano che non contrasti il console designato, non assedi Modena, non devasti la provincia, non abbia diletti, sia in potere del senato e del popolo Romano. Ma facilmente obbedirà a questa dichiarazione di essere sotto il potere vostro e dei senatori, chi non è mai stato in suo potere! Che cosa infatti ha mai fatto lui di suo proprio arbitrio? Sempre è stato trascinato là dove la brama, la frivolezza, il furore, l'ubriachezza lo trascinarono; sempre lo hanno temuto due diversi generi, di lenoni e di ladroni; così trae piacere da violenze domestiche e da parricidi forensi, da obbedire più rapidamente all'avidissima moglie che al senato e al popolo romano. |
Scipio: « Cum in Africam venissem M. Manilio consuli ad quartam legionem tribunus, ut scitis, militum, nihil mihi fuit potius, quam ut Masinissam convenirem regem, familiae nostrae iustis de causis amicissimum. Ad quem ut veni, complexus me senex collacrimavit aliquantoque post suspexit ad caelum et: "Grates", inquit, "tibi ago, summe Sol, vobisque, reliqui Caelites, quod, antequam ex hac vita migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cornelium Scipionem, cuius ego nomine ipso recreor; ita numquam ex animo meo discedit illius optimi atque invictissimi viri memoria".Deinde ego illum de suo regno, ille me de nostra re publica percontatus est, multisque verbis ultro citroque habitis ille nobis consumptus est dies. | Scipione: « Essendo (io) venuto in Africa come tribuno dei soldati del console Marco Manilio presso la quarta legione, come sapete, nulla fu per me più importante di andare a trovare il re Masinissa, molto amico alla nostra famiglia per buone ragioni. Non appena arrivai da questo, il vecchio dopo avermi abbracciato pianse e alquanto dopo alzò lo sguardo al cielo e disse: "Ringrazio te, o sommo Sole, e voi restanti celesti perché, prima che migri da questa vita, posso vedere nel mio regno e in queste case Publio Cornelio Scipione, dallo stesso nome del quale io sono confortato; così mai dal mio animo si allontanerà il ricordo di quell'uomo, il migliore e il più invincibile". Quindi io gli (domandai) del suo regno, lui mi domandò del suo, e scambiate molte parole da una parte e dall'altra quel giorno ci trascorse |
Cicero Attico salutem dicit.L. Iulo Caesare C. Marcio Figulo consolibus filiolo me auctum scito salva Terentia. Abs te tam diu nihil litterarum! Ego de meis ad te rationibus scripsi antea diligenter. Hoc tempore catilinam, competitorem nostrum,defendere cogitamus. Iudices habemus, quos voluimus, summa accusatoris voluntate. Spero, si absolutus erit, coniunctiorem illum nobis fore in ratione petitionis; sin aliter acciderit, humaniter feremus. Tuo adventu nobis opus est maturo; nam prorsus summa hominum est opinio tuos familiares nobiles homines adversarios honoti nostro fore.Ad eorum voluntatem mihi conciliandam maximo te mihi usui fore video. Quare Ianuario mense, ut constituisti, cura ut Romae sis. | Cicerone saluta Attico.Sotto il consolato di Lucio Gallio Cesare e di Gaio Marcio Figulo sappi che mi è nato un figlio maschio, e Terenzia è sana e salva. Non ricevo più tue lettere de tanto tempo! Io, invece, già prima ti ho scritto con tutti i particolari di ciò che ti volevo riferire. In questo momento sto pensando di difendere Catilina, che concorre come me al consolato. Abbiamo come giudici, quelli che vogliamo, col pieno consenso dell'accusatore. Spero che, se verrà assolto, mi sarà molto più legato nell'impostazione della campagna elettorale; in caso contrario, sopporteremo coraggiosamente. Ho assoluto bisogno che tu ritorni al più presto, perché è opinione generalmente diffusa fra la gente che i nobii l,amici tuoi, si opporranno alla mia carica. Mi accorgo che tu mi sarai di grande utilità per conciliarmi le loro simpatie. Perciò vedi di essere a Roma come hai stabilito, entro gennaio. |
Atticus:Ille vero etsi tuus est totus ordo, gratissimamque memoriam retinet consulatus tui, pace tua dixerim: non modo censores sed etiam iudices omnes potest defatigare.Marcus:Omitte ista Attice! Non enim de hoc senatu nec his de hominibus qui nunc sunt, sed de futuris, si qui forte his legibus parere voluerint, haec habetur oratio. Nam cum omni vitio carere lex iubeat, ne veniet quidem in eum ordinem quisquam vitii particeps. Id autem difficile factu est nisi educatione quadam et disciplina; de qua dicemus aliquid fortasse, si quid fuerit loci aut temporis. | Attico:Ma quest'ordine, sebbene sia tutto tuo e conservi il ricordo riconoscente del tuo consolato, potrebbe stancare, con tua buona pace, consentimi di dirlo, non solo i censori, ma anche tutti i giudici.Marco:Lascia stare questi argomenti, Attico; questa discussione non riguarderà questo senato né questi uomini che vi sono oggi, ma quelli futuri, se alcuni per caso vorranno obbedire a queste leggi. Infatti poiché la legge impone che quest'assemblea sia esente da ogni difetto, non sarà nemmeno ammesso in quest'ordine alcuno partecipe di azioni indegne. E ciò in pratica è difficile da attuarsi, se non grazie ad una certa educazione e disciplina; delle quali forse diremo qualcosa, se rimarrà un po' di tempo e l'occasione. |
Quae cum ita sint, Catilina, dubitas, si emori aequo animo non potes, abire in aliquas terras et vitam istam multis suppliciis iustis debitisque ereptam fugae solitudinique mandare? 'Refer', inquis, 'ad senatum'; id enim postulas et, si hic ordo [sibi] placere decreverit te ire in exilium, optemperaturum te esse dicis. Non referam, id quod abhorret a meis moribus, et tamen faciam, ut intellegas, quid hi de te sentiant. Egredere ex urbe, Catilina, libera rem publicam metu, in exilium, si hanc vocem exspectas, proficiscere.Quid est, Catilina? ecquid attendis, ecquid animadvertis horum silentium? Patiuntur, tacent. Quid exspectas auctoritatem loquentium, quorum voluntatem tacitorum perspicis? | Poiché le cose stanno così, Catilina, se non sai rassegnarti a morire, cosa aspetti a espatriare, a consegnare all'esilio e alla solitudine una vita sottratta a molte, giuste, meritate pene? "Fai un rapporto al Senato", dici. È questo che chiedi e ti dichiari pronto a obbedire se il Senato decidesse di esiliarti. Non lo presenterò: sarebbe incompatibile col mio carattere. Tuttavia ti farò capire cosa pensano di te i presenti. Vattene dalla città, Catilina! Libera lo Stato dal terrore! Se non aspetti che questa parola, parti in esilio! E allora? Non vedi, non ti accorgi del loro silenzio? Sopportano, tacciono. Perché attendi la conferma della parola, quando ti è chiaro il significato del loro silenzio? |
