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Quare secedant inprobi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, [id] quod saepe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suae consuli, circumstare tribunal praetoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque, quid de re publica sentiat. Polliceor hoc vobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in vobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis virtutem, tantam in omnibus bonis consensionem, ut Catilinae profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, vindicata esse videatis. | Perciò se ne vadano i colpevoli! Si separino dagli onesti! Si raccolgano in uno stesso luogo! Un muro, infine, li divida da noi, come ho detto più volte! Smettano di attentare alla vita del console nella sua casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare, armi un pugno, la Curia, di preparare proiettili e torce per incendiare la città! Insomma, ciascuno porti scritta in fronte la sua opinione politica! Questo vi prometto, padri coscritti: ci sarà tanto impegno in noi consoli, tanta autorità in voi senatori, tanto valore nei cavalieri, tanta unanimità in tutti i cittadini onesti che, con la partenza di Catilina, vedrete ogni cosa svelata, messa in luce, repressa, punita. |
Sed illud odiosum est, quod in hac elatione et magnitudine animi facillime pertinacia et nimia cupiditas principatus innascitur. Ut enim apud Platonem est, omnem morem Lacedaemoniorum inflammatum esse cupiditate vincendi, sic, ut quisque animi magnitudine maxime excellet, ita maxime vult princeps omnium vel potius solus esse. Difficile autem est, cum praestare omnibus concupieris, servare aequitatem, quae est iustitiae maxime propria. Ex quo fit ut neque disceptatione vinci se nec ullo publico ac legitimo iure patiantur, existuntque in re publica plerumque largitores et factiosi, ut opes quam maximas consequantur et sint vi potius superiores quam iustitia pares.Sed quo difficilius, hoc praeclarius; nullum enim est tempus, quod iustitia vacare debeat. | Ma è ben penoso vedere come in seno a questa elevatezza e grandezza d'animo nasca assai facilmente l'ostinazione e un'eccessiva bramosia di primato. A quel modo che, come scrive Platone, lo spirito pubblico degli Spartani non ardeva che d'amor di vittoria, così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più agogna d'essere il primo, o piuttosto il solo fra tutti. D'altra parte, quando si è posseduti dal desiderio di essere superiore a tutti, è ben difficile mantenere l'equità, che è il principale attributo della giustizia. Onde avviene che gli ambiziosi non si lasciano vincere, né da buone ragioni, né da alcuna autorità di diritto e di leggi; ed ecco emergere per lo più nella vita pubblica corruttori e partigiani, che altro non vogliono se non acquistare quanta più potere è possibile, ed essere superiori nella forza piuttosto che pari nella giustizia. Ma quanto più è difficile, tanto più è bella la moderazione: non c'è momento della vita che possa sottrarsi all'imperativo della giustizia. |
"Arcem tu quidem Stoicorum," inquam, "Quinte, defendis, siquidem ista sic reciprocantur, ut et, si divinatio sit, di sint et, si di sint, sit divinatio. Quorum neutrum tam facile quam tu arbitraria conceditur. Nam et natura significari futura sine deo possunt et, ut sint di, potest fieri ut nulla ab iis divinatio generi humano tributa sit." Atque ille: "Mihi vero," inquit, "satis est argomenti et esse deos et eos consulere rebus humanis, quod esse clara et perspicua divinationis genera iudico.De quibus quid ipse sentiam, si placet, exponam, ita tamen, si vacas animo neque habes aliquid quod huic sermoni praevertendum putes." "Ego vero," inquam, "philosophiae, Quinte, semper vaco; hoc autem tempore, cum sit nihil aliud quod lubenter agere possim, multo magis aveo audire de divinatione quid sentias." "Nihil," inquit, "equidem novi, nec quod praeter ceteros ipse sentiam; nam cum antiquissimam sententiam, tum omnium populorum et gentium consensu comprobatam sequor. Duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum naturae. Quae est autem gens aut quae civitas, quae non aut extispicum aut monstra aut fulgora interpretantium aut augurum aut astrologorum aut sortium (ea enim fere artis sunt) aut somniorum aut vatìcinationum (haec enim duo naturale putantur) praedictione moveatur? Quarum quidem rerum eventa magis arbitror quam causas quaeri oportere. Est enim vis et natura quaedam, quae tum observatis longo tempore significationibus, tum aliquo instinctu inflatuque divino futura praenuntiat. | "Tu difendi la roccaforte degli stoici, Quinto," io risposi, "se davvero c'è reciproca implicazione tra questi due enunciati: se c'è la divinazione, ci sono gli dèi, e se gli dèi ci sono, c'è la divinazione. Ma né l'uno né l'altro enunciato vien dato per vero con tanta facilità quanto tu credi. Da un lato, il futuro può essere indicato da eventi naturali, senza l'intervento della divinità; dall'altro, anche ammesso che gli dèi esistano, può darsi che essi non abbiano concesso al genere umano alcuna capacità di divinazione. " E Quinto: "Ma per me il fatto stesso che vi siano, a mio giudizio, generi di divinazione chiari ed evidenti costituisce una prova sufficiente dell'esistenza degli dèi e della loro provvidenza nei riguardi delle cose umane. Ti esporrò volentieri il mio parere su tutto ciò, a patto che tu sia libero da altre occupazioni e non abbia qualcosa da anteporre a questa nostra conversazione." "Per la filosofia," risposi, "io ho sempre l'animo disposto, caro Quinto; e poiché adesso non ho nient'altro a cui possa dedicarmi volentieri, tanto più son desideroso di sentire il tuo parere sulla divinazione." "Non dirò nulla di nuovo," incominciò Quinto, "né opinioni mie divergenti da quelle altrui: io seguo una dottrina antichissima e, per di più, confermata dal consenso di tutti i popoli e di tutte le genti. Due sono i generi di divinazione, l'uno che riguarda l'arte, l'altro la natura. Quale popolo c'è, d'altronde, o quale città, che non rimanga impressionata dalla predizione degli indagatori delle viscere di animali o degli interpreti dei prodìgi e dei lampi o degli àuguri o degli astrologi o di coloro che estraggono le "sorti" (questi che ho enumerato si riferiscono all'arte), ovvero dai presagi dei sogni e delle grida profetiche (questi due si considerano naturali)? Di tutto ciò io credo che vadano indagati i risultati piuttosto che le cause. C'è, difatti, una dote naturale che, o dopo lunga osservazione degl'indizi profetici, o per qualche istinto e ispirazione di origine divina, preannuncia il futuro. |
Iam ex insanorum aut ebriorum visis innumerabilia coniectura trahi possunt, quae futura videantur. Quis est enim, qui totum diem iaculans non aliquando conliniet? Totas noctes somniamus, neque ulla est fere, qua non dormiamus; et miramur aliquando id quod somniarimus evadere? Quid est tam incertum quam talorum iactus? Tamen nemo est quin saepe iactans Venerium iaciat aliquando, non numquam etiam iterum ac tertium. Num igitur, ut inepti, Veneris id impulsu fieri malumus quam casu dicere? Quodsi ceteris temporibus falsis visis credendum non est, non video, quid praecipui somnus habeat, in quo valeant falsa pro veris.Quodsi ita natura paratum esset ut ea dormientes agerent quae somniarent, adligandi omnes essent, qui cubitum irent; maiores enim quam ulli insani efficerent motus somniantes. Quodsi insanorum visis fides non est habenda, quia falsa sunt, cur credatur somniantium visis, quae multo etiam perturbatiora sunt, non intellego; an quod insani sua visa coniectori non narrant, narrant qui somniaverunt?Quaero etiam, si velim scribere quid aut legere aut canere vel voce vel fidibus aut geometricum quiddam aut physicum aut dialecticum esplicare, somniumne exspectandum sit, an ars adhibenda, sine qua nihil earum rerum nec fieri nec expediri potest. Atqui, ne si navigare quidem velim, ita gubernem, ut somniaverim; praesens enim poena sit. Qui igitur convenit aegros a coniectore somniorum potius quam a medico petere medicinam? An Aesculapius, an Serapis potest nobis praescribere per somnum curationem valetudinis, Neptunus gubernantibus non potest? Et si sine medico medicinam dabit Minerva, Musae scribendi, legendi,ceterarum artium scientiam somniantibus non dabunt? At si curatio daretur valetudinis, haec quoque quae dixi darentur; quae quoniam non dantur, medicina non datur; qua sublata tollitur omnis auctoritas somniorum. | E ancora, dalle visioni dei pazzi o degli ubriachi si potrebbero, con l'arte congetturale, dedurre innumerevoli cose che dovrebbero accadere in futuro. Chi, in effetti, tirando l'arco per una giornata intera, non finirà col far centro una buona volta? Noi sogniamo per notti intere, e non c'è quasi nessuna notte nella quale non dormiamo; e ci meravigliamo che una volta o l'altra ciò che abbiamo sognato si avveri? Che c'è di tanto incerto quanto un colpo di dadi? Eppure non c'è nessuno che, lanciandoli più volte, ottenga una volta il "colpo di Venere", talora anche due, anche tre volte. Diremo allora, come gli sciocchi, che ciò avviene per un intervento di Venere, non per caso? E se nelle altre ore del giorno non bisogna credere alle visioni false, non vedo quale condizione privilegiata abbia il sonno, tale che in esso le cose valgano per vere. E se la natura avesse predisposto le cose in modo che i dormienti dovessero fare ciò che sognano, bisognerebbe legare tutti quelli che vanno a dormire: ché durante il sogno si abbandonerebbero ad atti più inconsulti di quelli di qualsiasi pazzo. Se, d'altra parte, non dobbiamo prestar fede alle visioni dei pazzi perché sono false, non capisco perché si creda alle visioni di quelli che sognano, le quali sono molto più confuse; forse perché i pazzi non narrano le loro visioni all'interprete, mentre le narrano quelli che han fatto un sogno?Domando anche: se io voglio scrivere o leggere qualcosa, o cantare o sonare la cetra, o risolvere un problema di geometria, di fisica, di dialettica, dovrò aspettare l'ispirazione dàtami da un sogno, o sarà meglio che usi le mie cognizioni, senza le quali non si può fare né portare a soluzione nessuna di quelle attività? E ancora: nemmeno se volessi navigare, reggerei il timone basandomi su precetti ricevuti in sogno; ché ne pagherei sùbito un duro prezzo! Come, dunque, è plausibile che gli ammalati chiedano la cura all'interprete di sogni anziché al medico? Forse Esculapio, forse Serapide ci può prescrivere durante il sonno la cura per recuperare la salute, e invece Nettuno non può dare egli stesso i precetti ai naviganti? E se Minerva prescriverà la medicina senza bisogno del medico, le Muse non daranno in sogno la capacità di scrivere, di leggere, di esercitare tutte le altre arti? Ma se ci venisse concessa in questo modo la facoltà di curarci la salute, ci verrebbero concesse anche le altre doti a cui ho accennato; e siccome quelle non ci sono concesse, non ci è concessa l'arte medica; esclusa la quale, risulta confutata ogni autorità dei sogni. |
Quid? Lituus iste vester, quod clarissumum est insigne auguratus, unde vobis est traditus? Nempe eo Romulus regiones direxìt tum, cum urbem condidit. Qui quidem Romuli lituus, id est incurvum et leviter a summo inflexu bacillum, quod ab eius litui, quo canitur, similitudine nomen invenit, cum situs esset in curia Saliorum, quae est in Palatio eaque defiagravisset, inventus est integer. Quid? Multis annis post Romulum, Prisco regnante Tarquinio, quis veterum scriptorum non loquitur quae sit ab Atto Navio per lituum regionum facta discriptio? Qui cum propter paupertatem sues puer pasceret, una ex iis amissa, vovisse dicitur, si recuperasset, uvam se deo daturum, quae maxima esset in vinea; itaque, sue inventa, ad meridiem spectans in vinea media dicitur constitisse, cumque in quattuor partis vineam divisisset trisque partis aves abdixissent, quarta parte, quae erat reliqua, in regiones distributa, mirabili magnitudine uvam, ut scriptum videmus, invenit.Qua re celebrata, cum vicini omnes ad eum de rebus suis referrent, erat in magno nomine et gloria. Ex quo factum est, ut eum ad se rex Priscus arcesseret. Cuius cum temptaret scientiam auguratus, dixit ei cogitare se quiddam; id possetne fieri, consuluit. Ille augurio acto posse respondit. Tarquinius autem dixit se cogitasse cotem novacula posse praecidi; tum Attum iussisse experiri. Ita cotem in comitium allatam inspectante et rege et populo novacula esse discissam. Ex eo evenit ut et Tarquinius augure Atto Navio uteretur et populus de suis rebus ad eum referret. Cotem autem illam et novaculam defossam in comitio supraque impositum puteal accepimus. Negemus omnia, comburamus annales, fiera haec esse dicamus, quidvis denique potius quam deos res humanas curare fateamur; quid quod scriptum apud te est de Ti. Graccho, nonne et augurum et haruspicum comprobat disciplinam? Qui cum tabernaculum vitio cepisset inprudens, quod inauspicato pomerium transgressus esset, comitia consulibus rogandis habuit. Nota res est et a te ipso mandata monumentis. Sed et ipse augur Ti. Gracchus auspiciorum auctoritatem confessione errati sui comprobavit, et haruspicum disciplinae magna accessit auctoritas, qui recentibus comitiis in senatum introducti negaverunt iustum comitiorum rogatorem fuisse. | E quel vostro lituo, che è la più cospicua insegna degli àuguri, donde vi è stato tramandato? Fu con esso che Romolo tracciò le regioni del cielo quando fondò la città. Questo lituo di Romolo - cioè un bastoncino curvo e leggermente piegato nella parte superiore, che derivò questo suo nome dalla somiglianza col lituo, tromba di guerra - era conservato nella curia dei Salii, sul Palatino, e, quando essa fu distrutta dalle fiamme, fu ritrovato intatto. E ancora: c'è qualche scrittore antico che non racconti come, molti anni dopo Romolo, sotto il regno di Tarquinio Prisco, sia stata fatta da Atto Navio una ripartizione delle regioni celesti mediante il lituo? Costui era un povero ragazzo che menava al pascolo le scrofe. Si dice che, avendone perduta una, fece voto a un dio che, se l'avesse ritrovata, gli avrebbe offerto la più bella uva di una vigna che c'era lì. Trovata la scrofa, dicono, sostò in mezzo alla vigna, rivolto verso sud, e divise la vigna in quattro parti. Tre parti ricevettero dagli uccelli segni sfavorevoli; avendo allora distribuita in regioni la quarta parte restante, trovò (lo tramandano gli scrittori) dell'uva di meravigliosa grandezza. La cosa si seppe: tutto il vicinato si rivolgeva a lui per chieder consigli; aveva acquistato grande rinomanza e prestigio. Avvenne quindi che il re Tarquinio Prisco lo mandasse a chiamare. Desideroso di mettere alla prova le sue doti di àugure, il re gli disse che stava pensando a una cosa: gli chiese se questa cosa si poteva fare. Atto, dopo avere compiuto il rito augurale, gli rispose che era possibile. Tarquinio allora disse che aveva pensato alla possibilità di tagliare una cote con un rasoio, e ordinò ad Atto di provare a far ciò. Ed ecco che una pietra, portata nel comizio, alla presenza del re e del popolo fu spaccata con un rasoio. In seguito a ciò Tarquinio assunse Atto Navio come àugure, e il popolo andava a chiedergli consiglio per il da farsi. Quanto a quella pietra e al rasoio, furono deposti in una fossa scavata nel comizio, e tutt'intorno fu innalzato un parapetto: così si narra. Neghiamo pure tutto ciò, bruciamo gli annali, diciamo che son tutte finzioni, dichiariamo che tutto è possibile tranne che gli dèi si curino delle cose umane. Ma ciò che tu stesso hai scritto quanto a Tiberio Gracco non conferma la dottrina degli àuguri e degli arùspici? Egli per sbadataggine aveva posto la tenda augurale violando le leggi divine, perché aveva attraversato il pomerio senza prendere gli auspicii; e presiedette i comizi per eleggere i nuovi consoli. Che cosa accadde allora, è noto e tu stesso lo hai tramandato nella tua opera. Ma Tiberio Gracco, àugure egli stesso, avvalorò l'autorità degli auspicii confessando il proprio errore, e ne risultò molto accresciuto il prestigio della dottrina degli arùspici, i quali, fatti venire in senato poco dopo che si erano iniziati i comizi, dichiararono che colui che aveva presieduto i comizi non aveva agito secondo le regole. |
Atticus:Quin igitur ista ipsa explicas nobis his subsicivis, ut ais, temporibus, et conscribis de iure civili subtilius quam ceteri? Nam a primo tempore aetatis iuri studere te memini, quom ipse etiam ad Scaevolam ventitarem, neque umquam mihi visus es ita te ad dicendum dedisse, ut ius civile contemneres.Marcus:In longum sermonem me vocas, Attice, quem tamen, nisi Quintus aliud quid nos agere mavult, suscipiam, et, quoniam vacui sumus, dicam.Quintus:Ego vero libenter audierim.Quid enim agam potius, aut in quo melius hunc consumam diem? | Attico:E perché allora in questi ritagli di tempo non ci chiarisci tutto ciò, e non ti metti a scrivere di diritto civile con maggior profondità di quanto non abbiano fatto gli altri? Ricordo infatti che fin dalla prima giovinezza ti occupavi di diritto, quando anch'io frequentavo Scevola, né ho mai avuto l'impressione che tu ti fossi dato all'oratoria, al punto da disprezzare il diritto civile.Marco:Mi inviti ad un lungo discorso, Attico; ma tuttavia lo affronterò, a meno che Quinto non preferisca che trattiamo qualche altra questione; e, considerato che non abbiamo altro da fare, ne parlerò.Quinto:Io ti ascolterò ben volentieri; infatti che cosa potrei preferire di fare, o come potrei trascorrere meglio questa giornata? |
Minime vero assentior iis, qui negant eum locum a Panaetio praetermissum, sed consulto relictum, nec omnino scribendum fuisse, quia numquam posset utilitas cum honestate pugnare. De quo alterum potest habere dubitationem, adhibendumne fuerit hoc genus, quod in divisione Panaetii tertium est an plane omittendum, alterum dubitari non potest, quin a Panaetio susceptum sit, sed relictum. Nam qui e divisione tripertita duas partes absolverit, huic necesse est restare tertiam; praeterea in extremo libro tertio de hac parte pollicetur se deinceps esse dicturum. | In verità io non sono per niente d'accordo con quanti affermano che quel punto non sia stato trascurato da Panezio, ma piuttosto abbandonato di proposito, e che non lo si dovesse affatto svolgere, perché l'utile non può mai contrastare con l'onesto; intorno a ciò può sorgere il dubbio, se si dovesse accogliere la categoria, che nella divisione di Panezio occupa il terzo posto, o si dovesse omettere del tutto; ma non si può dubitare che la questione sia stata sollevata da Panezio, ma poi trascurata. |