Placet igitur aptiora esse naturae ea officia, quae ex communitate, quam ea, quae ex cognitione ducantur, idque hoc argumento confirmari potest, quod, si contigerit ea vita sapienti, ut omnium rerum affluentibus copiis [quamvis] omnia, quae cognitione digna sint, summo otio secum ipse consideret et contempletur, tamen si solitudo tanta sit, ut hominem videre non possit, excedat e vita. Princepsque omnium virtutum illa sapientia, quamsophianGraeci vocant - prudentiam enim, quam Graeciphronesindicunt, aliam quandam intellegimus, quae est rerum expetendarum fugiendarumque scientia; illa autem sapientia, quam principem dixi, rerum est divinarum et humanarum scientia, in qua continetur deorum et hominum communitas et societas inter ipsos; ea si maxima est, ut est, certe necesse est, quod a communitate ducatur officium, id esse maximum.Etenim cognitio contemplatioque [naturae] manca quodam modo atque inchoata sit, si nulla actio rerum consequatur. Ea autem actio in hominum commodis tuendis maxime cernitur; pertinet igitur ad societatem generis humani; ergo haec cognitioni anteponenda est. | Ora appunto io credo che siano più conformi alla natura quei doveri che derivano dal sentimento della socialità che non quelli che derivano dalla sapienza; e lo si può comprovare con quest'argomento, che, se il sapiente avesse in sorte una vita tale che, affluendogli in grande abbondanza ogni bene, potesse meditare e contemplare tra sé in santa pace le più alte e nobili verità, tuttavia, se la solitudine fosse così grande da non veder mai faccia d'uomo, finirebbe col rinunziare alla vita. Poi, quella sapienza, signora di tutte le virtù, che i Greci chiamanosofiada non confondersi con la "prudenza", che i Greci chiamanofronesise che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire); quella sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e in sé comprende gli scambievoli rapporti tra gli dèi e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro. Ora, se questa virtù è, com'è senza dubbio, la maggiore fra tutte, ne viene di necessità che il dovere, che dall'umana convivenza deriva, è fra tutti il maggiore. E invero la conoscenza e la contemplazione dell'universo è, in certo qual modo, manchevole e imperfetta se nessun'azione pratica la segue. Ma l'azione pratica si esplica soprattutto nella difesa dei beni comuni a tutti gli uomini; riguarda, dunque, la convivenza del genere umano. L'azione, pertanto, è da anteporre alla scienza. |
Nam cum essem in Puteolano Hirtiusque noster, consul designatus, isdem in locis, vir nobis amicissimus et his studiis, in quibus nos a pueritia viximus, deditus, multum una eramus, maxime nos quidem exquirentes ea consilia, quae ad pacem et ad concordiam civium pertinerent. Cum enim omnes post interitum Caesaris novarum perturbationum causae quaeri viderentur iisque esse occurrendum putaremus, omnis fere nostra in his deliberationibus consumebatur oratio, idque et saepe alias et quodam liberiore, quam solebat, et magis vacuo ab interventoribus die, cum ad me ille venisset, primo ea, quae erant cotidiana et quasi legitima nobis, de pace et de otio. | Ero infatti nella mia tenuta di Pozzuoli e nei dintorni si trovava pure il nostro Irzio, console designato, persona a me legata da saldissimi vincoli d'amicizia e dedita agli stessi studi in cui sono cresciuto fin dall'infanzia: trascorrevamo insieme molto tempo, esaminando in particolare le misure che miravano alla pace e alla concordia tra i cittadini. Dopo la morte di Cesare sembrava infatti che si cercassero pretesti per nuovi disordini e ritenevamo di dover porre rimedio a una situazione del genere, per cui quasi tutti i nostri discorsi venivano spesi su tali argomenti. Era accaduto spesso in altre circostanze, ma ne discutemmo in particolare un giorno ben preciso, in cui avevamo più tempo del solito e meno visitatori; non appena Irzio giunse da me, prima trattammo degli argomenti che erano quotidianamente al centro dei nostri interessi e, starei per dire, d'obbligo per noi: la pace e la tranquillità pubblica. |
Cum autem aliquid actum est, in quo media officia compareant, id cumulate videtur esse perfectum propterea, quod vulgus, quid absit a perfecto, non fere intellegit; quatenus autem intellegit, nihil putat praetermissum, quod idem in poematis, in picturis usu venit in aliisque compluribus, ut delectentur imperiti laudentque ea, quae laudanda non sint, ob eam, credo, causam, quod insit in his aliquid probi, quod capiat ignaros, qui idem, quid in unaquaque re vitii sit, nequeant iudicare.Itaque cum sunt docti a peritis, desistunt facile sententia. Haec igitur officia, de quibus his libris disserimus, quasi secunda quaedam honesta esse dicunt, non sapientium modo propria, sed cum omni hominum genere communia. | Quando però si compie qualche azione nella quale si presentino i doveri di mezzo (relativi), essa sembra assolutamente perfetta, proprio perché la gente comune in genere non comprende quanto sia lontana dalla perfezione e, fino al punto in cui arriva la sua intelligenza, non pensa di aver trascurato niente. L'identica cosa è divenuta usuale in fatto di poesia, di dipinti e in molti altri campi, sicché i profani traggono diletto e apprezzano quelle cose che non devono essere apprezzate, per il motivo - credo - che è insito in esse un qualcosa di onesto, che affascina gli inesperti, i quali d'altra parte non possono giudicare i difetti propri di ciascuna opera; perciò, quando sono illuminati da esperti, facilmente cambiano la loro opinione. Questi doveri, dunque, dei quali sto discutendo in questi libri, sono - secondo gli Stoici - cose oneste di secondo grado, non proprie solamente dei sapienti, ma comuni a tutto il genere umano. |