Quartum genus est sane varium et mixtum et turbulentum; qui iam pridem premuntur, qui numquam emergunt, qui partim inertia, partim male gerendo negotio, partim etiam sumptibus in vetere aere alieno vacillant, qui vadimoniis, iudiciis, proscriptione bonorum defetigati permulti et ex urbe et ex agris se in illa castra conferre dicuntur. Hosce ego non tam milites acris quam infitiatores lentos esse arbitror. Qui homines quam primum, si stare non possunt, corruant sed ita, ut non modo civitas, sed ne vicini quidem proximi sentiant.Nam illud non intellego, quam ob rem, si vivere honeste non possunt, perire turpiter velint, aut cur minore dolore perituros se cum multis quam si soli pereant, arbitrentur. | La quarta categoria è davvero varia, composita e confusa, gente da tempo rovinata che non si risolleva mai, che sotto il peso di antichi debiti vacilla per inettitudine, per incapacità di gestire i propri interessi, anche per spreco. Si dice che, stanchi di citazioni, processi, confische, affluiscano in gran numero nell'accampamento di Catilina dalla città e dalla campagna. Più che soldati coraggiosi, li considero, per i loro debiti, delle nullità. Questi individui, se non sono in grado di reggersi con le proprie forze, cadano a terra quanto prima, ma senza recar il minimo disturbo alla cittadinanza e ai loro più stretti vicini! Non capisco perché, se non sono capaci di vivere con onestà, vogliano morire nella vergogna, né perché considerino meno doloroso morire in tanti piuttosto che da soli. |
Qui praestat igitur intellegens imperito? magna re et difficili; si quidem magnum est scire quibus rebus efficiatur amittaturve dicendo illud quicquid est, quod aut effici dicendo oportet aut amitti non oportet. praestat etiam illo doctus auditor indo cto, quod saepe, cum oratores duo aut plures populi iudicio probantur, quod dicendi genus optumum sit intellegit. nam illud quod populo non probatur, ne intellegenti quidem auditori probari potest. ut enim ex nervorum sono in fidibus quam scienter ei puls i sint intellegi solet, sic ex animorum motu cernitur quid tractandis his perficiat orator. | In che cosa dunque l'esperto è superiore al pro fano? In una cosa importante e difficile, se è vero che è importante sapere con quali mezzi si raggiunga o si perda, nel parlare, quell'effetto, qualunque esso sia, che nel parlare bisogna raggiungere o che non bisogna perdere. L'ascoltatore competente è superiore a quello incompetente anche per il fatto che spesso, quando due o più oratori incontrano l'approvazione del giudizio popolare, comprende quale sia il miglior genere di eloquenza. Difatti ciò che non incontra l'approvazione del popolo, non può incontrare neppure quella dell'ascoltatore competente. Come infatti dal suono delle corde della cetra si suole riconoscere con quanta abilità sono state toccate, così dai movimenti degli animi si vedono i risultati che l'oratore sa ottenere nel trattarli. |
itaque in Curione hoc verissime iudicari potest, nulla re una magis oratorem commendari quam verborum splendore et copia. nam cum tardus in cogitando tum in struendo dissipatus fuit. reliqua duo sunt, agere et meminisse: in utroque cacinnos inridentiu m commovebat. motus erat is, quem et C. Iulius in perpetuum notavit, cum ex eo in utramque partem toto corpore vacillante quaesivit, quis loqueretur e luntre; et Cn. Sicinius homo impurus sed admodum ridiculus—neque aliud in eo oratoris simile quicquam. | Pertanto, a proposito di Curione, si può affermare senza timore di sbagliare che nessuna qualità, da sola, contribuisce al successo dell'oratore più che il nitore e la ricchezza dello stile. Infatti nell'invenzione era lento, così come era sciatto nella progettazione. Restano la memoria e l'azione: in ambedue suscitava gli sghignazzi di dileggio dell'uditorio. Si muoveva in quel modo che venne bollato per sempre sia da Gaio Giulio, quando, mentre oscillava con tutto il corpo a destra e a sinistra, gli chiese chi era che parlava da una barca, sia da Gneo Sicinio, uomo spregevole, ma con una grande capacità di far ridere - e non aveva nient'altro che lo facesse assomigliare a un oratore. |
Haec si tecum, ita ut dixi, patria loquatur, nonne impetrare debeat, etiamsi vim adhibere non possit? Quid, quod tu te ipse in custodiam dedisti, quod vitandae suspicionis causa ad M'. Lepidum te habitare velle dixisti? A quo non receptus etiam ad me venire ausus es atque, ut domi meae te adservarem, rogasti. Cum a me quoque id responsum tulisses, me nullo modo posse isdem parietibus tuto esse tecum, qui magno in periculo essem, quod isdem moenibus contineremur, ad Q.Metellum praetorem venisti. A quo repudiatus ad sodalem tuum, virum optumum, M. Metellum, demigrasti; quem tu videlicet et ad custodiendum diligentissimum et ad suspicandum sagacissimum et ad vindicandum fortissimum fore putasti. Sed quam longe videtur a carcere atque a vinculis abesse debere, qui se ipse iam dignum custodia iudicarit! | Se la patria, come ho detto, ti parlasse così, non dovresti obbedirle anche se non potesse ricorrere alla forza. Cosa dici? Ti sei consegnato agli arresti domiciliari? Hai chiesto di andare ad abitare da Lepido per evitare i sospetti? Respinto da Lepido, hai osato venire addirittura da me e mi hai pregato di tenerti agli arresti in casa mia. Ma anche da me hai ricevuto la stessa risposta: non mi sarei sentito per nulla al sicuro a dividere con te le stesse pareti domestiche, quando già corriamo gravi pericoli dentro le mura della stessa città. Ti sei rivolto allora al pretore Quinto Metello. Rifiutato pure da lui, ti sei rivolto al tuo amico Marco Metello, un uomo davvero eccellente, che tu giudicavi, evidentemente, il più scrupoloso nel sorvegliarti, il più acuto nel sospettarti, il più severo nel punirti. Ma chi ritiene di dover meritare gli arresti, non sembra ben lontano dal dover essere condannato al carcere? |
Hanc autem, inquit, gloriam testimoniumque Caesaris tuae quidem supplicationi non, sed triumphis multorum antepono. Et recte quidem, inquam, Brute; modo sit hoc Caesaris iudici, non benevolentiae testimonium. plus enim certe adtulit huic populo dignitatis quisquis est ille, si modo est aliquis, qui non inlustravit modo sed etiam genuit in hac urbe dicendi copiam, quam illi qui Ligurum castella expugnaverunt: ex quibus multi sunt, ut scitis, triumphi. | Questa gloria" disse "e la testimonianza di Cesare io la antepongo non certo alla supplicazione in tuo onore, ma ai trionfi di tanti, sì". "Ed è giusto, Bruto;" dissi "purché questa sia una testimonianza del giudizio di Cesare, e non della sua benevolenza. Indubbiamente ha recato maggiore prestigio a questo nostro popolo colui - chiunque egli sia e ammesso pure che esista - il quale in questa città ha non solo reso illustre la ricchezza di eloquio, ma la ha anche procreata, che non quelli che hanno espugnato le cittadelle dei liguri; sulle quali, come sapete, sono stati riportati molti trionfi. |
Quodsi tanta potestas est stultorum sententiis atque iussis, ut eorum suffragiis rerum natura vertatur, cur non sanciunt ut quae mala perniciosaque sunt, habeantur pro bonis et salutaribus? Aut <cur> cum ius ex iniuria lex facere possit, bonum eadem facere non possit ex malo? Atqui nos legem bonam a mala nulla alia nisi natura<e> norma dividere possumus. Nec solum ius et <in>iuria natura diiudicatur, sed omnino omnia honesta et turpia. Nam, <ut> communis intellegentia nobis notas res eff<e>cit easque in animis nostris inchoavit, honesta in virtute ponuntur, in vitiis turpia. | Se tanto grande è il potere delle decisioni e degli ordini degli incompetenti, da sovvertire la natura stessa con i loro voti, perché non sanciscono che vengano ritenute per buone e salutari quelle cose che sono cattive e dannose? O perché, mentre la legge può trasformare in diritto l'ingiustizia, non potrebbe essa stessa trasformare il male in bene? Purtroppo noi non possiamo distinguere la legge buona dalla cattiva secondo nessuna altra norma se non quella di natura; e la natura non discrimina soltanto ciò che è giusto dall'ingiusto, ma in generale tutto quanto è onesto e disonesto. Dal momento infatti che la comune intelligenza umana ci ha fatto conoscere le cose e le ha abbozzate nel nostro animo, si annoverino tra le virtù le azioni oneste e tra i vizi le disoneste. |
Haec ego non dicerem, Tubero, si aut vos constantiae vestrae aut Caesarem benefici sui paeniteret. Nunc quaero utrum vestras iniurias an rei publicae persequamini? Si rei publicae, quid de vestra in illa causa perseverantia respondebitis? Si vestras, videte ne erretis qui Caesarem vestris inimicis iratum fore putetis, cum ignoverit suis. Itaque num tibi videor in causa Ligari esse occupatus, num de eius facto dicere? Quidquid dixi, ad unam summam referri volo vel humanitatis vel clementiae vel misericordiae tuae. | Non parlerei così, o Tuberone, se o voi vi pentiste della vostra coerenza o Cesare della sua generosità. Ora io chiedo se intendete vendicare le offese recate a voi o allo Stato. Se allo Stato, che giustificazione darete della vostra ostinata fedeltà a quella causa? Se a voi, fate attenzione di non sbagliare ritenendo Cesare adirato contro i vostri avversari, mentre egli ha perdonato ai suoi. Orbene, ti sembra, o Cesare, che io sia preoccupato della causa di Ligario e che io discuta della sua condotta? Quanto ho detto intendo che si riconduca ad un punto solo, alla tua umanità, alla tua clemenza, alla tua generosità. |
Erit autem haec formula Stoicorum rationi disciplinaeque maxime consentanea; quam quidem his libris propterea sequimur, quod, quamquam et a veteribus Academicis et a Peripateticis vestris, qui quondam idem erant, qui Academici, quae honesta sunt, anteponuntur iis, quae videntur utilia, tamen splendidius haec ab eis disserentur, quibus, quicquid honestum est idem utile videtur nec utile quicquam, quod non honestum, quam ab iis, quibus et honestum aliquid non utile aut utile non honestum.Nobis autem nostra Academia magnam licentiam dat, ut, quodcumque maxime probabile occurrat, id nostro iure liceat defendere. Sed redeo ad formulam. | Questa norma sarà pienamente conforme alle teorie della dottrina Stoica: e la seguiamo in questi libri per il fatto che, sebbene anche gli antichi Accademici e i vostri Peripatetici, che una volta erano tutt'uno con gli Accademici, antepongano ciò che è onesto a ciò che sembra utile, tuttavia questi argomenti sono trattati in maniera molto più elevata da quelli che identificano l'utile con l'onesto e negano che sia utile ciò che non è onesto, anziché da quelli secondo i quali qualche cosa onesta non è utile e qualche cosa utile non è onesta. Quanto a noi, la nostra Accademia ci dà ampie possibilità di difendere, a pieno diritto, qualsiasi tesi ci si presenti in sommo grado probabile. Ma ritorno alla norma. |
Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi i, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt, at Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt; nollem Corinthum, sed credo aliquid secutos, oportunitatem loci maxime, ne posset aliquando ad bellum faciendum locus ipse adhortari. Mea quidem sententia paci, quae nihil habitura sit insidiarum, semper est consulendum.In quo si mihi esset obtemperatum, si non optimam, at aliquam rem publicam, quae nunc nulla est, haberemus. Et cum iis, quos vi deviceris consulendum est, tum ii, qui armis positis ad imperatorum fidem confugient, quamvis murum aries percusserit, recipiendi. In quo tantopere apud nostros iustitia culta est, ut ii, qui civitates aut nationes devictas bello in fidem recepissent, earum patroni essent more maiorum. | Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati. Così, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Ernici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre. A mio parere, bisogna procurar sempre una pace che non nasconda insidie. E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno. E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla lealtà dei capitani, anche se l'ariete abbia già percosso le loro mura. E a questo riguardo i Romani furono così rigidi osservanti della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivano poi patroni, secondo il costume dei nostri antenati. |
Itaque quoniam hic quod mihi deberetur se exacturum professus est, quod huic debes, ego a te peto. Quidnam id? inquam. Ut scribas, inquit, aliquid; iam pridem enim conticuerunt tuae litterae. nam ut illos de re publica libros edidisti, nihil a te sane postea accepimus: eisque nosmet ipsi ad rerum nostrarum memoriam comprehendendam impulsi atque incensi sumus. sed illa, cum poteris; atque ut possis, rogo. | Perciò, dal momento che costui si è incaricato di esigere quanto mi è dovuto, io sollecito da te quanto devi a lui". "Di che cosa mai si tratta?" chiesi. "Che tu scriva qualcosa" rispose. "Infatti, da quando hai pubblicato i tuoi libri Sullo Stato, dopo non abbiamo avuto proprio più niente da te; e da quelli io mi sono sentito indotto e incitato a compendiare la nostra storia. Ma questo, quando potrai; e che tu lo possa, è la mia preghiera. |
Quam cum magis intuerer: "Quaeso", inquit Africanus, "quousque humi defixa tua mens erit? Nonne aspicis, quae in templa veneris? Novem tibi orbibus vel potius globis conexa sunt omnia, quorum unus est caelestis, extimus, qui reliquos omnes complectitur, summus ipse deus arcens et continens ceteros; in quo sunt infixi illi, qui volvuntur, stellarum cursus sempiterni. Cui subiecti sunt septem, qui versantur retro contrario motu atque caelum. Ex quibus summum globum possidet illa, quam in terris Saturniam nominant.Deinde est hominum generi prosperus et salutaris ille fulgor, qui dicitur Iovis; tum rutilus horribilisque terris, quem Martium dicitis; deinde subter mediam fere regionem Sol obtinet, dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio, tanta magnitudine, ut cuncta sua luce lustret et compleat. Hunc ut comites consequuntur Veneris alter, alter Mercurii cursus, in infimoque orbe Luna radiis solis accensa convertitur. Infra autem iam nihil est nisi mortale et caducum praeter animos munere deorum hominum generi datos; supra Lunam sunt aeterna omnia. Nam ea, quae est media et nona, Tellus, neque movetur et infima est, et in eam feruntur omnia nutu suo pondera". | Poiché troppo a lungo io guardavo, l'Africano disse: "Ti prego, fino a quando la tua mente sarà fissa a terra? Non vedi in quali templi sei venuto? Tutto è connesso da nove cerchi o piuttosto sfere, dei quli uno solo è il celeste, l'estremo, che abbraccia tutti gli altri, esso stesso dio supremo che comprende e contiene gli altri; in esso sono infisse quelle orbite delle stelle che si muovono eternamente; ad esso sono sottoposte le sette sfere, che girano all'indietro, con movimento contrario rispetto al cielo. Di esse una sola sfera appartiene a quella stella, che sulla terra chiamano 'di Saturno'. C'è poi quello rosseggiante ed infausto, che chiamate 'di Marte'; quindi, inferiormente, il sole occupa quasi il mezzo di quella regione, guida e principe e reggitore dei restanti astri, mente e principio regolatore del mondo, e di tanta grandezza, da illuminare e riempire tutto con la sua luce. A lui tengono dietro come satelliti i cerchi di Venere da una parte e di Mercurio dall'altra, e nel cielo più basso ruota la Luna accesa dai raggi del sole. Al di sotto poi di quella non vi è nulla se non mortale e caduco, ad eccezione delle anime date per dono degli dei al genere umano, al di sopra della luna tutto è eterno. Infatti quella che sta nel centro ed è la nona, la Terra, non si muove ed è la più bassa, e verso di lei tutti i corpi pesanti sono attratti per la propria gravità". |
Atque in omni re considerandum est et quid postules ab amico et quid patiare a te impetrari.Est etiam quaedam calamitas in amicitiis dimittendis non numquam necessaria; iam enim a sapientium familiaritatibus ad vulgares amicitias oratio nostra delabitur. Erumpunt saepe vitia amicorum tum in ipsos amicos, tum in alienos, quorum tamen ad amicos redundet infamia. Tales igitur amicitiae sunt remissione usus eluendae et, ut Catonem dicere audivi, dissuendae magis quam discindendae, nisi quaedam admodum intolerabilis iniuria exarserit, ut neque rectum neque honestum sit nec fieri possit, ut non statim alienatio disiunctioque faciunda sit. | Insomma, in ogni circostanza devi valutare attentamente cosa chiedi all'amico e cosa sei disposto a concedergli.Incombe sulle amicizie una calamità, e non sempre è possibile evitarla: la rottura. Il mio discorso si abbassa ormai dall'amicizia tra saggi alle amicizie comuni. I difetti degli amici, infatti, molte volte si manifestano all'improvviso, ora a danno degli stessi amici, ora degli estranei, ma in modo che il disonore ricada sempre sugli amici. Bisogna frequentare tali amicizie sempre meno, sino ad arrivare allo scioglimento definitivo. Come ho sentito dire da Catone, dobbiamo scucirle, non strapparle, a meno che non divampi un motivo di risentimento davvero insopportabile; in tal caso non sarebbe giusto, né dignitoso, né possibile non troncare una volta per tutte il rapporto. |
Cum haec disseruissem, uterque adsensus est; et ego tamquam de integro ordiens: quando igitur, inquam, a Cotta et Sulpicio haec omnis fluxit oratio, cum hos maxume iudicio illorum hominum et illius aetatis dixissem probatos, revortar ad eos ipsos; tum reliquos, ut institui, deinceps persequar. quoniam ergo oratorum bonorum—hos enim quaerimus—duo genera sunt, unum attenuate presseque, alterum sublate ampleque dicentium, etsi id melius est quod splendidius et magnificentius, tamen in bonis omnia quae summa sunt iure laudantur. | Terminato che ebbi questo ragionamento, ambedue manifestarono il loro consenso; e io, come riprendendo da capo, dissi: "Dal momento che tutto questo discorso è scaturito da Cotta e da Sulpicio giacché avevo detto che costoro erano stati particolarmente apprezzati dal giudizio del pubblico di quel tempo, ritornerò a loro; poi passerò in rassegna gli altri, come ho fatto finora. Gli oratori buoni - sono questi infatti l'oggetto della nostra ricerca - si dividono in due categorie: quelli che parlano in maniera piana e concisamente precisa, e quelli che parlano con stile elevato e ricco. Sebbene sia miglio re il genere più splendido e grandioso, tuttavia nelle cose buone merita elogio tutto ciò che raggiunge l'eccellenza. |
Castra sunt in Italia contra populum Romanum in Etruriae faucibus conlocata, crescit in dies singulos hostium numerus; eorum autem castrorum imperatorem ducemque hostium intra moenia atque adeo in senatu videmus intestinam aliquam cotidie perniciem rei publicae molientem. Si te iam, Catilina, comprehendi, si interfici iussero, credo, erit verendum mihi, ne non potius hoc omnes boni serius a me quam quisquam crudelius factum esse dicat. Verum ego hoc, quod iam pridem factum esse oportuit, certa de causa nondum adducor ut faciam.Tum denique interficiere, cum iam nemo tam inprobus, tam perditus, tam tui similis inveniri poterit, qui id non iure factum esse fateatur. | In Italia, nelle gole dell'Etruria, c'è un esercito accampato contro il popolo romano. Cresce di giorno in giorno il numero dei nemici. Ma il capo di quell'esercito, il comandante dei nemici lo vediamo dentro le nostre mura, anzi, eccolo qui in Senato a preparare, giorno dopo giorno, la rovina interna dello Stato. Se, Catilina, subito ordinassi il tuo arresto e la tua condanna a morte, probabilmente dovrei temere di essere criticato da tutti gli onesti per i miei indugi, non per la mia inflessibilità. Se, però, non mi decido ancora a fare quel che già da tempo era necessario, ho le mie buone ragioni. Morirai solo quando non ci sarà un uomo così corrotto, così perduto, così simile a te da non ammettere che ho agito secondo la legge. |