Etenim si viveret Q. Hortensius, cetera fortasse desideraret una cum reliquis bonis et fortibus civibus, hunc autem aut praeter ceteros aut cum paucis sustineret dolorem, cum forum populi Romani, quod fuisset quasi theatrum illius ingeni, voce erudita et Romanis Graecisque auribus digna spoliatum atque orbatum videret. | Se infatti fosse in vita, forse ogni altra cosa Quinto Ortensio rimpiangerebbe insieme al resto dei cittadini onesti e forti d'animo; da un dolore, però, sarebbe gravato più degli altri, o insieme a pochi altri: di vedere il foro del popolo romano, che era stato per così dire il teatro del suo talento, spogliato e depauperato di ogni voce erudita e degna di essere ascoltata da orecchie romane e greche. |
Confecto negotio bonus augur (C. Laelium diceres) "alio die" inquit. O inpudentiam singularem! Quid videras, quid senseras, quid audieras? Neque enim te de caelo servasse dixisti nec hodie dicis. Id igitur obvenit vitium, quod tu iam Kalendis Ianuariis futurum esse provideras et tanto ante praedixeras. Ergo hercule magna, ut spero, tua potius quam rei publicae calamitate ementitus es auspicia, obstrinxisti religione populum Romanum, augur auguri, consul consuli obnuntiasti.Nolo plura, ne acta Dolabellae videar convellere, quae necesse est aliquando ad nostrum collegium deferantur. Sed adrogantiam hominis insolentiamque cognoscite. Quamdiu tu voles, vitiosus consul Dolabella; rursus, cum voles, salvis auspiciis creatus. Si nihil est, cum augur iis verbis nuntiat, quibus tu nuntiasti, confitere te, cum "alio die" dixeris, sobrium non fuisse; sin est aliqua vis in istis verbis, ea quae sit, augur a collega requiro. Sed ne forte ex multis rebus gestis M. Antoni rem unam pulcherrimam transiliat oratio, ad Lupercalia veniamus.Non dissimulat, patres conscripti, adparet esse commotum; sudat, pallet. Quidlibet, modo ne nauseet, faciat, quod in porticu Minucia fecit. Quae potest esse turpitudinis tantae defensio? Cupio audire, ut videam, ubi rhetoris sit tanta merces [id est ubi campus Leontinus appareat]. | Concluse le operazioni di voto, il buon augure - si sarebbe detto che fosse Lelio - disse: "Un altro giorno". Oh spudoratezza senza pari! Cosa avevi visto, percepito, udito? e né infatti dicesti di aver osservato i segni del cielo né lo dici oggi. Si verificò dunque quello sfavore degli auspici che tu avevi previsto che sarebbe successo il primo gennaio e che avevi previsto tanto prima? Dunque per Ercole, come spero, hai falsificato i tuoi grandi auspici più che la disfatta dell ostato, hai impegnato con un sacro giuramento il popolo romano, hai fatto opposizione come come augure ad un augure, come console ad un console. Non voglio dire altre cose, affinché non sembri che io voglia infirmare gli atti di Dolabella, che è necessario che vengano sottoposte al nostro collegio. Ma conoscete l'arroganza e l'insolenza dell'uomo. Per tutto il tempo che tu vorrai Dolabella sarà un console eletto irregolarmente o, quando vorrai, nel pieno rispetto degli auspici. Se è un atto di nessun valore, quando l'augure annuncia gli auspici che tu hai annunciato, ammetti che quando hai detto: "Un altro giorno" non eri sobrio; se invece in queste parle c'è qualche valore, in qualità di augure chiedo al mio collega quale sia. Ma affinché il mio discorso, tra le tante imprese di Antonio, non lasci proprio la più bella, veniamo a Lupercali. Non finge, o senatori, sembra essere scosso: suda, impallidisce. Faccia ciò che gli pare, purché non vomiti, csa che fece nel portico Minucio. Quale può essere la difesa di tanta turpitudine? Sono bramoso di ascoltare, affinché io veda dove siano andate a finire la ricompensa così lauta del suo maestro di retorica, dove appaiano i frutti della tenuta di Lentini. |
CICERO ATTICO SAL.tu me iam rebare, cum scribebas, in actis esse nostris, et ego accepi xvii Kal. in deversoriolo Sinuessano tuas litteras. de Mario probe, etsi doleo L. Crassi nepotem. optime iam etiam Bruto nostro probari Antonium. nam quod Iuniam scribis moderate et amice scriptas litteras attulisse, mihi Paulus dedit ad se a fratre missas; quibus in extremis erat sibi insidias fieri; se id certis auctoribus comperisse. hoc nec mihi placebat et multo illi minus.Reginae fuga mihi non molesta est. Clodia quid egerit scribas ad me velim. de Byzantiis curabis ut cetera et Pelopem ad te arcesses. ego, ut postulas, Baiana negotia chorumque illum de quo scire vis, cum perspexero, tum scribam, ne quid ignores.Galli, quid Hispani, quid Sextus agat vehementer exspecto. ea scilicet tu declarabis qui cetera. nauseolam tibi tuam causam oti dedisse facile patiebar videbare enim mihi legenti tuas litteras requiesse paulisper. de Bruto semper ad me omnia perscribito, ubi sit, quid cogitet. quem quidem ego spero iam tuto vel solum tota urbe vagari posse. verum tamen... | CICERONE AD ATTICOTu pensavi, nello scrivere la tua, che io fossi già a villeggiare in riva al mare, e io l'ho ricevuta il 15 piùmodestamente durante una sosta a Sinuessa. Per Mario va bene, anche se mi dispiace per il nipote di L. LicinioCrasso. E un'ottima cosa finalmente che un atto di Antonio sia approvato anche dal nostro Bruto. Quanto a quel chescrivi che Giunia ha recapitato al fratello una lettera dal tono moderato e amichevole, Paolo mi dice che suo fratelloMarco Emilio gliene ha inviata contemporaneamente un'altra a lui: nella parte finale c'era un avvertimento che glistavano preparando una trappola, cosa che egli aveva appreso da informazioni sicure. Questo non mi è piaciuto affatto e molto meno a lui. La fuga della regina Cleopatra non mi procura il minimo imbarazzo. Ti pregherei di co-municarmiche cosa abbia fatto Clodia. Alla questione dei cittadini di Bisanzio penserai tu come pensi al resto econvocherai in merito Pelope. Io, secondo la tua richiesta, non appena avrò rintracciato la combriccola di Baia equel gruppetto che ti interessa, te ne scriverò per non lasciarti all'oscuro di niente. Aspetto con grande ansietànotizie sulle intenzioni dei Galli, degli Spagnoli, di Sesto Pompeo. Spetta ovviamente a te chiarirmi questo ed altro.Ho appreso senza patemi che quel tuo leggero mal di stomaco ti ha causato una interruzione del lavoro: misembrava infatti a leggere la tua lettera che fossi riuscito a prenderti un po' di riposo. Fammi sempre un rapportocompleto su Bruto, dove si trovi, che pensi di fare, eccetera. Spero bene che oramai possa aggirarsi al sicuro pertutta Roma anche da solo. E tuttavia... |
Tum feriarum festorumque dierum ratio in liberis requietem habet litium et iurgiorum, in servis operum et laborum; quas conpositio anni conferre debet ad perfectionem operum rusticorum. Quod <ad> tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod institutum perite a Numa posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est. Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis.Plures autem deorum omnium, singuli singulorum sacerdotes et respondendi iuris et conficiendarum religionum facultatem adferunt. Quomque Vesta quasi focum urbis, ut Graeco nomine est appellata - quod nos prope idem <ac> Graecum, <non> interpretatum nomen tenemus -, conplexa sit, ei colendae <VI> virgines praesint, ut advigiletur facilius ad custodiam ignis, et sentiant mulieres <in> naturam feminarum omnem castitatem pati. | L'osservanza delle ferie, cioè dei giorni festivi, comporta per gli uomini liberi la tregua delle liti e delle contese, per i servi quella dei lavori e delle fatiche; ed il calendario annuale deve metterle in relazione con il termine dei lavori agricoli. Bisogna stare attenti ai giorni intercalari per il periodo in cui vengono presentate le offerte sacrificali ed i nati del bestiame, secondo le norme della legge; tale regola, stabilita egregiamente da Numa, venne poi vanificata dalla negligenza dei pontefici successivi. Ed ancora, delle prescrizioni dei pontefici e degli aruspici non bisogna mutare nulla di quanto concerne la scelta delle vittime da sacrificare a ciascun dio, a chi offrire le adulte ed a chi le lattanti, a chi i maschi ed a chi le femmine. Inoltre parecchi sacerdoti per tutti gli dèi ed uno particolare per ciascuno, danno la possibilità di interpretare le norme giuridiche e di celebrare i riti. Poiché Vesta, come fu chiamata con un nome greco - che noi mantenemmo quasi tale e quale senza tradurlo -, presiede al focolare della città, sia circondata, le stiano accanto sei fanciulle per vigilare più facilmente la custodia del fuoco e perché le donne sappiano che anche la natura femminile può affrontare l'assoluta castità. |
Quam ob rem primum danda opera est ne qua amicorum discidia fiant; sin tale aliquid evenerit, ut exstinctae potius amicitiae quam oppressae videantur. Cavendum vero ne etiam in graves inimicitias convertant se amicitiae; ex quibus iurgia, maledicta, contumeliae gignuntur. Quae tamen si tolerabiles erunt, ferendae sunt, et hic honos veteri amicitiae tribuendus, ut is in culpa sit qui faciat, non is qui patiatur iniuriam.Omnino omnium horum vitiorum atque incommodorum una cautio est atque una provisio, ut ne nimis cito diligere incipiant neve non dignos. | Per prima cosa, dunque, bisogna cercare di impedire tra amici le lacerazioni, ma, se si verificano, bisogna comportarsi in modo che la fiamma dell'amicizia sembri essersi consumata da sola, e non che sia stata soffocata. Occorre poi evitare che le amicizie si convertano in odi feroci, da cui nascono liti, maldicenze e insulti. Se però sono tollerabili, bisogna sopportarle e tributare questo onore all'amicizia di un tempo, in modo che la colpa ricada su chi commette il torto, non su chi lo subisce.In generale, il solo mezzo per prevenire e impedire questi guai e queste molestie è non iniziare ad amare troppo presto o persone indegne. |
Atticus:Equidem me cognosse admodum gaudeo. Sed illud tamen quale est quod paulo ante dixisti, hunc locum - id enim ego te accipio dicere Arpinum - germanam patriam esse vestram? Numquid duas habetis patrias, an est una illa patria communis? Nisi forte sapienti illi Catoni fuit patria non Roma sed Tusculum.Marcus:Ego mehercule et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturae, alteram civitatis: ut ille Cato, quom esset Tusculi natus, in populi Romani civitatem susceptus est, ita<que> quom ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris; ut vestri Attici, priusquam Theseus eos demigrare ex agris et in astu quod appellatur omnis conferre se iussit, et sui erant idem et Attici, sic nos et eam patriam dicimus ubi nati, et illam <a> qua excepti sumus.Sed necesse est caritate eam praestare <e> qua rei publicae nomen universae civitati est, pro qua mori et cui nos totos dedere et in qua nostra omnia ponere et quasi consecrare debemus. Dulcis autem non multo secus est ea quae genuit quam illa quae excepit. Itaque ego hanc meam esse patriam prorsus numquam negabo, dum illa sit maior, haec in ea contineatur. [...] duas habet civitatis, sed unam illas civitatem putat. | Attico:Ed io sono molto contento di averne fatta la conoscenza. Ma come sta tuttavia il fatto, cui accennavi poco fa, cioè che questo luogo, Arpino, sarebbe la vostra patria naturale? Forse ne avete due, di patrie o è quella sola la patria comune? A meno che quel saggio Catone non abbia avuto come patria non Roma, ma Tuscolo.Marco:Per Ercole, io penso che tanto egli come tutti i municipali abbiano due patrie, una quella naturale, l'altra quella giuridica; e come quel famoso Catone, pur essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella cittadinanza romana, così, essendo Tuscolano di nascita, e Romano per diritto di cittadinanza, ebbe l'una come patria naturale, l'altra di diritto. E per quanto riguarda i vostri Attici, prima che Teseo li costringesse a trasferirsi dai campi ed a riunirsi tutti in quella che si chiama città, essi erano nello stesso tempo ciascuno cittadino del proprio borgo ed anche Attici, così noi consideriamo patria sia quella in cui siamo nati, sia quella da cui fummo accolti. Ma è necessario dedicare il proprio amore soprattutto a quella, in virtù della quale il nome dello Stato è comune a tutti i cittadini, per la quale dobbiamo morire ed alla quale dedicarci interamente ed in cui riporre tutti i nostri interessi e quasi consacrarveli. Ma quella che ci ha generato è poi cara in misura non molto diversa da quella che ci ha accolto. Perciò io non negherò mai che questa è davvero la mia patria, pur essendo maggiore di essa quell'altra, e questa sia compresa in quell'altra [dalla quale ciascun municipale riceve il diritto] di una seconda cittadinanza e che considera l'unica patria. |