Quamquam, O di boni! quid est in hominis natura diu? Da enim summum tempus, exspectemus Tartessiorum regis aetatem (fuit enim, ut scriptum video, Arganthonius quidam Gadibus, qui octoginta regnavit annos, centum viginti vixit) - sed mihi ne diuturnum quidem quicquam videtur in quo est aliquid extremum. Cum enim id advenit, tum illud, quod praeteriit, effluxit; tantum remanet, quod virtute et recte factis consecutus sis; horae quidem cedunt et dies et menses et anni, nec praeteritum tempus umquam revertitur, nec quid sequatur sciri potest; quod cuique temporis ad vivendum datur, eo debet esse contentus. | Anche se, o buon dio, cosa significa "a lungo" nella natura umana? Prendi l'esistenza più lunga che ci sia, aspettiamoci di vivere quanto il re dei Tartessi - a Cadice ci fu un certo Argantonio che, come leggo, regnò ottant'anni e ne visse centoventi -; non mi sembra però nemmeno duraturo quel che presenta una fine. Quando la fine arriva, allora il passato è volato via; rimane solo quanto hai conseguito con la virtù e le azioni giuste. Se ne vanno le ore, i giorni, i mesi, gli anni: non torna più indietro il tempo passato ed è impossibile conoscere il futuro. Ciascuno deve accontentarsi del tempo che gli è concesso di vivere. |
Qui thesaurum inventum aut hereditatem venturam dicunt, quid sequuntur? Aut in qua rerum natura inest id futurum? Quodsi haec eaque quae sunt eiusdem generis habent aliquam talem necessitatem, quid est tandem quod casu fieri aut forte fortuna putemus? Nihil enim est tam contrarium rationi et constantiae quam fortuna, ut mihi ne in deum quidem cadere videatur ut sciat quid casu et fortuito futurum sit. Si enim scit, certe illud eveniet; sin certe eveniet, nulla fortuna est; est autem fortuna; rerum igitur fortuitarum nulla praesensio est.Aut si negas esse fortunam, et omnia, quae fiunt quaeque futura sunt, ex omni aeternitate definita dicis esse fataliter, muta definitionem divinationis, quam dicebas praesensionem esse rerum fortuitarum. Si enim nihil fieri potest, nihil accidere, nihil evenire, nisi quod ab omni aeternitate certum fuerit esse futurum rato tempore, quae potest esse fortuna? Qua sublata qui locus est divinationi, quae a te fortuitarum rerum est dicta praesensio? Quamquam dicebas omnia, quae fierent futurave essent, fato contineri. Anile sane et plenum superstitionis fati nomen ipsum; sed tamen apud Stoicos de isto fato multa dicuntur; de quo alias; nunc quod necesse est. | Ma quelli che predicono a qualcuno che scoprirà un tesoro o che avrà un'eredità, quali indizi seguono? In quale legge di natura è insito che ciò avverrà? E se anche questi eventi e gli altri dello stesso genere sono soggetti a una necessità di natura, che cosa c'è, in fin dei conti, che si debba credere che avvenga per caso o per mero giuoco della sorte? Nulla è tanto contrario alla razionalità e alla regolarità quanto il caso, fino al punto che mi sembra che nemmeno la divinità abbia il privilegio di sapere che cosa accadrà per caso e fortuitamente. Se, infatti, la divinità lo sa, il fatto avverrà certamente; ma se avverrà certamente, il caso non esiste. Il caso, invece, esiste; non è dunque possibile alcuna previsione di eventi fortuiti. Se poi neghi l'esistenza del caso, e dici che tutto ciò che avviene e che avverrà è fatalmente determinato ab aeterno, devi mutare la tua definizione della divinazione, che, a quanto dicevi, è il presentimento delle cose fortuite. Se nulla può avvenire, nulla capitare, nulla attuarsi tranne ciò che da tutta l'eternità è stato decretato che avverrà in un dato tempo, a che cosa si riduce il caso? E, tolto di mezzo il caso, quale spazio rimane alla divinazione, che, tu l'hai detto, è il presentimento delle cose fortuite? È vero che dicevi anche che tutte le cose che avvengono o avverranno sono predeterminate dal destino. Certo, la parola stessa "destino" è una parola da vecchierelle, piena di spirito superstizioso; tuttavia tra gli stoici si parla spesso di codesto destino. Di esso discuteremo un'altra volta; ora limitiamoci allo stretto necessario. |
Sed quoniam decorum illud in omnibus factis, dictis, in corporis denique motu et statu cernitur idque positum est in tribus rebus, formositate, ordine, ornatu ad actionem apto, difficilibus ad eloquendum, sed satis erit intellegi, in his autem tribus continetur cura etiam illa, ut probemur iis, quibuscum apud quosque vivamus, his quoque de rebus pauca dicantur. Principio corporis nostri magnam natura ipsa videatur habuisse rationem, quae formam nostram reliquamque figuram, in qua esset species honesta, eam posuit in promptu, quae partes autem corporis ad naturae necessitatem datae aspectum essent deformem habiturae atque foedum, eas contexit atque abdidit. | Ora, questo decoro di cui parliamo e che si manifesta in ogni azione e in ogni parola, e perfino nel muoversi e nell'atteggiamento della persona, è riposto in tre cose, difficili a spiegare bene, ma tali che basta darne un'idea: nella bellezza, nell'ordine e nell'eleganza adatta all'azione. E in queste tre cose è compreso anche il segreto di piacere a coloro coi quali o presso i quali viviamo. Ebbene, anche di queste cose converrà discorrere brevemente. Prima di tutto è evidente che la natura pose grande cura nella conformazione del nostro corpo: mise in mostra il volto e tutte quelle parti che sono decorose a vedersi, mentre celò e nascose quelle che, destinate alle necessità naturali, avrebbero avuto un aspetto brutto e vergognoso. |
Quam ob rem vita quidem talis fuit vel fortuna vel gloria, ut nihil posset accedere, moriendi autem sensum celeritas abstulit; quo de genere mortis difficile dictu est; quid homines suspicentur, videtis; hoc vere tamen licet dicere, P. Scipioni ex multis diebus, quos in vita celeberrimos laetissimosque viderit, illum diem clarissimum fuisse, cum senatu dimisso domum reductus ad vesperum est a patribus conscriptis, populo Romano, sociis et Latinis, pridie quam excessit e vita, ut ex tam alto dignitatis gradu ad superos videatur deos potius quam ad inferos pervenisse. | Perciò la sua vita fu tale, quanto a fortuna e a gloria, che nulla di più le si poteva aggiungere. La morte, poi, arrivò così improvvisa da impedirgli di accorgersene. Come morì, è difficile dirlo: sapete quali sospetti circolano. Ma una cosa si può affermare con sicurezza: dei tanti giorni di grande festa e felicità che Scipione vide nella sua vita, il più bello fu quello in cui, dopo lo scioglimento della seduta senatoriale, venne accompagnato a casa, verso sera, dai padri coscritti, dal popolo romano, dagli alleati e dai Latini. Era il giorno precedente la sua morte. Sembrerebbe che da un così alto grado di dignità sia salito agli dèi superni piuttosto che sceso agli inferi. |
Duae sunt praeterea leges de sepulcris, quarum altera privatorum aedificiis, altera ipsis sepulcris cavet. Nam quod 'rogum bustumve novum' vetat 'propius sexaginta pedes adigi aedes alienas invito domino', incendium videtur arcere <vetat>. Quod autem 'forum', id est vestibulum sepulcri, 'bustumve usu capi' vetat, tuetur ius sepulcrorum. Haec habemus in XII, sane secundum naturam, quae norma legis est. Reliqua sunt in more: funus ut indicatur si quid ludorum, dominusque funeris utatur accenso atque lictoribus, | Inoltre esistono due leggi sui sepolcri, delle quali una riguarda gli edifici dei privati, l'altra i sepolcri stessi. Infatti il testo "è vietato che si eriga un rogo od una tomba a meno di sessanta piedi dalle abitazioni altrui senza il consenso del proprietario" sembra imporre il divieto per timore di un incendio. In quanto poi all'espressione "è vietato prendere possesso di fatto del foro", cioè del vestibolo della tomba, "o del luogo dove fu arso il cadavere", si tutela il diritto dei sepolcreti. Queste disposizioni esistono nelle dodici tavole, assolutamente secondo natura, la quale è norma di legge; il resto è contemplato dalla consuetudine: venga celebrato il funerale come è annunziato, se sia accompagnato da giochi, e che il direttore del corteo si serva di un sostituto e dei littori, |
Sequitur de captis pecuniis et de ambitu. <Leges> quae cum magis iudiciis quam <legum> verbis sancienda sint, adiungitur 'noxiae poena par esto', ut in suo vitio quisque plectatur, vis capite, avaritia multa, honoris cupiditas ignominia sanciatur.Extremae leges sunt nobis non usitatae, rei publicae necessariae. Legum custodiam nullam habemus, itaque eae leges sunt quas apparitores nostri volunt: a librariis petimus, publicis litteris consignatam memoriam publicam nullam habemus.Graeci hoc diligentius, apud quosnomofulakoicrea<ba>ntur, nec ei solum litteras - nam id quidem etiam apud maiores nostros erat -, sed etiam facta hominum observabant ad legesque revocabant. | Seguono gli articoli circa l'accettazione di doni in denaro e circa i brogli elettorali. E poiché le leggi devono essere rese efficaci più con i processi che con le parole, si aggiunge: "Vi sia una pena pari alla colpa", affinché ciascuno sia colpito secondo la sua colpa, la violenza con la morte, l'avidità con un'ammenda, l'ambizione sfrenata per gli onori con l'infamia. Le ultime leggi non sono in vigore presso di noi, eppure necessarie allo Stato. Non abbiamo alcun depositario della legge; pertanto le leggi sono quali le vogliono i nostri cancellieri; le andiamo a chiedere ai copisti, non abbiamo nessun documento pubblico inserito in atti pubblici. I Greci agirono con maggiore diligenza; presso di loro si nominavano dei "custodi delle leggi", ed essi non solo custodivano il testo autentico - il che si faceva anche presso i nostri antenati -, ma essi osservavano anche le azioni degli individui e li richiamavano all'osservanza delle leggi. |
Quocirca poetae in magna varietate personarum etiam vitiosis quid conveniat et quid deceat videbunt, nobis autem cum a natura constantiae, moderationis, temperantiae, verecundiae partes datae sint cumque eadem natura doceat non neglegere, quemadmodum nos adversus homines geramus, efficitur ut et illud, quod ad omnem honestatem pertinet, decorum quam late fusum sit appareat et hoc, quod spectatur in uno quoque genere virtutis. Ut enim pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos et delectat hoc ipso, quod inter se omnes partes cum quodam lepore consentiunt, sic hoc decorum, quod elucet in vita, movet approbationem eorum, quibuscum vivitur, ordine et constantia et moderatione dictorum omnium atque factorum. | Perciò i poeti, nella grande varietà dei caratteri, vedranno essi quale condotta e quale linguaggio convengano propriamente anche ai personaggi viziosi; noi, invece, non dobbiamo che osservare la legge della natura; la natura ci assegna le parti della coerenza, della moderazione, della temperanza e della discrezione; e ancora sempre la natura ci insegna a considerare attentamente come dobbiamo comportarci in rapporto agli altri uomini; ebbene, da tutto questo appare in chiara luce quanto vasto sia il campo su cui si estende il decoro, sia quello generale che riguarda l'onestà tutta quanta, sia quello particolare che si manifesta in ogni singola virtù. Come la bellezza del corpo, per l'armonica disposizione delle membra, attira gli sguardi e infonde piacere, appunto perché tutte le parti si accordano tra loro con una certa grazia, così quel decoro, che risplende nella vita, suscita l'approvazione di coloro coi quali viviamo, in virtù dell'ordine, della coerenza e della temperanza che informano ogni nostro detto e ogni nostro atto. |
Quintus quidem Scaevola, Publi filius, cum postulasset, ut sibi fundus, cuius emptor erat, semel indicaretur idque venditor ita fecisset, dixit se pluris aestumare; addidit centum milia. Nemo est, qui hoc viri boni fuisse neget; sapientis negant, ut si minoris quam potuisset vendidisset. Haec igitur est illa pernicies, quod alios bonos alios sapientes existimant. Ex quo Ennius:nequiquam sapere sapientem, qui ipse sibi prodesse non quiret.Vere id quidem, si, quid esset prodesse mihi cum Ennio conveniret. | Quinto Scevola, figlio di Publio, avendo chiesto che di un fondo, che voleva acquistare, gli fosse indicato il prezzo definitivo e avendo ciò fatto il venditore, affermò di valutarlo di più ed aggiunse centomila sesterzi. Non c'è nessuno che dica che questo comportamento non sia stato proprio d'un galantuomo; negano, però, che sia stato proprio d'un uomo saggio, come se avesse venduto a meno di quanto avrebbe potuto. La rovina è proprio questa, il fatto che si fa distinzione tra i buoni e i saggi. Donde Ennio:Invano è saggio quel saggio incapace di giovare a se stesso.Questo sarebbe pure vero, se fossi d'accordo con Ennio sul significato del giovare. |
Sed nescio quo modo verum est, quod in Andria familiaris meus dicit:"Obsequium amicos, veritas odium parit".Molesta veritas, siquidem ex ea nascitur odium, quod est venenum amicitiae, sed obsequium multo molestius, quod peccatis indulgens praecipitem amicum ferri sinit; maxima autem culpa in eo, qui et veritatem aspernatur et in fraudem obsequio impellitur. Omni igitur hac in re habenda ratio et diligentia est, primum ut monitio acerbitate, deinde ut obiurgatio contumelia careat; in obsequio autem, quoniam Terentiano verbo libenter utimur, comitas adsit, assentatio, vitiorum adiutrix, procul amoveatur, quae non modo amico, sed ne libero quidem digna est; aliter enim cum tyranno, aliter cum amico vivitur. | Invece, chissà perché, ha ragione il mio amico Terenzio quando dice nell'Andria:L'ossequio genera amici, la verità odio.Sgradita verità, se produce odio, il veleno dell'amicizia, ma molto più sgradito l'ossequio, perché, indulgente verso le colpe, non impedisce all'amico di cadervi! Ma è soprattutto colpevole chi rinnega la verità facendosi trascinare in inganno dall'ossequio. In tutto ciò bisogna usare raziocinio e accortezza, in primo luogo perché il monito non suoni aspro, in secondo luogo perché il rimprovero non risulti offensivo; si accompagni poi all'"ossequio" - mi piace usare il termine terenziano - la gentilezza, senza però far ricorso all'adulazione, complice dei vizi, indegna non solo di un amico, ma anche di un uomo libero. Perché in un modo si vive con il tiranno, in un altro si vive con l'amico. |
Duxit uxorem patre vivo optumi et calamitosissumi viri filiam, L. Scipionis. Clara in hoc P. Sesti pietas extitit et omnibus grata, quod et Massiliam statim profectus est, ut socerum videre consolarique posset fluctibus rei publicae expulsum, in alienis terris iacentem, quem in maiorum suorum vestigiis stare oportebat, et ad eum filiam eius adduxit, ut ille insperato aspectu complexuque si non omnem at aliquam partem maeroris sui deponeret, et maximis praeterea adsiduisque officiis et illius aerumnam, quoad vixit, et filiae solitudinem sustentavit.Possum multa dicere de liberalitate, de domesticis officiis, de tribunatu militari, de provinciali in eo magistratu apstinentia; sed mihi ante oculos obversatur rei publicae dignitas, quae me ad sese rapit, haec minora relinquere hortatur. | Quando il padre era ancora in vita, sposò la figlia dell’uomo migliore e più dannoso, Lucio Scipione. La pietà di Publio Sestio in questo si mostrò chiara e gradita a tutti, sia perché andò subito a Marsiglia, per poter vedere e consolare il suocero, che giaceva in terre straniere, esiliato a causa di moti popolari allo stato, a cui sarebbe convenuto seguire le orme dei propri antenati, sia perché gli condusse sua figlia, affinché quello grazie all’inattesa vista e alla comprensione abbandonasse se non tutto ma almeno una parte del suo dolore, sia inoltre perché sostenne con i servizi più grandi e assidui il travaglio di quello finché visse, e la solitudine della figlia. Posso dire molte cose sulla generosità, gli impegni domestici, il tribunato militare, la moderazione provinciale in quella magistratura; ma mi si presenta davanti agli occhi la dignità dello stato, che mi spinge a se (e che mi) esorta a lasciare queste cose di minor conto. |
Nam quid Macrum numerem? Cuius loquacitas habet aliquid argutiarum nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia, sed ex librariolis Latinis: in orationibus autem multa s<ane a>pt<a L>ati<n>o <ser>m<oni> imp<er>t<iens>, Sisenna, eius amicus, omnis adhuc nostros scriptores - nisi qui forte nondum ediderunt, de quibus existimare non possumus - facile superavit. Is tamen neque orator in numero vestro umquam est habitus, et in historia puerile quiddam consectatur, ut unum Clitarchum neque praeterea quemquam de Graecis legisse videatur, eum tamen velle dumtaxat imitari: quem si adsequi posset, aliquantum ab optumo tamen abesset.Quare tuum est munus hoc, a te exspectatur; nisi quid Quinto videtur secus. | A che scopo infatti dovrei citare, per esempio, Macro? La sua loquacità presenta qualche spunto di arguzia, non già derivante dalla colta facondia dei Greci, ma dai copisti latini, e nei pezzi oratori vi sono certamente molte qualità che fanno parte della lingua latina. Il suo amico Sisenna ha superato facilmente tutti i nostri scrittori almeno fino al giorno d'oggi, salvo forse quelli che non hanno ancora pubblicato nulla e dei quali non possiamo dare un giudizio. Ma costui mai è stato ricordato da voi nella vostra famiglia come oratore, e nella storia egli si compiace di banalità tali da sembrare che egli abbia letto soltanto Clitarco e, al di fuori di lui, nessuno dei Greci, e tuttavia pare voglia imitare esclusivamente quello; e se pur potesse raggiungerlo, credo, rimarrebbe sicuramente alquanto distante dalla sua perfezione. Per questo un tale compito spetta a te, lo si attende da te, a meno che Quinto non la pensi diversamente. |
Quo etiam magis vituperanda est rei maxime necessariae tanta incuria. Una est enim amicitia in rebus humanis, de cuius utilitate omnes uno ore consentiunt. Quamquam a multis virtus ipsa contemnitur et venditatio quaedam atque ostentatio esse dicitur; multi divitias despiciunt, quos parvo contentos tenuis victus cultusque delectat; honores vero, quorum cupiditate quidam inflammantur, quam multi ita contemnunt, ut nihil inanius, nihil esse levius existiment! itemque cetera, quae quibusdam admirabilia videntur, permulti sunt qui pro nihilo putent; de amicitia omnes ad unum idem sentiunt, et ii qui ad rem publicam se contulerunt, et ii qui rerum cognitione doctrinaque delectantur, et ii qui suum negotium gerunt otiosi, postremo ii qui se totos tradiderunt voluptatibus, sine amicitia vitam esse nullam, si modo velint aliqua ex parte liberaliter vivere. | A maggior ragione, quindi, dobbiamo condannare tale indifferenza nei confronti di una cosa estremamente necessaria. Di tutti i beni della vita umana l'amicizia è l'unico sulla cui utilità gli uomini siano unanimemente d'accordo. È vero che molti disprezzano la virtù e la considerano uno sfoggio, un'ostentazione; molti, che si accontentano di poco e amano un tenore di vita semplice, spregiano invece le ricchezze; e le cariche politiche, il desiderio delle quali infiamma alcuni, quanto sono numerosi quelli che le disprezzano, al punto da considerarle il culmine della vanità e della frivolezza! Allo stesso modo, quel che per gli uni è meraviglioso, per moltissimi non vale niente. Ma sull'amicizia tutti, dal primo all'ultimo, sono d'accordo, da chi fa della politica una ragione di vita a chi si diletta di scienza e filosofia, da chi, al di fuori della vita pubblica, si occupa dei propri affari a chi, infine, si dà anima e corpo ai piaceri. Tutti sanno che la vita non è vita senza amicizia, se almeno in parte si vuole vivere da uomini liberi. |
Addebat etiam, idque ad rem pertinere putabat, scriptores illos male mulcatos exisse cum Galba; ex quo significabat illum non in agendo solum, sed etiam in meditando vehementem atque incensum fuisse. quid multa? magna exspectatione, plurumis audientibus, coram ipso Laelio sic illam causam tanta vi tantaque gravitate dixisse Galbam, ut nulla fere pars orationis silentio praeteriretur. itaque multis querelis multaque miseratione adhibita socios omnibus adprobantibus illa die quaestione liberatos esse. | Rutilio aggiungeva anche, e la riteneva cosa non priva di importanza, che quegli scrivani avevano un'aria malconcia quando uscirono con Galba; ne traeva la conclusione che quell'uomo era impetuoso e ardente non solo quando doveva tenere un discorso, ma anche quando si trattava di prepararlo. Per farla breve, tra tanta attesa, di fronte a un pubblico molto numeroso, e alla presenza dello stesso Lelio, Galba difese quella causa con tanta energia e con tanta risolutezza, che praticamente nessuna parte del suo discorso mancò di suscitare acclamazioni. Così, grazie al suo insistente ricorso a lagnanze e ad accenti di commiserazione, i soci vennero quel giorno liberati da ogni addebito, in mezzo all'approvazione generale. |
[...] Intellego, Quirites, a vobis hanc sententiam repudiari, neque iniuria. Ad quem enim legatos? ad eumne qui, pecunia publica dissipata atque effusa, per vim et contra auspicia inpositis rei publicae legibus, fugata contione, obsesso senatu ad opprimendam rem publicam Brundisio legiones accersierit, ab iis relictus cum latronum manu in Galliam inruperit, Brutum oppugnet, Mutinam circumsedeat? Quae vobis potest cum hoc gladiatore condicionis, aequitatis, legationis esse communitas? | [...] Capisco, Quiriti, che questa proposta è respinta da voi, e non a torto. Delegati a lui? A lui, forse, che dissipato e consumato il denaro pubblico, imposte le leggi allo stato con la forza e contro gli auspici, tolta l'assemblea, occupato il senato per opprimere lo stato aveva fatto venire legioni da Brindisi, lasciato da quelle aveva fatto irruzione in Gallia con un esercito di ladroni, contrasta Bruto, assedia Modena? Quale comunanza di accordo, di equità, di ambasciata può esserci da parte vostra con questo gladiatore? |
Neque solum vivi atque praesentes studiosos discendi erudiunt atque docent, sed hoc idem etiam post mortem monumentis litterarum assequuntur. Nec enim locus ullus est praetermissus ab iis, qui ad leges, qui ad mores, qui ad disciplinam rei publicae pertineret, ut otium suum ad nostrum negotium contulisse videantur. Ita illi ipsi doctrinae studiis et sapientiae dediti ad hominum utilitatem suam intelligentiam prudentiamque potissimum conferunt; ob eamque etiam causam eloqui copiose, modo prudenter, melius est quam vel acutissime sine eloquentia cogitare, quod cogitatio in se ipsa vertitur, eloquentia complectitur eos, quibuscum communitate iuncti sumus. | E questi uomini, non solo finché sono vivi e presenti, istruiscono e ammaestrano gli spiriti avidi di sapere, ma anche dopo morti ottengono il medesimo effetto con le loro immortali scritture. Essi non tralasciarono alcun argomento che riguardasse le leggi, la morale, il buon governo dello Stato, così che può dirsi che consacrarono i loro studi privati al bene della nostra vita pubblica. Così anche quei sapienti, dediti agli studi scientifici e filosofici, recano principalmente al bene comune il contributo del loro ingegno e della loro saggezza. E per la stessa ragione, anche l'eloquenza, purché illuminata dal pensiero, vale più di una speculazione quanto mai acuta, ma incapace di esprimersi; perché la speculazione si chiude in se stessa, mentre l'eloquenza abbraccia tutti coloro che un comune vincolo unisce e affratella. |
Coniunctus igitur Sulpici aetati P. Antistius fuit, rabula sane probabilis, qui multos cum tacuisset annos neque contemni solum sed inrideri etiam solitus esset, in tribunatu primum contra C. Iuli illam consulatus petitionem extraordinariam veram caus am agens est probatus; et eo magis quod eandem causam cum ageret eius conlega ille ipse Sulpicius, hic plura et acutiora dicebat. itaque post tribunatum primo multae ad eum causae, deinde omnes maxumae quaecumque erant deferebantur. | All'età di Sulpicio si riallaccia dunque Publio Antistio, un abbaiatore davvero degno di considerazione, il quale, dopo essersene rimasto in silenzio per molti anni- era solito non solo venir disprezzato, ma anche deriso -, durante il tribunato, quando sostenne una causa giusta contro l'irregolare candidatura al consolato di Gaio Giulio, per la prima volta ottenne successo; e tanto maggiore perché, per quanto la stessa causa fosse sostenuta dal suo collega, proprio il famoso Sulpicio seppe trovare argomenti più numerosi e più penetranti. Perciò dopo il tribunato dapprima gli venivano affidate molte cause, e poi tutte quelle di maggiore importanza. |
Quis enim aut eum diligat quem metuat, aut eum a quo se metui putet? Coluntur tamen simulatione dumtaxat ad tempus. Quod si forte, ut fit plerumque, ceciderunt, tum intellegitur quam fuerint inopes amicorum. Quod Tarquinium dixisse ferunt, tum exsulantem se intellexisse quos fidos amicos habuisset, quos infidos, cum iam neutris gratiam referre posset. | Chi, allora, potrebbe amare una persona di cui ha paura o a cui pensa di ispirarne? Eppure i tiranni sono riveriti, ma da chi finge, e solo per un tempo limitato. Se mai cadono, come succede generalmente, allora viene a galla quanto fossero poveri di amici. È quello che, secondo la tradizione, ammise Tarquinio il giorno dell'esilio: riconobbe gli amici fedeli e quelli infedeli solo nel momento in cui non poteva più ripagare né gli uni né gli altri. |
Video, cui sit Apulia adtributa, quis habeat Etruriam, quis agrum Picenum, quis Gallicum, quis sibi has urbanas insidias caedis atque incendiorum depoposcerit. Omnia superioris noctis consilia ad me perlata esse sentiunt; patefeci in senatu hesterno die; Catilina ipse pertimuit, profugit; hi quid expectant? Ne illi vehementer errant, si illam meam pristinam lenitatem perpetuam sperant futuram. Quod expectavi, iam sum adsecutus, ut vos omnes factam esse aperte coniurationem contra rem publicam videretis; nisi vero si quis est, qui Catilinae similis cum Catilina sentire non putet.Non est iam lenitati locus; severitatem res ipsa flagitat. Unum etiam nunc concedam: exeant, proficiscantur, ne patiantur desiderio sui Catilinam miserum tabescere. Demonstrabo iter: Aurelia via profectus est; si accelerare volent, ad vesperam consequentur. | So a chi è stata assegnata la Puglia, chi controlla l'Etruria, chi il Piceno, chi la Gallia, chi ha richiesto per sé l'organizzazione degli attentati in città, cioè stragi e incendi. Sanno che mi sono stati riferiti tutti i loro programmi dell'altra notte: li ho denunciati in Senato, ieri. Persino Catilina è stato preso dal panico, è fuggito. E loro, che cosa aspettano? Sbagliano davvero se si illudono che l'indulgenza che ho mostrato in passato sia eterna! Quel che mi ero proposto, ormai l'ho conseguito: avete perfettamente chiaro che è stata organizzata una congiura contro lo Stato. O qualcuno ritiene che gli amici di Catilina nutrano altri propositi? Ormai non c'è più posto per l'indulgenza! È la situazione a richiedere fermezza. Farò solo una concessione: se ne vadano, partano, non lascino che Catilina si strugga nella loro mancanza! Mostrerò la strada. È partito per la via Aurelia; se si sbrigano, lo raggiungeranno verso sera. |
'Demosthenem igitur imitemur.' o di boni! quid, quaeso, nos aliud agimus aut quid aliud optamus? at non adsequimur. isti enim videlicet Attici nostri quod volunt adsequuntur. ne illud quidem intellegunt, non modo ita memoriae proditum esse sed ita necesse fuisse, cum Demosthenes dicturus esset, ut concursus audiendi causa ex tota Graecia fierent. at cum isti Attici dicunt, non modo a corona, quod est ipsum miserabile, sed etiam ab advocatis relinquuntur.quare si anguste et exiliter dicere est Atticorum, sint sane Attici; sed in comitium veniant, ad stantem iudicem dicant: subsellia grandiorem et pleniorem vocem desiderant. | "Allora imitiamo Demostene". Dèi buoni! E io, chiedo scusa, cos'altro faccio, o a cos'altro miro? Ma non ci riesco. Difatti questi attici nostri - si capisce! -riescono in quel che si prefiggono. Nemmeno di questo si rendono conto, che non solo così vien tramandato, ma che così doveva essere necessariamente, cioè che quando doveva parlare Demostene da tutte le parti della Grecia si accorresse in massa per ascoltarlo. Invece quando parlano questi attici, vengono piantati in asso non solo dal pubblico, il che è già pietoso, ma anche dai sostenitori del loro cliente. Pertanto, se è tipico degli attici parlare in maniera striminzita e scarna, siano pure attici: però vengano nel comizio, e parlino di fronte a un giudice ritto in piedi; i sedili del tribunale richiedono una voce più sostenuta e più piena. |
Quid est igitur, dixerit quis, in iure iurando? num iratum timemus Iovem? At hoc quidem commune est omnium philosophorum, non eorum modo, qui deum nihil habere ipsum negotii dicunt, nihil exhibere alteri, sed eorum etiam, qui deum semper agere aliquid et moliri volunt, numquam nec irasci deum nec nocere. Quid autem iratus Juppiter plus nocere potuisset, quam nocuit sibi ipse Regulus? Nulla igitur vis fuit religionis, quae tantam utilitatem perverteret.An ne turpiter faceret? Primum minima de malis? Non igitur tantum mali turpitudo ista habebat, quantum ille cruciatus. Deinde illud etiam apud Accium:[quot]Fregistin fidem?Neque dedi neque do infideli cuiquam.[/quot]quamquam ab impio rege dicitur, luculente tamen dicitur. | Che cosa c'è, dunque, potrebbe dire qualcuno, in un giuramento? Forse temiamo l'ira di Giove? Ma è opinione comune di tutti i filosofi (non solo di quelli che affermano che il dio non si cura di nulla e non procura alcuna preoccupazione ad altri, ma anche di coloro che sostengono che la divinità compie e prepara sempre qualche cosa), che il dio non si adira mai e non reca nocumento. In che cosa, poi, Giova irato avrebbe potuto nuocere a Regolo, più di quanto egli nocque a se stesso? Non c'era, dunque, alcuna forza della religione che potesse mandare in a una tanto grande utilità. Forse per non agire indegnamente? In primo luogo, tra due mali bisogna scegliere il minore: questa vergogna recava forse con sé tanto male, quanto ne recavano quelle torture? In secondo luogo anche presso Accio si legge:[quot]Hai violato la parola data? Non l'ho mai data né la do ad alcuno sleale.[/quot]È vero che ciò è detto da un re empio, ma detto, tuttavia, splendidamente. |
Quod si tanta vis probitatis est ut eam vel in iis quos numquam vidimus, vel, quod maius est, in hoste etiam diligamus, quid mirum est, si animi hominum moveantur, cum eorum, quibuscum usu coniuncti esse possunt, virtutem et bonitatem perspicere videantur? Quamquam confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta, quibus rebus ad illum primum motum animi et amoris adhibitis admirabilis quaedam exardescit benevolentiae magnitudo.Quam si qui putant ab imbecillitate proficisci, ut sit per quem adsequatur quod quisque desideret, humilem sane relinquunt et minime generosum, ut ita dicam, ortum amicitiae, quam ex inopia atque indigentia natam volunt. Quod si ita esset, ut quisque minimum esse in se arbitraretur, ita ad amicitiam esset aptissimus; quod longe secus est. | Se, dunque, tanta è la forza dell'onestà da venir apprezzata in chi non abbiamo mai visto o, cosa ancor più notevole, addirittura in un nemico, perché stupirsi se l'animo umano rimane turbato quando crede di scorgere virtù e bontà in persone con cui si può legare nei rapporti della vita? È pur vero che l'amore si rafforza quando riceviamo un beneficio o ci manifestano simpatia o quando ancora si instaura l'intimità. Se a ciò si accompagna un'immediata attrazione, ecco allora accendersi un meraviglioso e intenso affetto.Se alcuni pensano che l'amicizia derivi dalla debolezza e dalla necessità di cercare qualcuno in grado di procurarci quel che ci manca, è perché attribuiscono all'amicizia, se così posso esprimermi, un'origine davvero bassa e ignobile, volendola figlia del bisogno e dell'indigenza. Se così fosse, quanto più uno si sentisse insicuro, tanto più sarebbe adatto all'amicizia. Ma la verità è un'altra! |
Audiebam Pythagoram Pythagoreosque, incolas paene nostros, qui essent Italici philosophi quondam nominati, numquam, dubitasse, quin ex universa mente divina delibatos animos haberemus. Demonstrabantur mihi praeterea, quae Socrates supremo vitae die de immortalitate aminorum disseruisset, is qui esset omnium sapientissimus oraculo Apollinis iudicatus. Quid multa? Sic persuasi mihi, sic sentio, cum tanta celeritas animorum sit, tanta memoria praeteritorum futurorumque prudentia, tot artes, tantae scientiae, tot inventa, non posse eam naturam, quae res eas contineat, esse mortalem, cumque semper agitetur animus nec principium motus habeat, quia se ipse moveat, ne finem quidem habiturum esse motus, quia numquam se ipse sit relicturus; et, cum simplex animi esset natura, neque haberet in se quicquam admixtum dispar sui atque dissimile, non posse eum dividi; quod si non posset, non posse interire; magnoque esse argumento homines scire pleraque ante quam nati sint, quod iam pueri, cum artis difficilis discant, ita celeriter res innumerabilis arripiant, ut eas non tum primum accipere videantur, sed reminisci et recordari.Haec Platonis fere. | Apprendevo che Pitagora e i pitagorici - quasi nostri conterranei, tant'è vero che un tempo erano chiamati "filosofi italici" - non misero mai in dubbio che le nostre anime emanassero dalla mente divina universale. Mi venivano illustrati anche i discorsi sull'immortalità che Socrate, giudicato dall'oracolo di Apollo l'uomo più saggio, fece l'ultimo giorno della sua vita. Perché tante parole? Ecco di cosa sono convinto, ecco come la penso: così grande è la velocità del pensiero, così potente il ricordo del passato e la preveggenza del futuro, così numerose le arti, così vasto il campo delle scienze, così grande il numero delle invenzioni che la natura, capace di contenere tutto questo, non può essere mortale. E siccome l'anima è sempre attiva e il suo movimento non ha principio, poiché essa si muove da sé, il movimento non avrà neppure fine, poiché l'anima non potrà mai sottrarsi alla propria natura. E siccome la natura dell'anima è semplice e non contiene mescolanza di elementi diversi per quantità e qualità, non può dividersi; non potendo dividersi, non può morire. Ecco una grande prova del fatto che gli uomini conoscono moltissime cose prima di nascere: fin da bambini, quando imparano discipline difficili, afferrano con tanta rapidità un gran numero di nozioni che sembrano non acquisirle per la prima volta, ma ricordarle. Questo è, all'incirca, il pensiero di Platone. |
Sed adfers in tauri opimi extis immolante Caesare, cor non fuisse; id quia non potuerit accidere, ut sine corde victuma illa viveret, iudicandum esse tum interisse cor, cum immolaretur. Qui fit, ut alterum intellegas, sine corde non potuisse bovem vivere, alterum non videas, cor subito non potuisse nescio quo avolare? Ego enim possum vel nescire quae vis sit cordis ad vivendum, vel suspicari contractum aliquo morbo bovis exile et exiguum et vietum cor et dissimile cordis fuisse; tu vero quid habes, quare putes, si paulo ante cor fuerit in tauro opimo, subito id in ipsa immolatione interisse? An quod adspexerit vestitu purpureo excordem Caesarem, ipse corde privatus est? Urbem philosophiae, mihi crede, proditis, dum castella defenditis; nam, dum haruspicinam veram esse vultis, physiologiam totam pervertitis.Caput est in iecore, cor in extis: iam abscedet, simul ac molam et vinum insperseris; deus id eripiet, vis aliqua conficiet aut exedet. Non ergo omnium interitus atque ortus natura conficiet, et erit aliquid quod aut ex nihilo oriatur aut in nihilum subito occidat. Quis hoc physicus dixit umquam? Haruspices dicunt; his igitur quam physicis credendum potius existumas? | Ma tu dici che tra le viscere di un toro ben pasciuto, quando Cesare lo immolò, non si rinvenne il cuore; e siccome sarebbe stato impossibile che, prima del sacrificio, quell'animale fosse vissuto privo del cuore, bisogna, a tuo avviso, ritenere che il cuore scomparve nel momento stesso in cui il toro veniva sacrifìcato. Come mai tu capisci una delle due cose, cioè che un bovino non avrebbe potuto vivere senza avere il cuore, ma non comprendi l'altra, che il cuore non avrebbe potuto tutt'a un tratto volar via non so dove? Io potrei o non sapere qual è la funzione vitale del cuore, o supporre che il cuore del bove, rimpiccolito da qualche malattia, fosse esile, minuscolo, flaccido, non più simile a un cuore normale; ma tu che motivi hai di credere che, se poco prima il cuore c'era nel corpo di un toro ben pasciuto, all'improvviso sia venuto meno, proprio mentre immolavano la bestia? Forse, avendo visto Cesare che, uscito di senno, aveva indossato una veste purpurea, il toro rimase anch'esso privo di cuore? Credi a me, voi abbandonate al nemico la capitale della filosofia, mentre perdete il tempo a difendere qualche piccolo fortilizio: ostinandovi a sostenere la verità dell'aruspicina, sovvertite tutta la fisiologia. Nel fegato c'è la "testa", tra le viscere c'è il cuore: ecco, scomparirà all'improvviso, appena avrai cosparso la vittima di farro e di vino; un dio lo sottrarrà, una forza misteriosa lo consumerà o lo divorerà. Non sarà dunque la natura quella che regolerà la morte e la nascita di tutti gli esseri, ma ci sarà qualcosa che o sorgerà dal nulla o cadrà improvvisamente nel nulla. Quale filosofo della natura ha mai detto questo? Lo dicono gli arùspici: a costoro, dunque, credi che si debba prestar fede più che ai filosofi della natura? |