TULLIUS TERENTIAE SUAE SAL.Si vales, bene est, ego valeo. Valetudinem tuam velim cures diligentissime; nam mihi et scriptum et nuntiatum est te in febrim subito incidisse. Quod celeriter me fecisti de Caesaris litteris certiorem, fecisti mihi gratum. Item posthac, si quid opus erit, si quid acciderit novi, facies, ut sciam. Cura, ut valeas. Vale. D. IIII Non. Iun. | CICERONE A TERENZIAIo sto bene e cosi spero di te. Ma vorrei che tu non trascurassi minimamente la tua salute: sono stato informatocontemporaneamente per lettera e a voce che ti è venuta una febbre improvvisa. Mi hai fatto un grande piacere ainformarmi con tanta rapidità della lettera di Cesare. Allo stesso modo, se ce ne sarà necessità, mi farai sapere se sa-rannoaccadute delle novità. Stai bene, addio.2 giugno. |
Quapropter, Quirites, exspectate legatorum reditum et paucorum dierum molestiam devorate. Qui cum redierint, si pacem adferent, cupidum me, si bellum, providum iudicatote. An ego non provideam meis civibus, non dies noctesque de vestra libertate, de rei publicae salute cogitem? Quid enim non debeo vobis, Quirites, quem vos a se ortum hominibus nobilissimis omnibus honoribus praetulistis? An ingratus sum? Quis minus? qui partis honoribus eosdem in foro gessi labores quos petendis.Rudis in re publica? Quis exercitatior? qui viginti iam annos bellum geram cum impiis civibus. | Perciò, Quiriti, aspettate il ritorno dei delegati e sopportate la molestia di pochi giorni. E quando quelli saranno tornati, se porteranno la pace, mi giudicherete un fanatico, se (porteranno) la guerra, un previdente. Forse che io non provveda ai miei cittadini, non pensi giorno e notte alla vostra libertà, alla salvezza dello stato? Che cosa, infatti, non devo a voi, Quiriti, che avete preferito uno che si è fatto da solo (lett: un sorto da sé) con tutte le cariche a uomini molto nobili? Forse che io sia un ingrato? Chi di meno? (Io) che con gli onori dell'incarico ho portato nel foro le stesse fatiche che erano da chiedere. Inesperto in politica? Chi più esercitato? (Io) che già da vent'anni faccio guerra ai cittadini empi. |
Nam quanti verba illa: "uti ne propter te fidemve tuam captus fraudatusve sim!" quam illa aurea: "ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione!" Sed, qui sint "boni" et quid sit "bene agi," magna quaestio est. Q. quidem Scaevola, pontifex maximus, summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in quibus adderetur "ex fide bona", fideique bonae nomen existimabat manare latissime, idque versari in tutelis, societatibus, fiduciis, mandatis, rebus emptis, venditis, conductis, locatis, quibus vitae societas contineretur; in iis magni esse iudicis statuere, praesertim cum in plerisque essent iudicia contraria, quid quemque cuique praestare oporteret. | Quanto valgono quelle parole "che io non sia preso e ingannato per causa tua e della fiducia in te riposta"! Quanto quell'aureo detto "come tra persone dabbene conviene agire bene e senza inganno"! Ma è grossa questione definire quali siano i buoni e che cosa significhi agire bene. Quinto Scevola, pontefice massimo, diceva che hanno grandissima importanza tutti quei giudizi arbitrali, in cui s'aggiunge la clausola "in buona coscienza", e credeva che il significato della 'buona coscienza' avesse una grandissima estensione, e riguardasse le tutele, le associazioni, le procure, i mandati, le compravendita, gli appalti, le locazioni, in cui consiste la vita sociale. In essi riteneva che fosse compito di un giudice valente stabilire di che cosa ciascuno deve rispondere verso ciascuno, specialmente perché in parecchi casi vi sono delle controquerele. |
Sed quoniam, ut praeclare scriptum est a Platone, non nobis solum nati sumus ortusque nostri partem patria vindicat, partem amici, atque, ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societatem. | Ma poiché, come ha scritto splendidamente Platone, noi non siamo nati soltanto per noi, ma una parte della nostra esistenza la rivendica per sé la patria, e un'altra gli amici; e poiché ancora, come vogliono gli Stoici, tutto ciò che la terra produce è a vantaggio degli uomini, e gli uomini furono generati per il bene degli uomini, affinché possano giovarsi l'un l'altro a vicenda; per queste ragioni, dunque, noi dobbiamo seguire come guida la natura, mettendo in comune le cose di utilità comune, e stringendo sempre più i vincoli della società umana con lo scambio dei servigi, cioè col dare e col ricevere, con le arti, con l'attività, con i mezzi. |
Primum mihi gratiae verbis amplissimis aguntur, quod virtute, consilio, providentia mea res publica maximis periculis sit liberata. Deinde L. Flaccus et C. Pomptinus praetores, quod eorum opera forti fidelique usus essem, merito ac iure laudantur. | Per prima cosa, mi vengono rivolti i più vivi ringraziamenti perché con coraggio, intelligenza e lungimiranza ho liberato lo Stato da pericoli gravissimi. Ricevono meritate lodi anche i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino per aver collaborato alla mia azione con forza e lealtà. |
Quid de auguribus loquar? Tuae partes sunt, tuum, inquam, auspiciorum atrocinium debet esse. Tibi App. Claudius augur consuli nuntiavit addubitato salutis augurio bellum domesticum triste ac turbulentum fore; quod paucis post mensibus exortum paucioribus a te est diebus oppressum. Cui quidem auguri vehementer adsentior; solus enim multorum annorum memoria non decantandi augurii, sed divinandi tenuit disciplinam. Quem inridebant collegae tui eumque tum Pisidam, tum Soranum augurem esse dicebant; quibus nulla videbatur in auguriis aut praesensio aut scientia veritatis futurae; sapienter aiebant ad opinione imperitorum esse fictas religiones.Quod longe secus est neque enim in pastoribus illis, quibus Romulus praefuit, ne in ipso Romulo haec calliditas esse potuit, ut ad errorem multitudinis religionis simulacra fingerent. Sed difficultas laborque discendi disertare neglegentiam reddidit; malunt enim disserere nihil esse in auspiciis quam, quid sit, ediscere. Quid est illo auspicio divinius, quod apud te in Mario est? ut utar potissumum auctore te:"Hic Iovis altisoni subito pinnata satellesarboris e trunco, serpentis saucia morsu,subrigit ipsa, feris transfigens unguibus anguemsemianimum et varia graviter cervice micantem.Quem se intorquentem lanians rostroque cruentansiam satiata animos, iam duros ulta doloresabicit ecflantem et laceratum adfligit in undaseque obitu a solis nitidos convertit ad ortus.Hanc ubi praepetibus pinnis lapsuque volantemconspexit Marius, divini numinis augur,faustaque signa suae laudis reditusque notavit,partibus intonuit caeli pater ipse sinistris.Sic aquilae clarum firmavit Iuppiter omen." | E degli àuguri, che dire? È materia di tua pertinenza; a te, dico, deve spettare la difesa degli auspicii. Quando eri console, l'àugure Appio Claudio ti annunziò - avendo giudicato ambiguo l'"augurio della salvezza" - che vi sarebbe stata una guerra civile funesta e tempestosa. E pochi mesi dopo scoppiò, e tu la soffocasti in ancor più pochi giorni. Quell'àugure io lo stimo altamente, perché egli solo, dopo molti anni, non si limitò a ripetere le solite formule augurali, ma mantenne in vita l'arte della divinazione. I tuoi colleghi lo deridevano, lo chiamavano àugure di Pisidia o di Sora: essi credevano che negli augurii non vi fosse nessun presentimento, nessuna conoscenza della realtà futura; erano stati accorti, dicevano, quelli che avevano inventato le credenze religiose per darle a intendere agli ignoranti! Ma la realtà è ben diversa: né quei pastori di cui Romolo fu il re, né Romolo in persona poterono essere tanto smaliziati da inventare delle parvenze di religione per trarre in errore la moltitudine. Ma la difficoltà e la fatica d'imparare hanno reso eloquenti i fannulloni: meglio fare forbiti discorsi sul valore nullo degli auspicii, che apprenderne con cura l'essenza. Che c'è di più profetico di quell'auspicio che si legge nel tuo Mario? Della tua testimonianza mi piace servirmi più che di ogni altra:"Allora, d'improvviso, l'alata ministra di Gìove altitonante, ferita dal morso del serpente, lo strappa a sua volta dal tronco dell'albero, trafiggendo con gli artigli spietati il rettile semivivo, guizzante a gran forza col collo variegato. Essa dilania e insanguina col becco il serpente che si divincola; poi, ormai saziata l'ira, ormai vendicato l'aspro dolore, lo lascia cader giù spirante, lo fa precipitare nelle onde già ridotto a brani; ed essa si rivolge dal lato dove il sole tramonta verso il lato donde sorge splendente. Appena Mario, àugure della volontà divina, ebbe visto l'aquila che volava scorrendo per il cielo con le ali veloci, ed ebbe inteso il fausto presagio della propria gloria e del proprio ritorno, ecco che il Padre stesso degli dèi tuonò dalla parte sinistra del cielo. Così Giove confermò lo splendido presagio dell'aquila." |
Cum venissem Athenas, sex menses cum Antiocho veteris Academiae nobilissumo et prudentissumo philosopho fui studiumque philosophiae numquam intermissum a primaque adulescentia cultum et semper auctum hoc rursus summo auctore et doctore renovavi. eodem tamen tempore Athenis apud Demetrium Syrum veterem et non ignobilem dicendi magistrum studiose exerceri solebam. post a me Asia tota peragrata est cum summis quidem oratoribus, quibuscum exercebar ipsis lubentibus; quorum erat princeps Menippus Stratonicensis meo iudicio tota Asia illis temporibus disertissimus; et, si nihil habere molestiarum nec ineptia rum Atticorum est, hic orator in illis numerari recte potest. | Giunto ad Atene, passai sei mesi con Antioco, filosofo dell'accademia antica, molto celebre e dalla competenza vastissima; dietro sollecitazione di quest'uomo insigne, e sotto la sua guida, ripresi gli studi filosofici, che non avevo mai lasciato: li coltivavo e li incrementavo fino dalla mia prima giovinezza. Ad Atene, contemporaneamente, ero tuttavia solito esercitarmi con impegno alla scuola di Demetrio Siro," un vecchio maestro di eloquenza tutt'altro che spregevole. In seguito viaggiai per tutta l'Asia, accompagnato" dai più grandi oratori, i quali si mostravano compiaciuti di dirigere i miei esercizi; il più notevole era Menippo di Stratonicea," allora, a mio avviso, l'uomo più eloquente di tutta l'Asia; e, se è peculiarità degli attici di non aver niente di fastidiosamente pedantesco né di goffo," quest'oratore può a buon diritto venire annoverato tra loro. |
Marcus:Ad nostras igitur revertor. Quibus profecto diligentissime sanciendum est, ut mulierum famam multorum oculis lux clara custodiat, initienturque eo ritu Cereri quo Romae initiantur. Quo in genere severitatem maiorum senatus vetus auctoritas de Bacchanalibus et consulum exercitu adhibito quaestio animadversioque declarat. Atque omnia nocturna - ne nos duriores forte videamur - in media Graecia Pagondas Thebanus lege perpetua sustulit. Novos vero deos et in his colendis nocturnas pervigilationes sic Aristophanes facetissumus poeta veteris comoediae vexat, ut apud eum Sabatius et quidam alii dei peregrini iudicati e civitate eiciantur.Publicus autem sacerdos inprudentiam consilio expiatam metu liberet, audaciam <libid>ines inmittendi religionibus foedas damnet atque inpiam iudicet. | Marco:Allora ritorno alle nostre leggi; e queste certamente dovranno sancire con la massima cautela che una chiara luce custodisca con gli occhi di molti la reputazione delle donne e che esse vengano iniziate a Cerere con quel rito con cui vengono iniziate in Roma. Intorno a quest'argomento l'antica legislazione del senato sui Baccanali ed il processo e la punizione messa in atto anche con l'impiego dell'esercito consolare, testimoniano la severità dei nostri antenati. Proprio nel centro della Grecia, - tanto per non dare l'impressione che noi siamo troppo intransigenti -, il tebano Pagonda soppresse tutte le cerimonie notturne con una legge irrevocabile. Aristofane, il più brillante poeta della commedia antica, sferza tanto le nuove divinità e le prolungate veglie notturne usate nei loro culti, da rappresentarci nella sua opera Sabazio e altre divinità forestiere cacciate dalla città. Un pubblico sacerdote poi deve liberare da ogni timore la colpa involontaria espiata deliberatamente, deve invece condannare e giudicare empia la sfrontatezza nelle [cerimonie] e nell'introdurre riti sconci. |