Deinceps, ut erat propositum, de beneficentia ac de liberalitate dicatur, qua quidem nihil est naturae hominis accommodatius, sed habet multas cautiones. Videndum est enim, primum ne obsit benignitas et iis ipsis, quibus benigne videbitur fieri, et ceteris, deinde ne maior benignitas sit, quam facultates, tum ut pro dignitate cuique tribuatur; id enim est iustitiae fundamentum, ad quam haec referenda sunt omnia. Nam et qui gratificantur cuipiam, quod obsit illi, cui prodesse velle videantur, non benefici neque liberales, sed perniciosi assentatores iudicandi sunt, et qui aliis nocent, ut in alios liberales sint, in eadem sunt iniustitia, ut si in suam rem aliena convertant. | Parlerò, ora, come mi ero proposto, della beneficenza e della generosità, che è senza dubbio la virtù più consona alla natura umana, ma richiede non poche cautele. Bisogna, anzitutto, badare che la generosità non danneggi o la persona che si vuol beneficare, o gli altri; inoltre, che la generosità non sia superiore alle nostre forze; infine, che si doni a ciascuno secondo il suo merito: questo è il vero fondamento della giustizia, che deve caratterizzare sempre ogni precetto. In verità, quelli che fanno un favore che si risolve in danno per colui al quale essi, in apparenza, vogliono giovare, non meritano il nome di benefattori o di generosi bensì di malefici adulatori; e quelli che tolgono agli uni per esser generosi con gli altri, commettono la stessa ingiustizia di chi, si appropria dei beni altrui. |
Sint igitur astrologorum percepta huius modi: 'Si quis (verbi causa) oriente Canicula natus est, is in mari non morietur.' Vigila, Chrysippe, ne tuam causam, in qua tibi cum Diodoro, valente dialectico, magna luctatio est, deseras. Si enim est verum, quod ita conectitur: 'Si quis oriente Canicula natus est, in mari non morietur', illud quoque verum est: 'Si Fabius oriente Canicula natus est, Fabius in mari non morietur.' Pugnant igitur haec inter se, Fabium oriente Canicula natum esse, et Fabium in mari moriturum; et quoniam certum in Fabio ponitur, natum esse eum Canicula oriente, haec quoque pugnant, et esse Fabium, et in mari esse moriturum.Ergo haec quoque coniunctio est ex repugnantibus: 'Et est Fabius, et in mari Fabius morietur', quod, ut propositum est, ne fieri quidem potest. Ergo illud: 'Morietur in mari Fabius' ex eo genere est, quod fieri non potest. Omne ergo, quod falsum dicitur in futuro, id fieri non potest. | Poniamo che le verità di esperienza degli astrologhi siano del seguente tenore: "Se una persona è nata, per esempio, al sorgere della Canicola, non morirà in mare". Sta' in guardia, Crisippo, se non vuoi arrenderti nella contesa che ti vede opposto, in serrato confronto, a Diodoro, sottile dialettico. Se risulta vera la deduzione che così si pone: "Se una persona è nata al sorgere della Canicola, non morirà in mare", è vero anche: "Se Fabio è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare". Dire che Fabio è nato al sorgere della Canicola e che Fabio morirà in mare, risulta in contraddizione; e siccome, per quanto riguarda Fabio, è dato come certo che sia nato al sorgere della Canicola, anche la seguente affermazione è contraddittoria: Fabio esiste e morirà in mare. Ne consegue che anche tale relazione è composta da membri in reciproco contrasto: "Fabio esiste e Fabio morirà in mare". Il che, secondo quanto si è posto come premessa, non può neppure accadere. L'affermazione "Fabio morirà in mare" rientra, quindi, nel novero degli eventi impossibili. Tutto ciò che è infatti definito falso nel futuro, è impossibile. |
Haec igitur omnia, cum quaerimus quid deceat, complecti animo et cogitatione debemus; in primis autem constituendum est, quos nos et quales esse velimus et in quo genere vitae, quae deliberatio est omnium difficillima. Ineunte enim adulescentia, cum est maxima inbecillitas consilii, tum id sibi quisque genus aetatis degendae constituit, quod maxime adamavit. Itaque ante implicatur aliquo certo genere cursuque vivendi, quam potuit, quod optimum esset, iudicare. | Ora, quando noi cerchiamo che cosa sia il decoro, dobbiamo abbracciare con la mente tutte queste considerazioni; ma in primo luogo dobbiamo stabilire chi e quali vogliamo essere, e qual genere di vita vogliamo seguire deliberazione questa che è la più difficile fra tutte. Perché, entrando nella giovinezza, quando più debole è la forza del raziocinio, ciascuno si sceglie quel modo di vivere di cui si è maggiormente invaghito; per cui si trova impigliato in un certo sistema di vita, prima ancora d'aver potuto giudicare qual sia il migliore. |
Quare nec ephori Lacedaemone sine causa a Theopompo oppositi regibus, nec apud nos consulibus tribuni. Nam illud quidem ipsum quod in iure positum est habet consul, ut ei reliqui magistratus omnes pareant, excepto tribuno, qui post exstitit ne id quod fuerat esset. Hoc enim primum minuit consulare ius, quod exstitit ipse qui eo non teneretur, deinde quod attulit auxilium reliquis non modo magistratibus, sed etiam privatis consuli non parentibus. | Perciò non a caso a Sparta Teopompo contrappose ai re gli efori, e noi i tribuni ai consoli. Infatti il console ha appunto quello che gli è riconosciuto di diritto, la facoltà di farsi obbedire da tutti gli altri magistrati ad eccezione del tribuno, il quale venne istituito in un secondo tempo affinché non vi fossero più quegli inconvenienti che si erano verificati in passato. E questo evento, in primo luogo, la nascita di una magistratura non soggetta ad esso, sminuì il potere consolare, e secondariamente il fatto che essa recò appoggio non soltanto agli altri magistrati, ma anche ai privati che non obbedissero al console. |
Sed hoc loco primum videtur insitiva quadam disciplina doctior facta esse civitas. Influxit enim non tenuis quidam e Graecia rivulus in hanc urbem sed abundantissimus amnis illarum disciplinarum et artium. Fuisse enim quendam ferunt Demaratum Corinthium, et honore et auctoritate et fortunis facile civitatis suae principem; qui cum Corinthiorum tyrannum Cypselum ferre non potuisset, fugisse cum magna pecunia dicitur ac se contulisse Tarquinios, in urbem Etruriae florentissimam.Cumque audiret dominationem Cypseli confirmari, defugit patriam vir liberi ac fortis, et adscitus est civis a Tarquiniensibus atque in ea civitate domicilium et sedes collocavit. Ubi cum de matre familias Tarquiniensi duo filios procreavisset, omnibus eos artibus ad Grecorum disciplinam eru(divit). | Ma a questo punto si vede per la prima volta che una qualche cultura straniera rese più dotto il complesso dei cittadini. Fluì infatti dalla Grecia non un tenue ruscello, ma un copiosissimo fiume di conoscenze e di arti. Infatti raccontano che ci fu un certo Demarato di Corinto, il più ragguardevole della sua città sia per onore sia per autorità sia per ricchezza; e, non avendo potuto sopportare Cipselo tiranno di Corinto, si dice che fuggì con una grande somma di denaro e che si recò a Tarquinia, la città più fiorente dell’Etruria. E quando sentì dire che la tirannide di Cipselo era consolidata, da uomo libero e forte rinunciò alla patria e come cittadino fu accolto dai tarquiniesi e collocò l’abitazione e la sede in quella città. E qui, avendo procreato due figli da una matrona di Tarquinia, educò loro in tutte le arti secondo il costume dei greci. |
Loquor autem de communibus amicitiis; nam in sapientibus viris perfectisque nihil potest esse tale. Damonem et Phintiam Pythagoreos ferunt hoc animo inter se fuisse, ut, cum eorum alteri Dionysius tyrannus diem necis destinavisset et is, qui morti addictus esset, paucos sibi dies commendandorum suorum causa postulavisset, vas factus est alter eius sistendi, ut si ille non revertisset, moriendum esset ipsi. Qui cum ad diem se recepisset, admiratus eorum fidem tyrannus petivit, ut se ad amicitiam tertium adscriberent. | Parlo delle amicizie comuni; tra gli uomini saggi e perfetti non può esserci, nulla di simile. Si dice che i Pitagorici Damone e Finzia furono talmente legati tra di loro che, avendo il tiranno Dionisio fissato il giorno dell' esecuzione per uno di essi, e avendo il condannato a morte chiesto pochi giorni per affidare i suoi alle cure di qualcuno, l'altro si fece garante della comparizione dell'amico, con la condizione che, se questi non fosse ritornato, egli sarebbe stato ucciso; l'amico tornò il giorno stabilito, e Dionisio, pieno d'ammirazione per la loro lealtà, chiese d'essere ammesso nella loro amicizia come terzo. |
Iam de artificiis et quaestibus, qui liberales habendi, qui sordidi sint, haec fere accepimus. Primum improbantur ii quaestus, qui in odia hominum incurrunt, ut portitorum, ut feneratorum. Illiberales autem et sordidi quaestus mercennariorum omnium, quorum operae, non quorum artes emuntur; est enim in illis ipsa merces auctoramentum servitutis. Sordidi etiam putandi, qui mercantur a mercatoribus, quod statim vendant; nihil enim proficiant, nisi admodum mentiantur; nec vero est quicquam turpius vanitate.Opificesque omnes in sordida arte versantur; nec enim quicquam ingenuum habere potest officina. Minimeque artes eae probandae, quae ministrae sunt voluptatum:Cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores,ut ait Terentius; adde huc, si placet, unguentarios, saltatores, totumque ludum talarium. | Parliamo, infine, delle professioni e dei guadagni. Quali di essi sono da reputarsi nobili e quali ignobili? Ecco, all'incirca, quanto la tradizione ci insegna. Anzitutto, si disapprovano quei guadagni che suscitano l'odio della gente, come quelli degli esattori e degli usurai. Ignobili e abietti, poi, sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono, non l'opera della mente, ma il lavoro del braccio: in essi la mercede è per se stessa il prezzo della loro servitù. Abietti sono da reputarsi anche coloro che acquistano dai grossi mercanti cose da rivender subito al minuto: costoro non farebbero alcun guadagno se non dicessero tante bugie; e il mentire è la più grande vergogna del mondo. Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c'è ombra di nobiltà in una bottega. Ancora più in basso sono quei mestieri che servono al piacere:Pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatoriper dirla con Terenzio; aggiungi pure, se non ti dispiace, i profumieri, i ballerini e tutta la masnada dei mimi e delle mime. |
Si quis hunc statuit esse oratorem, qui tantummodo in iure aut in iudiciis possit autapud populum aut in senatu copiose loqui, tamen huic ipsi multa tribuat et concedat necesse est; neque enim sine multā pertractatione omnium rerum publicarum neque sine legum, morum, iuris scientiā neque naturā hominum incognita ac moribus in his ipsis rebus satis callide versari et perite potest; qui autem haec cognoverit, sine quibus ne illa quidem minima in causis quisquam recte tueri potest, quid huic abesse poterit de maximarum rerum scientiā? Sin oratoris nihil vis esse nisi composite, ornate, copiose loqui, quaero, id ipsum qui possit adsequi sine eā scientiā, quam ei non conceditis? Dicendi enim virtus, nisi ei, qui dicet, ea quae dicet, percepta sunt, exstare non potest.Quam ob rem, si ornate locutus est, sicut et fertur et mihi videtur, physicus ille Democritus, materies illă fuit physici, de quā dixit, ornatus vero ipse verborum oratoris putandus est. | Se qualcuno crede che sia oratore solo colui che nell'istruttoria e durante il processo è capace di parlare abbondantemente davanti al popolo, o in senato, tuttavia è necessario attribuire e accordare a lui molte cose. Infatti, senza un lungo studio delle cose pubbliche e senza la conoscenza delle leggi, delle tradizioni, del diritto e senza conoscere la natura e le usanze degli uomini, non può trattarli abilmente e con perizia nei suoi stessi discorsi. Invece, colui che conosce queste cose, senza le quali non può difendere nei processi neppure le questioni più piccole, potrà astenersi dalle questioni più importanti?Se poi si dice (sottointeso si dice) che è caratteristica fondamentale dell'oratore parlare con contegno, con eleganza e con abbondanza, io chiedo come potrà egli ottenere ciò senza quella scienza che voi non gli concedete? Infatti, l'arte del dire non può emergere se a lui, che parla, non sono note le cose che dice. Perciò, se il famoso fisico Democrito parlò con eleganza come raccontano e come a me sembra, dobbiamo ammettere che quella materia di cui parlò apparteneva alla fisica, ma lo stile elegante delle parole apparteneva all'oratore. |
Etenim si attendere diligenter, existimare vere de omni hac causa volueritis, sic constituetis, iudices, nec descensurum quemquam ad hanc accusationem fuisse, cui, utrum vellet, liceret, nec, cum descendisset, quicquam habiturum spei fuisse, nisi alicuius intolerabili libidine et nimis acerbo odio niteretur. Sed ego Atratino, humanissimo atque optimo adulescenti meo necessario, ignosco, qui habet excusationem vel pietatis vel necessitatis vel aetatis.Si voluit accusare, pietati tribuo, si iussus est, necessitati, si speravit aliquid, pueritiae. Ceteris non modo nihil ignoscendum, sed etiam acriter est resistendum. | E infatti se avrete voluto considerare diligentemente, apprezzare davvero sotto ogni punto di vista questa causa, così decreterete, o giudici, che nè qualcuno, a cui fosse stato consentito, se mai avesse voluto, si sarebbe abbassato a questa accusa né, quando l’avesse lanciata, avrebbe avuto alcuna speranza se non si fosse affidato all’intollerabile libidine di qualcuno e al troppo acerbo odio. Ma io perdono Atratino, umanissimo ed assai valido giovane mio amico, il quale ha come scusante o la reverenza, o la necessità, o l’età. Se ha voluto accusare, l'ascrivo alla benevolenza, se è stato comandato, alla necessità, se ha sperato qualcosa, alla fanciullezza. Contro gli altri, non solo nessun perdono, ma anche si deve resistere alacremente. |
Tum Brutus: quam hoc idem in nostris contingere intellego quod in Graecis, ut omnes fere Stoici prudentissumi in disserendo sint et id arte faciant sintque architecti paene verborum, idem traducti a disputando ad dicendum inopes reperiantur. unum excipio Catonem, in quo perfectissumo Stoico summam eloquentiam non desiderem, quam exiguam in Fannio, ne in Rutilio quidem magnam, in Tuberone nullam video fuisse. | Allora Bruto: "Vedo bene che ai nostri connazionali capita lo stesso che ai greci: quasi tutti gli stoici sono abilissimi nel ragionamento, che conducono a regola d'arte; sono, per così dire, architetti delle parole. Ma quando dall'argomentare devono passare a parlare, si rivelano carenti. Faccio eccezione per il solo Catone: in lui, che è stoico compiutissimo, io non avverto la mancanza di una eccelsa eloquenza; mentre vedo che essa fu scarsa in Fannio, non cospicua neppure in Rutilio, e addirittura inesistente in Tuberone". |
Nec habitus est tamen pater ipse Catulus princeps in numero patronorum; sed erat talis ut, cum quosdam audires qui tum erant praestantes, videretur esse inferior, cum autem ipsum audires sine comparatione, non modo contentus esses, sed melius non quaereres. | E neppure lo stesso Catulo padre occupava un ruolo di primo piano tra i difensori; ma era tale che, se ne ascoltavi di quelli allora rinomati, appariva inferiore; se invece ascoltavi lui solo, senza paragoni, non soltanto ne restavi soddisfatto, ma non cercavi di meglio. |
Quo etiam maiore sunt isti odio supplicioque digni, qui non solum vestris domiciliis atque tectis sed etiam deorum templis atque delubris sunt funestos ac nefarios ignes inferre conati. Quibus ego si me restitisse dicam, nimium mihi sumam et non sim ferendus; ille, ille Iuppiter restitit; ille Capitolium, ille haec templa, ille cunctam urbem, ille vos omnis salvos esse voluit. Dis ego inmortalibus ducibus hanc mentem, Quirites, voluntatemque suscepi atque ad haec tanta indicia perveni.Iam vero [illa Allobrogum sollicitatio, iam] ab Lentulo ceterisque domesticis hostibus tam dementer tantae res creditae et ignotis et barbaris commissaeque litterae numquam essent profecto, nisi ab dis inmortalibus huic tantae audaciae consilium esset ereptum. Quid vero? ut homines Galli ex civitate male pacata, quae gens una restat quae bellum populo Romano facere et posse et non nolle videatur, spem imperii ac rerum maxumarum ultro sibi a patriciis hominibus oblatam neglegerent vestramque salutem suis opibus anteponerent, id non divinitus esse factum putatis, praesertim qui nos non pugnando, sed tacendo superare potuerint? | Ecco perché meritano ancor più l'odio e la morte questi individui che non solo hanno cercato di appiccare fiamme empie e funeste alle vostre case, alle vostre abitazioni, ma anche ai templi, ai santuari degli dèi. Se dicessi di averli fermati io, sarei presuntuoso, atteggiamento imperdonabile. È stato Giove a fermarli, lui solo! Giove ha voluto salvare il Campidoglio, i templi, la città intera, voi tutti! Guidato dagli dèi immortali, io mi sono limitato a prendere decisioni e sono arrivato a disporre di prove schiaccianti. In verità, la corruzione degli Allobrogi non sarebbe stata tentata, né Lentulo e gli altri nemici dello Stato avrebbero dato con tanta sconsideratezza informazioni della massima importanza a degli sconosciuti, a dei barbari, e consegnato loro delle lettere, se gli dèi immortali non avessero privato del senno uomini così temerari. Che dire di più? Se dei Galli appartenenti a un popolo non del tutto sottomesso (l'unico rimasto che è forse in grado di dichiarare guerra ai Romani e non sembra escluderlo) hanno rinunciato a sperare nell'indipendenza e in altri considerevoli vantaggi offerti loro dai patrizi e hanno anteposto la vostra salvezza ai loro interessi, ebbene, non credete forse che questo sia avvenuto per volontà divina, quando invece avrebbero potuto vincerci senza combattere, solo tacendo? |
Democritus tamen non inscite nugatur, ut physicus, quo genere nihil adrogantius:"quod est ante pedes nemo spectat, caeli scrutantur plagas".Verum is tamen habitu extorum et colore declarari censet haec dumtaxat: pabuli genus et earum rerum, quas terra procreet, vel ubertatem vel tenuitatem; salubritatem etiam aut pestilentiam extis significari putat. 0 mortalem beatum, cui certo scio ludum numquam defuisse! Huncine hominem tantis delectatum esse nugis, ut non videret tum futurum id veri simile, si omnium pecudum exta eodem temporem eundem habitum se coloremque converterent? Sed si eadem hora aliae pecudis iecur nitidum atque plenum est, aliae horridum et exile, quid est quod declarari possit habitu extorum et colore? An hoc eiusdem modi est quale Pherecydeum illud quod est a te dictum, qui, cum aquam ex puteo vidisset haustam, terrae motum dixit futurum? Parum, credo, impudenter, quod, cum factus est motus, dicere audent quae vis id effecerit; etiamne futurum esse aquae iugis colore praesentiunt? Multa istius modi dicuntur in scholis, sed credere omnia vide ne non sit necesse.Verum sint sane ista Democritea vera; quando ea nos extis exquirimus? Aut quando aliquid eius modi ab haruspice inspectis extis audivimus? Ab aqua aut ab igni pericula monent; tum hereditates, tum damna denuntiant; fissum familiare et vitale tractant; caput iecoris ex omni parte diligentissume considerant; si vero id non est inventum, nihil putant accidere potuisse tristius. | Democrito, tuttavia, molto spiritosamente vuol prenderci in giro, da filosofo della natura quale è; nulla di più arrogante di questa gente:"Nessuno bada a ciò che ha davanti ai piedi; scrutano le plaghe del cielo!"E intanto, anche Democrito ritiene che l'aspetto e il colore delle viscere ci indichino almeno la qualità di un pascolo e l'abbondanza o la scarsità di un raccolto; crede anche che le viscere denotino la salubrità dell'aria o il sopraggiungere di una pestilenza. Fortunato mortale, a cui, ne sono sicuro, non mancò mai la voglia di scherzare! È mai possibile che un tale uomo si sia divertito a spacciare sciocchezze così grosse, fino al punto da non vedere che quella asserzione sarebbe stata verosimile soltanto se le viscere di tutti gli animali avessero assunto contemporaneamente lo stesso aspetto e lo stesso colore? Ma se nello stesso momento il fegato di un animale è nitido e tondeggiante, quello di un altro è grinzoso e minuscolo, che cosa si può prevedere in base all'aspetto e al colore delle viscere? O forse questo modo di divinazione è analogo a quello di Ferecide da te ricordato, il quale, avendo osservato un po' d'acqua attinta da un pozzo, disse che vi sarebbe stato un terremoto? È ancora troppo poco sfacciato, credo, il comportamento di quelli che, a terremoto già avvenuto, osano dire quale forza naturale lo abbia provocato; costoro prevedono addirittura un terremoto futuro, in base al colore di una sorgente d'acqua perenne? Molte cose di questo genere si insegnano nelle scuole, ma ti consiglierei di riflettere se sia il caso di credere a tutte. Ma ammettiamo pure che quelle asserzioni di Democrito siano vere: quando mai noi investighiamo quelle cose mediante le viscere? o quando abbiamo sentito dire che un presagio di quel genere sia stato annunciato da un arùspice dopo aver osservato le viscere? Essi ammoniscono su pericoli derivanti dall'acqua o dal fuoco; predicono talvolta delle eredità, talaltra dei dissesti finanziari; esaminano le fenditure "familiari" e "vitali" delle viscere; osservano da ogni parte con la massima attenzione la "testa" del fegato; se, poi, notano che essa è mancante, ritengono che nulla possa accadere di più nefasto. |
O praeclaram sapientiam! Solem enim e mundo tollere videntur, qui amicitiam e vita tollunt, qua nihil a dis immortalibus melius habemus, nihil iucundius. [...] | Oh nobile sapienza! Sembrano privare il mondo del sole coloro che privano la vita dell'amicizia, di cui non abbiamo avuto niente di meglio dagli dei immortali, niente di più dolce. [...] |
Rite igitur veteres, quorum monumenta tenetisqui populos urbisque modo ac virtute regebant,rite etiam vestri, quorum pietasque fidesquepraestitit et longe vicit sapientia cunctos,praecipue colucre vigeiiti numine divos.Haec adeo penitus cura videre sagaci,otia qui studiis laeti tenuere decoris,inque Academia umbrifera nitidoque Lyceofuderunt claras fecundi pectoris artis.E quibus ereptum primo iam a flore iuventaete patria in media virtutum mole locavit.Tu tamen anxiferas curas requiete relaxans,quod patriae vacat, his studiis nobisque sacrasti."Tu igitur animum poteris inducere contra ea quae a me disputantur de divinatione, dicere, qui et gesseris ea, quae gessisti, et ea quae pronuntiavi, accuratissume scripseris? Quid quaeris, Carneades, cur haec ita fiant aut qua arte perspici possint? Nescire me fateor, evenire autem ipsum dico videre."Casu," inquis. Itane vero? Quicquam potest casu esse factum, quod omnes habet in se numeros veritatis? Quattuor tali iacti casu Venerium efficiunt; num etiam centum Venerios, si quadringentos talos ieceris, casu futuros putas? Adspersa temere pigmenta in tabula oris liniamenta efficere possunt; num etiam Veneris Coae pulchritudinem effici posse adspersione fortuita putas? Sus rostro si humi A litteram impresserit, num propterea suspicari poteris Andromacham Enni ab ea posse describi? Fingebat Carneades in Chiorum lapicidinis saxo diffisso caput exstitisse Panisci; credo, aliquam non dissimilem figuram, sed certe non talem, ut eam factam a Scopa diceres. Sic enim se profecto res habet, ut numquam perfecte veritatem casus imitetur. | A ragione, dunque, gli antichi, dei quali voi custodite gli insegnamenti, e che con moderazione e virtù governavano popoli e città, - a ragione anche i vostri compatrioti, la cui religiosità e il cui ossequio ai numi superò tutti e di gran lunga li vinse la loro sapienza, onorarono più che mai gli dèi insigni per potenza. Questi insegnamenti, d'altronde, li intesero a fondo, con indagine sagace, coloro che lieti trascorsero in nobili studi il tempo libero da fatiche quotidiane, e che, nell'ombrosa Accademia e nel luminoso Liceo, diffusero le splendide dottrine del loro ingegno fecondo. Strappato ad essi fin dal primo fiorire della giovinezza, tu fosti collocato dalla patria in mezzo al faticoso mondo delle virtù attive. E tuttavia, dando un po' di tregua alle ansiose preoccupazioni della vita civile, hai consacrato a quegli studi e a noi il tempo che la patria ti lascia libero."Tu dunque, che hai fatto quel che hai fatto e hai scritto con la massima esattezza i versi che or ora ho recitato, hai il coraggio di opporti a ciò che io dico sulla divinazione? Perché stai a domandare, Carneade, per qual motivo queste cose avvengano o con quale arte possano essere comprese? Io confesso di non saperlo, ma affermo che tu stesso devi riconoscere che avvengono. "Per caso", dici tu. Ma davvero può accadere per caso ciò che ha in sé tutti i caratteri della verità? Quattro dadi, lanciati a caso, dànno il "colpo di Venere"; ma se lancerai quattrocento dadi, e otterrai il colpo di Venere per tutte e cento le volte, crederai che ciò sia dovuto al caso? Dei colori schizzati a caso su una tavola possono produrre i lineamenti di un volto; ma crederai che schizzando colori a caso si possa ottenere la bellezza della Venere di Coo? Se una scrofa col suo grifo avrà tracciato sul terreno la lettera A, la crederai per questo capace di scrivere l'Andromaca di Ennio? Carneade immaginava che nelle cave di pietra di Chio, in seguito alla spaccatura di un macigno, fosse venuta in luce per caso la testa di un piccolo Pan: sono disposto a credere che si trattasse di una qualche forma somigliante, ma certamente non tale da potere essere giudicata opera di Scopa. Le cose, non c'è dubbio, stanno così: il caso non può mai imitare perfettamente la verità. |
hoc tamen interest, quod volgus interdum non probandum oratorem probat, sed probat sine comparatione; cum a mediocri aut etiam malo delectatur, eo est contentus; esse melius non sentit, illud quod est qualecumque est probat. tenet enim aures vel medio cris orator, sit modo aliquid in eo; nec res ulla plus apud animos hominum quam ordo et ornatus valet. | Vi è tuttavia questa differenza: il volgo concede talora la sua approvazione a un oratore che non la merita, ma la concede senza far confronti; se un oratore mediocre o anche cattivo gli fa provar diletto, si accontenta di quello; non si rende conto che c'è di meglio, e approva, quale che sia, quel che sente lì per lì. Infatti anche un oratore modesto riesce a far presa, purché abbia qualcosa di buono; e niente ha più potere sugli animi della gente che una disposizione ordinata e uno stile ben adorno. |
Venit tempus, Quirites, serius omnino, quam dignum populo Romano fuit, sed tamen ita maturum, ut differri iam hora non possit. Fuit aliquis fatalis casus, ut ita dicam, quem tulimus, quoquo modo ferendum fuit; nunc si quis erit, erit voluntarius. Populum Romanum servire fas non est, quem di immortales omnibus gentibus imperare voluerunt. Res in extremum est adducta discrimen; de libertate decernitur. Aut vincatis oportet, Quirites, quod profecto et pietate vestra et tanta concordia consequemini, aut quidvis potius quam serviatis.Aliae nationes servitutem pati possunt, populi Romani est propria libertas. | Viene il tempo, Quiriti, senza dubbio più tardi di quanto fu degno del popolo romano, ma tuttavia così adatto che non si può ormai differire l'ora. Ci fu qualche caso fatale, come così dirò, che abbiamo sopportato, in qualunque modo si dovesse sopportare; ora se ce ne sarà qualcuno, sarà volontario. Non è lecito servire per il popolo romano, che gli dei immortali vollero che comandasse a tutti i popoli. La situazione è giunta all'estremo pericolo; si decide della libertà. O è necessario che vinciate, Quiriti, ciò che di certo raggiungerete sia con la vostra devozione sia con tanta concordia, oppure qualsiasi altra cosa piuttosto che la schiavitù. Altri popoli possono tollerare la schiavitù, (ma) la libertà è un possesso inalienabile del popolo Romano. |
Sed quoque modo se illud habet, haec querela, Tubero, vestra quid valet: "Recepti in provinciam non sumus"? Quid, si essetis? Caesarine eam tradituri fuistis, an contra Caesarem retenturi? VIII. Vide quid licentiae nobis, Caesar, tua liberalitas det vel potius audaciae. Si responderit Tubero Africam, quo senatus eum sorsque miserat, tibi patrem suum traditurum fuisse, non dubitabo apud ipsum te, cuius id eum facere interfuit, gravissimis verbis eius consilium reprehendere.Non enim si tibi ea res grata fuisset, esset etiam adprobata. | Ma in qualunque modo stia quella questione, che significato ha, o Tuberone, questa vostra lagnanza? "Non siamo stati accolti nella provincia". Che avreste fatto, se lo foste stati? L'avreste consegnata a Cesare o l'avreste tenuta contro Cesare? Sta' a vedere, o Cesare, quale ardire o piuttosto quale audacia ci conferisce la tua generosità. Se Tuberone risponderà che suo padre avrebbe consegnato a te l'Africa, dove l'ordine del senato e la sorte l'avevano mandato, io dinanzi a te, cui quel suo gesto sarebbe riuscito molto utile, non esiterò a rimproverare il suo proposito con espressioni molto forti. Giacché, se è vero che quell'azione ti sarebbe tornata gradita, non avrebbe però riscosso anche la tua approvazione. |
Duobus igitur summis Crasso et Antonio L. Philippus proxumus accedebat, sed longo intervallo tamen proxumus. itaque eum, etsi nemo intercedebat qui se illi anteferret, neque secundum tamen neque tertium dixerim. nec enim in quadrigis eum secundum nume raverim aut tertium qui vix e carceribus exierit, cum palmam iam primus acceperit, nec in oratoribus qui tantum absit a primo, vix ut in eodem curriculo esse videatur. sed tamen erant ea in Philippo quae, qui sine comparatione illorum spectaret, satis mag na diceret: summa libertas in oratione, multae facetiae; satis creber in reperiendis, solutus in explicandis sententiis; erat etiam in primis, ut temporibus illis, Graecis doctrinis institutus, in altercando cum aliquo aculeo et maledicto facetus.aetatem ageret Athenis optumeque loqueretur omnium. sic, ut opinor, in nostris est quidam urbanorum sicut illic Atticorum sonus. sed domum redeamus, id est ad nostros revortamur. | Ai due sommi, Crasso e Antonio, si accostava, più da vicino che ogni altro, Lucio Filippo: e tuttavia, sempre a grande distanza. Per questo, anche se in mezzo non vi era alcuno che lo sopravanzasse, non lo direi tuttavia né secondo né terzo. Infatti nelle corse di quadrighe non conterei come secondo o terzo uno che a stento fosse uscito dai cancelli, quando il primo avesse già ottenuto la palma, e così nemmeno tra gli oratori uno che fosse tanto distante dal primo, quasi da non parer di correre sulla stessa pista. Vi erano tuttavia in Filippo qualità che, a considerarle senza far paragoni con quegli altri,"' si potevano dire grandi abbastanza: somma libertà di parola, molta arguzia; sufficiente ricchezza d'inventiva, e scioltezza nello sviluppare le idee; per i suoi tempi, era anche tra i meglio preparati nelle dottrine greche; e nel contraddittorio sapeva essere faceto, non senza qualche stoccata e contumelia. |
Quinque igitur rationibus propositis officii persequendi, quarum duae ad decus honestatemque pertinerent, duae ad commoda vitae, copias, opes, facultates, quinta ad eligendi iudicium, si quando ea, quae dixi, pugnare inter se viderentur, honestatis pars confecta est, quam quidem tibi cupio esse notissimam. Hoc autem de quo nunc agimus, id ipsum est, quod utile appellatur. In quo verbo lapsa consuetudo deflexit de via sensimque eo deducta est, ut honestatem ab utilitate secernens constitueret esse honestum aliquid, quod utile non esset, et utile, quod non honestum, qua nulla pernicies maior hominum vitae potuit afferri. | Sono cinque, dunque, i principi f issati per la ricerca del dovere, dei quali due riguardano il conveniente e l'onesto, due i beni della vita, le ricchezze, il potere, le risorse, il quinto il criterio di scelta, nel caso in cui quelle norme sopra menzionate sembrino contrastare tra di loro; la parte riguardante l'onestà è terminata; proprio essa desidero che ti sia notissima. Il tema del quale ora trattiamo è quello stesso che si chiama utile; per questo termine l'uso comune, scivolando, deviò dalla retta via e a poco a poco giunse a tal punto che, dividendo nettamente l'onesto dall'utile, definì onesto ciò che non era utile e utile ciò non era onesto; nessun danno maggiore di questo poteva mai essere apportato alla vita umana. |
Scipio.Saepe numero admirari soleo cum hoc C. Laelio cum ceterarum rerum tuam excellentem, M. Cato, perfectamque sapientiam, tum vel maxime quod numquam tibi senectutem gravem esse senserim, quae plerisque senibus sic odiosa est, ut onus se Aetna gravius dicant sustinere.Cato.Rem haud sane difficilem, Scipio et Laeli, admirari videmini. Quibus enim nihil est in ipsis opis ad bene beateque vivendum, eis omnis aetas gravis est; qui autem omnia bona a se ipsi petunt, eis nihil malum potest videri quod naturae necessitas adferat.Quo in genere est in primis senectus, quam ut adipiscantur omnes optant, eandem accusant adeptam; tanta est stultitiae inconstantia atque perversitas. Obrepere aiunt eam citius, quam putassent. Primum quis coegit eos falsum putare? Qui enim citius adulescentiae senectus quam pueritiae adulescentia obrepit? Deinde qui minus gravis esset eis senectus, si octingentesimum annum agerent quam si octogesimum? Praeterita enim aetas quamvis longa cum effluxisset, nulla consolatio permulcere posset stultam senectutem. | Scipione.Spesso mi sono stupito insieme a Caio Lelio, qui con me, della tua saggezza eccellente in tutte le cose, o Marco Catone, e perfetta, ma soprattutto del fatto che non mi hai mai dato la sensazione di vivere la vecchiaia come un peso. Eppure essa risulta così odiosa alla maggior parte dei vecchi che, a sentirli, sosterrebbero un carico più pesante dell'Etna.Catone.Non è davvero un'impresa difficile, cari Scipione e Lelio, quella di cui sembrate stupirvi. Chi infatti non abbia dentro di sé risorse per vivere bene e felice subisce il peso di tutte le età; chi invece trae da se stesso ogni bene non può considerare un male quel che necessità di natura impone. La vecchiaia fa parte di queste cose più delle altre. Tutti desiderano raggiungerla, ma, una volta raggiunta, la investono di accuse: tanta è l'incoerenza e l'assurdità della stoltezza! Dicono che si insinui prima di quanto pensassero. Primo: chi li ha indotti a credere il falso? Forse che la vecchiaia subentra furtiva alla giovinezza più rapidamente di quanto la giovinezza subentri furtiva all'infanzia? Secondo: come può la vecchiaia essere per loro meno pesante se avessero ottocento anni anziché ottanta? Quando infatti gli anni passati, per lunghi che siano, sono volati via, non c'è consolazione che possa mitigare la vecchiaia degli stolti. |
Detrahere igitur alteri aliquid et hominem hominis incommodo suum commodum augere magis est contra naturam quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam cetera, quae possunt aut corpori accidere aut rebus externis. Nam principio tollit convictum humanum et societatem. Si enim sic erimus adfecti, ut propter suum quisque emolumentum spoliet aut violet alterum, disrumpi necesse est eam, quae maxime est secundum naturam, humani generis societatem. | Dunque, che un uomo sottragga qualcosa ad un altro e aumenti il proprio vantaggio con lo svantaggio di un altro è contro natura più della morte, della povertà, del dolore e di tutti gli altri mali che possono accadere al corpo o ai beni esterni: ciò infatti mina alle basi la convivenza umana e la società: [se infatti saremo così disposti da spogliare o violare un altro a causa del suo guadagno, di necessità si disgrega quella che è soprattutto secondo natura, cioè il legame tra gli uomini]. |