Avaritia vero senilis quid sibi velit, non intellego; potest enim quicquam esse absurdius quam, quo viae minus restet, eo plus viatici quaerere? Quarta restat causa, quae maxime angere atque sollicitam habere nostram aetatem videtur, adpropinquatio mortis, quae certe a senectute non potest esse longe. O miserum senem qui mortem contemnendam esse in tam longa aetate non viderit! quae aut plane neglegenda est, si omnino exstinguit animum, aut etiam optanda, si aliquo eum deducit, ubi sit futurus aeternus; atqui tertium certe nihil inveniri potest. | Quanto all'avarizia senile non capisco a cosa miri: ci può essere comportamento più assurdo che voler aumentare le provviste da viaggio quando si è quasi arrivati? Rimane il quarto motivo che, più degli altri, sembra angosciare e tenere in affanno la nostra età: l'avvicinarsi della morte, che certamente non è lontana dalla vecchiaia. Infelice il vecchio che, in un'esistenza tanto lunga, non è riuscito a capire che la morte va disprezzata! Bisogna tenerla in nessun conto, se porta all'annientamento dell'anima, o addirittura desiderarla, se conduce l'anima in un luogo di vita eterna. È proprio impossibile trovare una terza possibilità. |
Officium autem, quod ab eo ducitur, hanc primum habet viam, quae deducit ad convenientiam conservationemque naturae; quam si sequemur ducem, nunquam aberrabimus sequemurque et id, quod acutum et perspicax natura est, et id, quod ad hominum consociationem accommodatum, et id, quod vehemens atque forte. Sed maxima vis decori in hac inest parte, de qua disputamus; neque enim solum corporis, qui ad naturam apti sunt, sed multo etiam magis animi motus probandi, qui item ad naturam accommodati sunt. | Ora la prima strada che si presenta al dovere derivante dal decoro, è quella che conduce a una piena e stabile armonia con le leggi della natura: poiché, se prenderemo la natura per guida, noi non ci allontaneremo mai dalla retta via e conseguiremo quelle tre virtù che abbiamo già esaminate: la naturale perspicacia ed acutezza della mente, una condotta adeguata alla convivenza civile, la forza e il vigore del carattere. Ma la maggior forza del decoro risiede in questa parte della quale discutiamo, cioè nella temperanza. Perché, se sono da lodare i movimenti del corpo, quando sono conformi a natura, tanto più sono da lodare quelli dell'animo, quando egualmente si accordano con la natura. |
Quintus:At mehercule ego arbitrabar posse id populo nostro probari, si te ad ius respondendum dedisses; quam ob rem, cum placebit, experiendum tibi id censeo.Marcus:Si quidem, Quinte, nullum esset in experiundo periculum. Sed vereor ne, dum minuere velim laborem, augeam, atque ad illam causarum operam, ad quam ego numquam nisi paratus et meditatus accedo, adiungatur haec iuris interpretatio, quae non tam mihi molesta sit propter laborem, quam quod dicendi cogitationem auferat, sine qua ad nullam maiorem umquam causam sum ausus accedere. | Quinto:Per Ercole, io pensavo che potessi riscuotere l'approvazione del nostro popolo se ti dedicassi alla consulenza legale. Ritengo quindi che dovresti metterti alla prova, quando ne avrai voglia.Marco:Certamente, Quinto, se nel farne la prova non vi fossero inconvenienti; ma temo che, mentre vorrei diminuire i miei impegni, al contrario li aumenterei, e a quella trattazione delle cause, alla quale io non mi accingo mai se non dopo una attenta preparazione e meditazione, si aggiungerebbe questa interpretazione della legge, che non mi riuscirebbe tanto molesta per la fatica, quanto perché mi impedirebbe di pensare alle arringhe da pronunziare; non ho mai avuto la presunzione di presentarmi ad un processo di una certa importanza senza questa preparazione. |
Duo tamen tempora inciderunt, quibus aliquid contra Caesarem Pompeio suaserim. Ea velim reprehendas, si potes, unum, ne quinquennii imperium Caesari prorogaret, alterum, ne pateretur ferri, ut absentis eius ratio haberetur. Quorum si utrumvis persuasissem, in has miserias numquam incidissemus. Atque idem ego, cum iam opes omnis et suas et populi Romani Pompeius ad Caesarem detulisset seroque ea sentire coepisset, quae multo ante provideram, inferrique patriae bellum viderem nefarium, pacis, concordiae, compositionis auctor esse non destiti, meaque illa vox est nota multis: "Utinam, Pompei, cum Caesare societatem aut numquam coisses aut numquam diremisses! Fuit alterum gravitatis, alterum prudentiae tuae".Haec mea, M. Antoni, semper et de Pompeio et de re publica consilia fuerunt. Quae si valuissent, res publica staret, tu tuis flagitiis, egestate, infamia concidisses. | Tuttavia si presentavano due momenti nei quali avrei potuto in un certo senso persuadere Pompeo a porsi contro Cesare, vorrei che gli rispondessi se puoi: uno per non paragonare di un quinquennio a Cesare il suo comando, l'altro di non consentire che si presentasse la legge per decidere della sua assenza.Se fossi riuscito a persuadere entrambi, non saremmo mai caduti in queste miserie. Ed io, avendo ormai Pompeo concesso a Cesare tutti i mezzi suoi e del popolo romano ed essendosi ormai accorto tardi di quelle cose che io avevo visto molto prima, considererei sleale far guerra alla patria e non ho cessato di essere sostenitore della pace della concordia e della composizione dell'affare ed è nota a molti quella mia frase: "Oh Pompeo, se tu non avessi mai stretto un patto con Cesare o non l'avessi mai rotto! Una cosa sarebbe stata propria della tua dignità, l'altra della tua prudenza". Queste, Marco Antonio, sono sempre state le mie intenzioni sia su Pompeo che sullo Stato. E se avessero prevalso, lo Stato sarebbe saldo, (e) tu saresti perito per i tuoi crimini, per la tua povertà, per la tua infamia. |