Dissimile totum; nam et prognosticorum causas persecuti sunt et BoÎthus Stoicus, qui est a te nominatus, et noster etiam Posidonius; et, si causae non reperiantur istarum rerum, res tamen ipsae observari animadvertique potuerunt. Nattae vero statua aut aera legum de caelo tacta quid habent observatum ac vetustum? "Pinarii Nattae nobiles; a nobilitate igitur periculum." Hoc tam callide Iuppiter cogitavit! 'Romulus lactens fulmine ictus, urbi igitur periculum ostenditur, ei quam ille condidit.' Quam scite per notas nos certiores facit Iuppiter! "At eodem tempore signum Iovis conlocabatur quo coniuratio indicabatur." Et tu scilicet mavis numine deorum id factum quam casu arbitrari; et redemptor, qui columnam illam de Cotta et de Torquato conduxerat faciendam, non inertia aut inopia tardior fuit, sed a deis immortalibus ad istam horam reservatus est! Non equidem plane despero ista esse vera, sed nescio et discere a te volo.Nam cum mihi quaedam casu viderentur sic evenire ut praedicta essent a divinantibus, dixisti multa de casu, ut Venerium iaci posse casu quattuor talis iactis, sed quadringentis centum Venerios non posse casu consistere. Primum nescio cur non possint, sed non pugno; abundas enim similibus. Habes et respersionem pigmentorum et rostrum suis et alia permulta. Idem Carneadem fingere dicis de capite Panisci; quasi non potuerit id evenire casu et non in omni marmore necesse sit inesse vel Praxitelia capita! Illa enim ipsa efficiuntur detractione, neque quicquam illuc adfertur a Praxitele; sed cum multa sunt detracta et ad liniamenta oris perventum est, tum intellegas illud, quod iam expolitum sit, intus fuisse. Potest igitur tale aliquid etiam sua sponte in lapicidinis Chiorum exstitisse. Sed sit hoc fictum; quid? In nubibus numquam animadvertisti leonis formam aut hippocentauri? Potest igitur, quod modo negabas, veritatem casus imitari. | Ma la differenza è totale. Le cause dei pronostici le hanno indagate lo stoico Boeto, da te rammentato, e anche il nostro Posidonio; e anche se le cause di questi fatti non si fossero rintracciate, i fatti in quanto tali si sono potuti osservare e registrare. Ma gli episodi della statua di Natta o delle tavole delle Leggi colpite dal fulmine che cos'hanno che sia stato osservato più volte e da gran tempo? "I Pinarii Natta sono nobili: dalla nobiltà, dunque, veniva il pericolo." Davvero ingegnoso questo presagio escogitato da Giove! "Romolo ancora lattante fu colpito dal fulmine: questo è dunque un presagio del pericolo che correva quella città che da lui fu fondata." Con quanta abilità Giove ci avverte mediante simili indizi! "Ma la statua di Giove veniva collocata nello stesso tempo in cui veniva denunciata la congiura." E tu, s'intende, preferisci credere che ciò sia accaduto per volontà degli dèi anziché per caso; e l'appaltatore che aveva ricevuto da Cotta e da Torquato l'incarico di erigere quella colonna, non fu più lento del previsto per pigrizia o per mancanza di denaro, ma fu fatto indugiare dagli dèi immortali fino a quel preciso momento! Non mi manca del tutto la speranza che cose di questo genere siano vere; ma non ne so nulla e voglio una dimostrazione da te. Siccome mi sembrava che per puro caso alcuni fatti fossero avvenuti così com'erano stati predetti dagl'indovini, tu hai parlato a lungo del caso, e hai detto, per esempio, che si può ottenere il "colpo di Venere" lanciando a caso quattro dadi, ma, su quattrocento lanci, non può capitare cento volte quel colpo. Innanzi tutto non saprei perché ciò sia impossibile, ma su questo non mi soffermo a discutere, poiché hai una collezione di esempi simili. Puoi citare i colori schizzati a caso, il grifo della scrofa, tante altre cose. Dici che Carneade ricorre anch'egli al caso quanto alla testa del piccolo Pan: come se ciò non sia potuto davvero accadere per caso, e sia necessario che in ogni blocco di marmo non siano ascose perfino teste degne di un Prassitele! Quelle sculture, difatti, si eseguono anch'esse per detrazione di pezzi di marmo, e nemmeno un Prassitele vi aggiunge alcunché; ma quando molto materiale è stato eliminato dallo scalpello e si è arrivati ai lineamenti di un volto, allora si può capire che quella statua, ormai perfettamente levigata, si trovava dentro il blocco. Dunque qualcosa del genere può essere avvenuto anche spontaneamente nelle cave di pietra di Chio. Ma ammettiamo pure che questo sia un esempio inventato: non hai mai visto nubi che avevano assunto le forme di leoni o di Ippocentauri? Dunque può accadere ciò che poco fa negavi: che il caso imiti la realtà. |
Marcus:Recte dicis, et res se sic habet. Verum philosophorum more, non veterum quidem illorum, sed eorum qui quasi officinas instruxerunt sapientiae, quae fuse olim disputabantur ac libere, ea nunc articulatim distincta dicuntur. Nec enim satis fieri censent huic loco qui nunc est in manibus, nisi separatim hoc ipsum, <a> natura esse ius, disputarint.Atticus:Et scilicet tua libertas disserendi amissa est, aut tu is es qui in disputando non tuum iudicium sequaris, sed auctoritati aliorum pareas! | Marco:Dici bene, e la cosa sta appunto così. Ma alla maniera dei filosofi, non già di quelli antichi; di coloro i quali attrezzarono quasi dei laboratori della sapienza, si trattano ora punto per punto quegli argomenti che un tempo venivano discussi senza ordine e liberamente. Né essi ritengono che si possa soddisfacentemente trattare quell'argomento, cui ora ci stiamo dedicando, senza esaminare analiticamente questo principio, che cioè il diritto sussiste per natura.Attico:Ed allora anche la tua libertà di discutere è andata perduta, o meglio, tu non segui il tuo personale giudizio nella discussione, ma obbedisci all'autorità degli altri! |
Quod si probare Caesari possemus in Africa Ligarium omnino non fuisse, si honesto et misericordi mendacio saluti civi calamitoso esse vellemus, tamen hominis non esset in tanto discrimine et periculo ciuis refellere et coarguere nostrum mendacium; et si esset alicuius, eius certe non esset qui in eadem causa et fortuna fuisset. Sed tamen aliud est errare Caesarem nolle, aliud est nolle misereri. Tum diceres: "Caesar, cave credas; fuit in Africa, tulit arma contra te!".Nunc quid dicis? "Cave ignoscas!" Haec nec hominis nec ad hominem vox est; qua qui apud te, C. Caesar, utetur, suam citius abiciet humanitatem quam extorquebit tuam. | Ché se potessimo dimostrare a Cesare che Ligario non è mai stato in Africa, se volessimo con una bugia dignitosa e pietosa favorire la salvezza di un concittadino disgraziato, sarebbe disumano; mentre un concittadino si trova in una situazione così gravemente rischiosa, opporsi alla nostra bugia e smascherarla, e se tale azione spettasse ad alcuno, non spetterebbe certo a colui che si fosse trovato dalla stessa parte e nelle stesse condizioni. Ma altro è non volere che Cesare sbagli, altro è non volere che egli sia misericordioso. Allora tu avresti detto. "Cesare, non credere: è stato in Africa, ha combattuto contro di te". Ora che dici? "Non perdonare". Questa non è parola di uomo rivolta ad uomo. Chi te la dirà, o Gaio Cesare, getterà via la propria anziché strappare a te la tua umanità. |
Tullius Terentiae suae sal.Quod nos in Italiam salvos venisse gaudes, perpetuo gaudeas velim; sed perturbati dolore animi magnisque iniuriis metuo ne id consilii ceperimus, quod non facile explicare possimus. Qaure, quantum potes, adiuva; quid autem possis, mihi in mentem non venit. In viam quod te des hoc tempore, nihil est: et longum est iter et non tutum et non video, quid prodesse possis, si veneris. Vale. D. pr. Non. Nov. Brundisio. | Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia.Quanto alla gioia che tu provi che io torni salvo in Italia, vorrei che tu ne provi per lungo tempo. Ma temo che, sconvolto da un intimo dolore e da gravi offese, ho preso una tale decisione che non posso portare a termine facilmente. Perciò, aiuta(mi), per quanto puoi; ma come tu (possa) non mi viene in mente. Non c'è ragione che tu ti metta in viaggio in questa circostanza. Il viaggio è lungo e non sicuro; e non vedo come tu possa essere utile, se verrai. Stammi bene. Consegnata il 4 novembre da Brindisi. |
Sed distinguendum videtur quonam modo. Nam non placet Stoicis singulis iecorum fissis aut avium cantibus interesse deum (neque enim decorum est nec dis dignum nec fieri ullo pacto potest), sed ita a principio incohatum esse mundum, ut certis rebus certa signa praecurrerent, alia in extis, alia in avibus, alia in fulgoribus, alia in ostentis, alia in stellis, alia in somniantium visis, alia in furentium vocibus. Ea quibus bene percepta sunt, ii non saepe falluntur; male coniecta maleque interpretata falsa sunt non rerum vitio, sed interpretum inscientia.Hoc autem posito atque concesso, esse quandam vim divinam hominum vitam continentem, non difficile est, quae fieri certe videmus, ea qua ratione fiant suspicari. Nam et ad hostiam deligendam potest dux esse vis quaedam sentiens, quae est toto confusa mundo, et tum ipsum, cum immolare velis, extorum fieri mutatio potest, ut aut absit aliquid aut supersit; parvis enim momentis multa natura aut adfingit aut mutat aut detrahit. Quod ne dubitare possimus, maximo est argumento quod paulo ante interitum Caesaris contigit. Qui cum immolaret illo die quo primum in sella aurea sedit et cum purpurea veste processit, in extis bovis opimi cor non fuit. Num igitur censes ullum animal, quod sanguinem habeat, sine corde esse posse? Qua ille rei [non est] novitate perculsus, cum Spurinna diceret timendum esse ne et consilium et vita deficeret: earum enim rerum utramque a corde proficisci. Postero die caput in iecore non fuit. Quae quidem illi portendebantur a dis irnmortalibus ut videret interitum, non ut caveret. Cum igitur eae partes in extis non reperiuntur, sine quibus victuma illa vivere nequisset, intellegendum est in ipso immolationis tempore eas partes, quae absint, interisse. | Ma bisogna precisare in che modo ciò avvenga. Gli stoici non ammettono che la divinità si occupi delle singole fenditure del fegato delle tante vittime o dei singoli canti degli uccelli (ciò non sarebbe decoroso né degno degli dèi né possibile in alcun modo), ma ritengono che il mondo sia stato formato fin dall'inizio in modo che determinati eventi fossero precorsi da determinati segni, alcuni nelle viscere, altri nel volo degli uccelli, altri nei fulmini, altri nei prodigi, altri negli astri, altri nelle visioni in sogno, altri ancora nelle grida degli invasati. Coloro che sanno comprendere bene questi segni, di rado s'ingannano; le profezie e le interpretazioni compiute inesattamente vanno a vuoto non per difetto della realtà, ma per imperizia degli interpreti. Posto e concesso questo principio, che esiste una forza divina la quale dà regola alla vita umana, non è difficile supporre in che modo avvengano quelle cose che, come vediamo, avvengono senza dubbio. Per esempio, a scegliere una vittima può esserci guida un intelletto divino che pervade tutto il mondo; e proprio nell'istante in cui stai per immolare la vittima può avvenire nelle sue viscere un mutamento, in modo che qualcosa manchi o sia di troppo: bastano alla natura pochi istanti per aggiungere o mutare o togliere qualcosa. A impedirci di dubitare di ciò, una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della morte di Cesare. Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore? Dalla stranezza di questo fatto egli ‹non fu› sbigottito, sebbene Spurinna gli dicesse che c'era da temere che egli perdesse il senno e la vita: l'uno e l'altra, infatti, hanno origine dal cuore. Il giorno dopo, in un'altra vittima non si trovò la parte superiore del fegato. Questi segni gli erano mandati dagli dèi immortali. perché prevedesse la propria morte, non perché la evitasse. Dunque, quando nelle viscere non si trovano quelle parti senza le quali l'animale destinato al sacrificio non avrebbe potuto vivere, bisogna concluderne che le parti mancanti sono scomparse nel momento stesso in cui vien compiuto il sacrificio. |
Ius enim semper est quaesitum aequabile; neque enim aliter esset ius. Id si ab uno iusto et bono viro consequebantur, erant eo contenti; cum id minus contingeret, leges sunt inventae, quae cum omnibus semper una atque eadem voce loquerentur. Ergo hoc quidem perspicuum est, eos ad imperandum deligi solitos, quorum de iustitia magna esset opinio multitudinis. Adiuncto vero, ut idem etiam prudentes haberentur, nihil erat, quod homines iis auctoribus non posse consequi se arbitrarentur.Omni igitur ratione colenda et retinenda iustitia est, cum ipsa per sese (nam aliter iustitia non esset), tum propter amplificationem honoris et gloriae. Sed ut pecuniae non quaerendae solum ratio est, verum etiam collocandae, quae perpetuos sumptus suppeditet, nec solum necessarios, sed etiam liberales, sic gloria et quaerenda et collocanda ratione est. | Si è sempre ricercato un diritto equo, che altrimenti non sarebbe un diritto. Se il popolo lo conseguiva da un solo uomo, giusto ed onesto, se ne stava tranquillo. Ma poiché questo accadeva raramente, si elaboravano leggi che parlassero sempre con una sola e medesima voce a tutti. È chiaro che di solito si sceglievano per il governo uomini la cui fama di giustizia fosse ben grande presso la moltitudine; se vi si aggiungeva il fatto che essi godevano anche fama di uomini prudenti, non vi era niente che gli uomini non pensassero di poter conseguire sotto la loro guida. La giustizia è da conservare e da rispettare con ogni mezzo, sia per essa stessa - altrimenti non sarebbe giustizia - che per la grandezza del nostro onore e della nostra gloria. Ma come c'è un mezzo non solo per cercar denaro, ma anche per investirlo in modo da coprire le spese continue (non solo quelle necessarie, ma anche quelle di lusso), così la gloria si deve ricercare e sfruttare in modo ragionevole. |
Quid enim potest esse tam flexibile, tam devium quam animus eius qui ad alterius non modo sensum ac voluntatem sed etiam vultum atque nutum convertitur?Negat quis, nego; ait, aio; postremo imperavi egomet mihiOmnia adsentari,ut ait idem Terentius, sed ille in Gnathonis persona, quod amici genus adhibere omnino levitatis est. | Esiste qualcosa di tanto flessibile, di tanto sviato quanto l'anima di chi si trasforma non solo sulla base dell'umore e della volontà di un altro, ma anche della sua espressione o di un suo cenno?Se dice no, io dico no. Se dice sì, io dico sì. Insomma,mi sono imposto di esser sempre d'accordo,come afferma ancora Terenzio, ma per bocca di Gnatone. Avere un amico del genere è davvero indice di stoltezza! |
Itaque ut in fidibus musicorum aures vel minima sentiunt, sic nos, si acres ac diligentes iudices esse volumus animadversores[que] vitiorum, magna saepe intellegemus ex parvis. Ex oculorum optutu, superciliorum aut remissione aut contractione, ex maestitia, ex hilaritate, ex risu, ex locutione, ex reticentia, ex contentione vocis, ex summissione, ex ceteris similibus facile iudicabimus, quid eorum apte fiat, quid ab officio naturaque discrepet. Quo in genere non est incommodum, quale quidque eorum sit, ex aliis iudicare, ut, si quid dedeceat in illis, vitemus ipsi; fit enim nescio quomodo ut magis in aliis cernamus, quam in nobismet ipsis, si quid delinquitur.Itaque facillume corriguntur in discendo, quorum vitia imitantur emendandi causa magistri. | Ora, come nel suono della cetra, gli orecchi dei musici avvertono anche le più lievi stonature, così noi, se vogliamo essere acuti e diligenti osservatori dei vizi umani, potremo da piccoli indizi rilevare grandi difetti. Da un volger d'occhi, da uno spianare o aggrottar di ciglia, dalla tristezza, dall'allegria, dal sorriso, dal parlare, dal tacere, da un alzare o abbassar di voce, da questi e da altri simili atteggiamenti, ci sarà facile giudicare quale di essi si accordi e quale invece discordi dal dovere e dalla natura. Per questo rispetto, è molto utile osservare negli altri il particolar valore di ciascuno di quegli atti, sì che noi possiamo evitare ciò che è sconveniente: è vero, purtroppo, che, se c'è qualche mancanza o difetto, noi lo scorgiamo più acutamente negli altri che in noi stessi. Ecco perché si correggono tanto più facilmente quegli scolari, i cui maestri ne imitano i difetti, allo scopo di correggerli. |
Reliqua deinceps persequemur. | Passeremo, quindi, al resto. |
Quare pertinet quidem ad omnem honestatem hoc, quod dico, decorum, et ita pertinet, ut non recondita quadam ratione cernatur, sed sit in promptu. est enim quiddam, idque intellegitur in omni virtute, quod deceat; quod cogitatione magis a virtute potest quam re separari. ut venustas et pulchritudo corporis secerni non potest a valitudine, sic hoc, de quo loquimur, decorum totum illud quidem est cum virtute confusum, sed mente et cogitatione distinguitur. | Questo decoro, dunque, di cui sto parlando, appartiene a ogni specie di onestà, e vi appartiene in tal modo che ciò non si scorge soltanto per via di astrusi ragionamenti, ma è di piena evidenza per tutti. Difatti, in ogni virtù c'è qualche cosa che ha il carattere del decoro; ma questo decoro può separarsi dalla virtù più in teoria che in pratica. Come la grazia e la bellezza del corpo non si possono separare dalla buona salute, così questo decoro, di cui parliamo, è bensì intimamente congiunto con la virtù, eppure se ne distingue per via d'astrazione mentale. |
Ut igitur et monere et moneri proprium est verae amicitiae et alterum libere facere, non aspere, alterum patienter accipere, non repugnanter, sic habendum est nullam in amicitiis pestem esse maiorem quam adulationem, blanditiam, assentationem; quamvis enim multis nominibus est hoc vitium notandum levium hominum atque fallacium ad voluntatem loquentium omnia, nihil ad veritatem. | Se, dunque, è indice di vera amicizia ammonire ed essere ammoniti - e ammonire con sincerità, ma senza durezza, e accettare i rimproveri con pazienza, ma senza rancore -, allora dobbiamo ammettere che la peste più esiziale dell'amicizia è l'adulazione, la lusinga e il servilismo. Dàgli tutti i nomi che vuoi: sarà sempre un vizio da condannare, un vizio di chi è falso e bugiardo, di chi è sempre pronto a dire qualsiasi cosa per compiacere, ma la verità mai. |
Itaque in iis perniciosus est error qui existimant libidinum peccatorumque omnium patere in amicitia licentiam; virtutum amicitia adiutrix a natura data est, non vitiorum comes, ut, quoniam solitaria non posset virtus ad ea, quae summa sunt, pervenire, coniuncta et consociata cum altera perveniret. Quae si quos inter societas aut est aut fuit aut futura est, eorum est habendus ad summum naturae bonum optumus beatissimusque comitatus. | Ecco perché chi considera l'amicizia un terreno aperto a voglie e colpe di ogni sorta cade in un pernicioso errore. La natura, invece, ci ha dato l'amicizia come ausilio della virtù, non come complice dei vizi, e lo ha fatto perché la virtù, incapace da sola di raggiungere il bene supremo, vi pervenisse congiunta e associata a un'altra virtù. E se tra gli uomini c'è, c'è stata o ci sarà una simile unione, bisogna considerarla la migliore e la più felice alleanza sulla via del supremo bene naturale. |
Ben diverso da lui nel tribunato, e pessimo cittadino in tutto il resto della vita, Gaio Licinio Nerva non fu tuttavia privo di facondia. All'incirca nello stesso periodo, ma di età molto più avanzata, Gaio Fimbria" venne ritenuto un difensore, per così dire, di grido: era aspro, velenoso, nell'insieme troppo bollente e impetuoso; e tuttavia, per la sua scrupolosità, il suo temperamento energico e la sua condotta di vita, godeva di autorevolezza come ispiratore delle decisioni del senato; fu anche un discreto avvocato, non inesperto del diritto civile, franco nell'eloquenza come lo era per temperamento; quando eravamo ragazzi leggevamo i suoi discorsi, che ormai solo a stento si possono trovare. | Gaio Sestio Calvino, poi, fu oratore di ingegno e di parola eleganti, ma di salute malferma; sebbene, quando la podagra gli dava tregua, non mancasse di presentarsi ai processi, tuttavia ciò avveniva di rado. Così dei suoi consigli la gente si avvaleva quando voleva, del suo patrocinio, quando era possibile. Nello stesso periodo visse Marco Bruto - che recò una grave onta, Bruto, al vostro casato: con un così gran nome, e avendo avuto per padre un uomo eccellente ed espertissimo di diritto - fece quasi un mestiere del ruolo di accusatore, come Licurgo ad Atene. Non si candidò alle magistrature, ma fu un accusatore impetuoso e spiacevole: era facile vedere come un pregio naturale della stirpe fosse degenerato per la stortura di un'inclinazione corrotta. |