Quid tandem te impedit? mosne maiorum? At persaepe etiam privati in hac re publica perniciosos cives morte multarunt. An leges, quae de civium Romanorum supplicio rogatae sunt? At numquam in hac urbe, qui a re publica defecerunt, civium iura tenuerunt. An invidiam posteritatis times? Praeclaram vero populo Romano refers gratiam, qui te, hominem per te cognitum nulla commendatione maiorum tam mature ad summum imperium per omnis honorum gradus extulit, si propter invidiam aut alicuius periculi metum salutem civium tuorum neglegis. | Che cosa te lo impedisce? La tradizione degli avi? Eppure più volte, in questo Stato, sono stati condannati a morte dei cittadini pericolosi senza mandato pubblico. O te lo impediscono le leggi sull'esecuzione capitale dei cittadini romani? Eppure, a Roma, i ribelli non hanno mai conservato i diritti civili! O temi la disapprovazione dei posteri? Dimostri davvero profonda riconoscenza verso il popolo romano - che, magistratura dopo magistratura, ben presto ha elevato al consolato te, un uomo che si distingueva solo per i suoi meriti, ma era privo della garanzia di una famiglia nobile - se per paura di diventare impopolare o di correre dei rischi trascuri la salvezza dei tuoi concittadini. |
Marcus:Deinceps igitur omnibus magistratibus auspicia et iudicia dantur: iudicia <ita> ut esset populi potestas ad quam provocaretur, auspicia ut multos inutiles comitiatus probabiles inpedirent morae. Saepe enim populi impetum iniustum auspiciis di immortales represserunt. Ex iis autem qui magistratum ceperunt quod senatus efficitur, populare <est> sane neminem in summum locum nisi per populum venire, sublata cooptatione censoria. Sed praesto est huius viti temperatio, quod senatus lege nostra confirmatur auctoritas. | Marco:In seguito si attribuisce a tutti i magistrati la facoltà di trarre auspici e di giudicare: i giudizi, affinchè vi fosse un'autorità popolare alla quale appellarsi, gli auspici, affinchè ragionevoli dilazioni impedissero molti comizi inutili; infatti non di rado gli dèi immortali repressero con gli auspici la foga ingiustificata del popolo. Tra quelli vi furono coloro i quali tennero la magistratura, e questi sono i soggetti che compongono il senato; sarebbe gradito al popolo che nessuno pervenisse alla massima carica se non per elezione popolare, una volta eliminata l'integrazione del senato per opera dei censori. Ma si trova a portata di mano uno strumento che attenua questo difetto, per il fatto che l'autorità del senato viene rafforzata dalla nostra legge. |
Cn. autem Lentulus multo maiorem opinionem dicendi actione faciebat quam quanta in eo facultas erat; qui cum esset nec peracutus, quamquam et ex facie et ex voltu videbatur, nec abundans verbis, etsi fallebat in eo ipso, sic intervallis, exclamationib us, voce suavi et canora, admirando inridebat, calebat in agendo, ut ea quae derant non desiderarentur. ita tamquam Curio copia nonnulla verborum, nullo alio bono, tenuit oratorum locum. | Gneo Lentulo grazie alla sua azione oratoria si procurava una reputazione di eloquenza molto superiore alle sue capacità. Non aveva particolare sagacia - sebbene lo facessero credere la fisionomia e l'espressione del suo volto -, né un'elocuzione abbondante - per quanto anche in questo riuscisse a ingannare; ma con le pause, le esclamazioni, con una voce gradevole e armoniosa, aveva tanto calore nell'azione, da non far sentire la mancanza delle qualità che non possedeva. Pertanto, come Curione tenne un posto tra gli oratori solo per una certa ricchezza di elocuzione, e per nessun altro pregio. |
Erant autem et verborum et sententiarum illa lumina, quae vocant Graeci schemata, quibus tamquam insignibus in ornatu distinguebatur omnis oratio. 'qua de re agitur' autem illud, quod multis locis in iuris consultorum includitur formulis, id ubi esset videbat. | C'erano poi quegli ornamenti che danno lustro alle parole e ai pensieri, che i greci chiamano schérnata: il discorso ne era tutto punteggiato, come avviene quando delle decorazioni spiccano in un addobbo. "Il punto in questione" - quest'espressione che ritorna tante volte nelle formule dei giureconsulti - sapeva poi bene individuarlo. |
Nam sive oblectatio quaeritur animi requiesque curarum, quae conferri cum eorum studiis potest, qui semper aliquid anquirunt, quod spectet et valeat ad bene beateque vivendum? Sive ratio constantiae virtutisque ducitur, aut haec ars est aut nulla omnino, per quam eas assequamur. Nullam dicere maximarum rerum artem esse, cum minimarum sine arte nulla sit, hominum est parum considerate loquentium atque in maximis rebus errantium. Si autem est aliqua disciplina virtutis, ubi ea quaeretur, cum ab hoc discendi genere discesseris.Sed haec cum ad philosophiam cohortamur, accuratius disputari solent, quod alio quodam libro fecimus. Hoc autem tempore tantum nobis declarandum fuit, cur orbati rei publicae muneribus, ad hoc nos studium potissimum contulissemus. | E se si ricerca il diletto dell'animo e la tranquillità degli affanni, quale diletto e qua le tranquillità si possono paragonare con la costante applicazione di coloro che ricercano sempre qualche cosa che riguardi e valga per vivere bene e felicemente? Se si ricerca la norma della coerenza e della virtù, o è questa l'arte filosofica per mezzo della quale poterle perseguire o non ve ne è affatto alcuna. Il sostenere che non esista alcuna scienza dei massimi problemi, mentre dei minimi non ve ne è alcuno senza la sua specifica regola, è considerazione degna di uomini che parlano senza riflettere e che sbagliano proprio sui massimi problemi. Se esiste una disciplina della virtù, dove la ricercheremmo, qualora ci allontanassimo da questo genere di studi? Ma queste tesi di solito sono più accuratamente dibattute, quando esortiamo alla filosofia; ciò che abbiamo fatto in un altro libro. Ma a questo punto volevo soltanto dichiarare, perché privato delle cariche dello Stato mi fossi rivolto soprattutto a questo studio. |