Multi autem Gnathonum similes cum sint loco, fortuna, fama superiores, horum est assentatio molesta, cum ad vanitatem accessit auctoritas. | Ma siccome molti sono gli Gnatoni, e spesso superiori per condizione sociale, fortuna e fama, la loro piaggeria è pericolosa, perché alla menzogna si aggiunge l'autorità. |
Quae si quando adepta erit id quod ei fuerit concupitum, tum ecferetur alacritate, ut 'nihil ei constet', quod agat, ut ille, qui 'voluptatem animi nimiam summum esse errorem' arbitratur. Eorum igitur malorum in una virtute posita sanatio est.Quid autem est non miserius solum, sed foedius etiam et deformius quam aegritudine quis adflictus debilitatus iacens? Cui miseriae proxumus est is qui adpropinquans aliquod malum metuit exanimatusque pendet animi.Quam vim mali significantes poetae impendere apud inferos saxum Tantalo faciunt: “Ob scelera animique inpotentiam et superbiloquentiam”. Ea communis poena stultitiae est; omnibus enim, quorum mens abhorret a ratione, semper aliqui talis terror impendet. | Che cosa c'è,poi, non solo di più miserevole, ma anche di più turpe e più brutto, di qualcuno afflitto, debilitato e spossato dalla tristezza? Ed è vicino a questo stato di miseria colui che, quando qualche male gli si avvicna, ha paura e, smarrito è incerto su che fare. I poeti per spiegare questa forza del male, raccontano che negli inferi una pietra incombe su Tantalo: "a causa dei misfatti, dell'impotenza dell'animo e di un parlare suberbo". Questa è la comune pena per la stoltezza; infatti per tutti quelli di cui la mente rifugge dalla ragione, sempre incombe un qualche terrore simile. |
Docuisse autem fabulam annis post xi, C. Cornelio Q. Minucio consulibus ludis Iuventatis, quos Salinator Senensi proelio voverat. in quo tantus error Acci fuit, ut his consulibus xl annos natus Ennius fuerit: quoi aequalis fuerit Livius, minor fuit aliquanto is, qui primus fabulam dedit, quam ii, qui multas docuerant ante hos consules, et Plautus et Naevius. | Stando sempre ad Accio, questa rappresentazione sarebbe invece avvenuta undici anni dopo, sotto il consolato di Gaio Cornelio e Quinto Minucio, in occasione dei ludi in onore di Gioventa, che il Salinatore aveva promesso in voto nel corso della battaglia di Sena. In questo Accio si sbagliò in pieno, tanto è vero che al tempo del consolato di costoro Ennio aveva compiuto i quarant'anni; supponiamo che Livio fosse suo coetaneo: allora colui che per primo fece rappresentare un lavoro teatrale, sarebbe stato molto più giovane di coloro che prima di questo consolato già parecchi ne avevano messi in scena, voglio dire di Plauto e di Nevio." |
Hunc tu quas conscientiae labes in animo censes habuisse, quae vulnera? Cuius autem vita ipsi potest utilis esse, cum eius vitae ea condicio sit, ut qui illam eripuerit, in maxima et gratia futurus sit et gloria? Quod si haec utilia non sunt, quae maxime videntur, quia plena sunt dedecoris ac turpitudinis, satis persuasum esse debet, nihil esse utile, quod non honestum sit. | Quale macchia della coscienza pensi che costui abbia avuto nell'animo, quali ferite? E a quale uomo può essere utile la propria vita, se la condizione di essa è tale che chi gliela sottraesse si procurerebbe grandissima gloria e riconoscenza? E se non sono utili queste cose, che sembrano esserlo massimamente, perché sono piene di ignominia e di turpitudine, bisogna essere abbastanza convinti che nulla è utile, se non è onesto. |
Atque etiam ex omni deliberatione celandi et occultandi spes opinioque removenda est; satis enim nobis, si modo in philosophia aliquid profecimus, persuasum esse debet, si omnes deos hominesque celare possimus, nihil tamen avare, nihil iniuste, nihil libidinose, nihil incontinenter esse faciendum. Hinc ille Gyges inducitur a Platone, qui cum terra discessisset magnis quibusdam imbribus, descendit in illum hiatum aeneumque equum, ut ferunt fabulae, animadvertit, cuius in lateribus fores essent; quibus apertis corpus hominis mortui vidit magnitudine invisitata anulumque aureum in digito; quem ut detraxit, ipse induit (erat autem regius pastor), tum in concilium se pastorum recepit.Ibi cum palam eius anuli ad palmam converterat, a nullo videbatur, ipse autem omnia videbat; idem rursus videbatur, cum in locum anulum inverterat. Itaque hac oportunitate anuli usus reginae stuprum intulit eaque adiutrice regem dominum interemit, sustulit quos obstare arbitrabatur, nec in his eum facinoribus quisquam potuit videre. Sic repente anuli beneficio rex exortus est Lydiae. Hunc igitur ipsum anulum si habeat sapiens, nihil plus sibi licere putet peccare, quam si non haberet; honesta enim bonis viris, non occulta quaeruntur. | Di qui trae l'origine il noto aneddoto di Gige introdotto da Platone: essendosi la terra spaccata per certe grandi piogge, Gige scese in quella voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, che aveva ai fianchi delle porte; dopo averle aperte scorse il corpo di un uomo morto di grandezza mai vista, con un anello d'oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi si recò all'adunanza dei pastori (era, intatti, pastore del re); lì, ogni volta che volgeva il castone dell'anello verso la palma della mano, diveniva invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava nuovamente visibile quando rimetteva l'anello al suo posto. E così, servendosi dei poteri concessigli dall'anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e nessuno poté scorgerlo mentre compiva questi delitti; così, tutto ad un tratto, grazie all'anello divenne re della Lidia. Se, dunque, il sapiente avesse questo stesso anello, penserebbe che non gli fosse lecito peccare più che se non l'avesse; i galantuomini, difatti, cercano l'onestà, non la segretezza. |
Atque haec omnia quasi saepimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi scientia, et arte quadam intellegendi quid quamque rem sequatur et quid sit quoique contrarium. Quomque se ad civilem societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget improbos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua praecepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis civibus, qua hortari ad decus, revocare a flagitio, consolari possit adflictos, factaque et consulta fortium et sapientium cum improborum ignominia sempiternis monumentis prodere.Quae quom tot res tantaeque sint, quae inesse in homine perspiciantur ab iis qui se ipsi velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. | E tutto ciò egli circonderà, quasi come un argine, col metodo della discussione, con la scienza del distinguere il vero ed il falso e con una certa abilità di capire che cosa consegua a ciascun fatto e che cosa sia a ciascuno contrario. E quando si accorgerà di essere nato per una società civile, riterrà non soltanto di sfruttare quel sottile modo di discutere, ma anche una forma di discorso esteso con maggiore ampiezza ed ininterrotto, con cui possa governare i popoli, stabilire le leggi, punire i malvagi, proteggere i buoni, lodare gli uomini insigni, dare ai propri concittadini in maniera adatta a convincerli avvertimenti di salute e di encomio, esortare all'onestà, trattenere dalla colpa, consolare gli afflitti, tramandare in monumenti eterni le decisioni dei forti e dei saggi e le bassezze dei disonesti. E di questi così grandi e numerosi pregi, che si scorgono esistenti nell'uomo da parte di coloro che intendono conoscere se stessi, madre ed educatrice è la sapienza.Attico:E di essa tu hai tessuto un elogio severo e rispondente al vero; ma a che mira questo discorso? |
Num locupletiores quaeris auctores? Harum enim est virtutum proprium nihil extimescere, omnia humana despicere, nihil, quod homini accidere possit intolerandum putare. Itaque quid fecit? In senatum venit, mandata euit, sententiam ne diceret, recusavit; quamdiu iure iurando hostium teneretur, non esse se senatorem. Atque illud etiam, ("O stultum hominem," dixerit quispiam, "et repugnantem utilitati suae!"), reddi captivos negavit esse utile; illos enim adulescentes esse et bonos duces, se iam confectum senectute.Cuius cum valuisset auctoritas, captivi retenti sunt, ipse Carthaginem rediit, neque eum caritas patriae retinuit nec suorum. Neque vero tum ignorabat se ad crudelissimum hostem et ad exquisita supplicia proficisci, sed ius iurandum conservandum putabat. Itaque tum, cum vigilando necabatur, erat in meliore causa, quam si domi senex captivus, periurus consularis remansisset. | Caratteristica di queste virtù è il non aver timore di nulla, disprezzare tutte le cose umane, non considerare insopportabile alcuna cosa che possa accadere ad un uomo. Che fece egli, allora? Venne in senato, espose il suo mandato, si rifiutò di esprimere il proprio parere, perché non era senatore, finché era vincolato dal giuramento fatto ai nemici. E affermò persino che non era utile restituire i prigionieri (qualcuno potrebbe dire: "O sciocco, nemico del suo utile!"); infatti quelli - affermava - erano giovani e buoni comandanti, egli era ormai sfinito dalla vecchiaia. Essendo prevalso il suo parere autorevole, i prigionieri furono trattenuti, egli tornò a Cartagine e non lo trattenne né l'amore per la patria né quello per i suoi cari. Eppure egli non ignorava, allora, di andare incontro a un nemico crudelissimo ed a supplizi raffinati, ma pensava che si dovesse mantenere il giuramento. E cosi allora, io dico, quando le veglie lo uccidevano, si trovava in una situazione migliore che se fosse rimasto a casa, vecchio prigioniero e consolare spergiuro. |
Sunt autem ea quae posui, ex quibus id quod volumus efficitur et cogitur. Iam vero permultorum exemplorum et nostra est plena res publica et omnia regna omnesque populi cunctaeque gentes, <ex> augurum praedictis multa incredibiliter vera cecidisse. Neque enim Polyidi neque Melampodis neque Mopsi neque Amphiarai neque Calchantis neque Heleni tantum nomen fuisset, neque tot nationes id ad hoc tempus retinuissent, ut Phrygum, Lycaonum, Cilicum maximeque Pisidarum, nisi vetustas ea certa esse docuisset.Nec vero Romulus noster auspicato urbem condidisset, neque Atti Navi nomen memoria floreret tam diu, nisi omnes hi multa ad veritatem admirabilia dixissent. Sed dubium non est quin haec disciplina et ars augurum evanuerit iam et vetustate et neglegentia. Ita neque illi adsentior qui hanc scientiam negat umquam in nostro collegio fuisse, neque illi qui esse etiam nunc putat. Quae mihi videtur apud maiores fuisse duplex, ut ad rei publicae tempus non numquam, ad agendi consilium saepissime pertineret. | Esiste dunque ciò che ho detto nella premessa, dal che si conclude necessariamente quanto vogliamo. Certamente la storia del nostro paese è ormai piena di moltissimi esempi, e tutti i regni ed i popoli e le nazioni (testimoniano) che molti fatti incredibili ma veri accaddero secondo le profezie degli àuguri. Non sarebbe stata così grande la fama di Poliidio né di Melampo né di Mopso né di Amfiarao né di Calcante né di Eleno, né tante nazioni avrebbero perpetuato quest'arte fino ad oggi, come quella dei Frigi, dei Licaoni, dei Cilici e soprattutto dei Pisidi, se gli antichi non avessero attestato la veridicità di quelle profezie. Nemmeno il nostro Romolo avrebbe rispettato gli auspici per fondare la città, né il nome di Atto Navio sarebbe rimasto tanto a lungo nel nostro ricordo, se tutti costoro non avessero pronunziato molti sorprendenti vaticini conformi a verità. Ma non c'è alcun dubbio che tutto il complesso di questa scienza ed arte augurale sia ormai svanita per vetustà e trascuratezza. Non sono quindi d'accordo né con chi afferma che non è mai esistita una simile scienza nel nostro collegio, né con chi la ritiene tuttora esistente. A me pare che questa scienza ed arte abbia avuto due aspetti presso i nostri antenati, sì da coinvolgere talvolta circostanze politiche, ma molto spesso da dettare norme di comportamento. |
Sed si contentio quaedam et comparatio fiat, quibus plurimum tribuendum sit officii, principes sint patria et parentes, quorum beneficiis maximis obligati sumus proximi liberi totaque domus, quae spectat in nos solos neque aliud ullum potest habere perfugium, deinceps bene convenientes propinqui, quibuscum communis etiam fortuna plerumque est. Quamobrem necessaria praesidia vitae debentur his maxime quos ante dixi, vita autem victusque communis, consilia, sermones, cohortationes, consolationes, interdum etiam obiurgationes in amicitiis vigent maxime, estque ea iucundissima amicitia, quam similitudo morum coniugavit. | Ma, se si vuole fare una gara e un confronto per sapere a chi dobbiamo rendere maggior ossequio, abbiano il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figliuoli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte. Perciò gli aiuti necessari alla vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i discorsi, le esortazioni, i conforti, talora anche i rimproveri, hanno il loro massimo valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella originata dall'affinità di carattere. |
Haec cum ita sint a Chrysippo explicata, si illi, qui negant adsensiones fato fieri, fateantur tamen eas sine viso antecedente fieri, alia ratio est; sed, si concedunt anteire visa, nec tamen fato fieri adsensiones, quod proxima illa et continens causa non moveat adsensionem, vide, ne idem dicant. Neque enim Chrysippus, concedens adsensionis proximam et continentem causam esse in viso positam, eam causam esse ad adsentiendum necessariam concedet, ut, si omnia fato fiant, omnia causis fiant antecedentibus et necessariis; itemque illi, qui ab hoc dissentiunt confitentes non fieri adsensiones sine praecursione visorum, dicent, si omnia fato fierent eius modi, ut nihil fieret nisi praegressione causae, confitendum esse fato fieri omnia; ex quo facile intellectu est, quoniam utrique patefacta atque explicata sententia sua ad eundem exitum veniant, verbis eos, non re dissidere. | Dopo tale spiegazione di Crisippo, se chi nega che l'assenso avviene per volere del fato concedesse almeno che esso non ha luogo senza una rappresentazione precedente, diverso sarebbe il ragionamento; se invece ammette che le rappresentazioni sono precedenti, senza però concedere che l'assenso avviene per volere del fato, perché non sarebbe la causa immediata ed essenziale sopra ricordata a muovere l'assenso, bada che non finiscano per sostenere la stessa tesi. Crisippo infatti, non concedendo che la causa immediata ed essenziale dell'assenso riposi nella rappresentazione, non ammetterà nemmeno che tale causa sia necessaria per il nostro assenso, in modo che, se tutto avviene per volere del fato, tutto avviene per cause precedenti e necessarie; parimenti, coloro che dissentono da tale tesi, riconoscendo che non si dà l'assenso senza che lo preceda la rappresentazione, sosterranno che, se tutto accade per volere del fato di modo che nulla avviene se non per il precedere di una causa, è inevitabile ammettere che tutto accade per volere del fato; da ciò è facile comprendere come costoro dissentano a parole e non nei fatti, poiché entrambi, chiarita e sviluppata la loro tesi, giungono a una conclusione identica. |
quam ille multa de auctoritate patris sui, qui semper ius illud esse defenderat? quam omnino multa de conservando iure civili? quae quidem omnia cum perite et scienter, item breviter et presse et satis ornate et pereleganter diceret, quis esset in pop ulo, qui aut exspectaret aut fieri posse quicquam melius putaret? at vero, ut contra Crassus ab adulescente delicato, qui in litore ambulans scalmum repperisset ob eamque rem aedificare navem concupivisset, exorsus est, similiter Scaevolam ex uno scalmo c aptionis centumvirale iudicium hereditatis effecisse: hoc in illo initio consecutus, multis eiusdem generis sententiis delectavit animosque omnium qui aderant in hilaritatem a severitate traduxit; quod est unum ex tribus quae dixi ab oratore effici debere.deinde hoc voluisse eum qui testamentum fecisset, hoc sensisse, quoquo modo filius non esset qui in suam tutelam veniret, sive non natus sive ante mortuus, Curius heres ut esset; ita scribere plerosque et id valere et valuisse semper. haec et multa eius modi dicens fidem faciebat; quod est ex tribus oratoris officiis alterum. | Quante cose non disse sul l'autorità del proprio padre, il quale aveva sempre sostenuto il valore legale dei documenti scritti? e, in generale, sulla necessità di mantenere ben salde le norme del diritto civile? Diceva tutto ciò non solo con piena competenza, ma anche con brevità e sintetica precisione, in uno stile adorno a sufficienza, e assai raffinato: chi mai, del popolo, avrebbe potuto aspettarsi - o immaginare che si potesse fare - qualcosa di meglio? Ma quando Crasso, per la parte avversa, incominciò a raccontare di un giovincello capriccioso, che passeggiando sulla spiaggia aveva trovato uno scalmo, e per questo motivo era stato preso dalla voglia di costruire una nave; e così Scevola, col solo scalmo della possibile frode aveva imbastito una questione di eredità di fronte al tribunale centumvirale: "dilungandosi su questo paragone nel suo esordio," e con l'aggiunta di molte battute dello stesso genere, divertì tutti i presenti, e ne volse gli animi dalla serietà all'ilarità: e questo è uno dei tre effetti che l'oratore, come ho detto~ deve conseguire. Passò poi a sostenere che questa era stata la volontà, questa l'intenzione dell'autore del testamento: che Curio fosse erede, se in qualunque modo non vi fosse stato un figlio che avesse raggiunto l'età di uscire di tutela, sia perché non nato, sia perché morto in precedenza; così scriveva la maggior parte della gente, e ciò era valido ed era sempre stato considerato valido. Esponendo queste e altre considerazioni dello stesso tenore, riusciva a convincere; e questo è il secondo dei tre compiti dell'oratore. |
Reliqui sunt, qui mortui sint, L. Torquatus, quem tu non tam cito rhetorem dixisses, etsi non derat oratio, quam, ut Graeci dicunt, politikon. erant in eo plurumae litterae nec eae volgares, sed interiores quaedam et reconditae, divina memoria, summa verborum et gravitas et elegantia; atque haec omnia vitae decorabat gravitas et integritas. me quidem admodum delectabat etiam Triari in illa aetate plena litteratae senectutis oratio. quanta severitas in voltu, quantum pondus in verbis, quam nihil non consideratum exibat ex ore! | Restano, tra i morti, Lucio Torquato "non lo si poteva tanto definire retore," anche se non gli mancava l'eloquio, quanto piuttosto, come dicono i greci, politikós . Aveva una cultura molto vasta, e non banale, ma preziosa e sofisticata, una memoria divina, la più grande solennità ed eleganza di linguaggio; e tutto ciò era ornato dalla serietà di carattere e dall'integrità di costumi. Mi piaceva moltissimo anche l'eloquenza di Tria rio, piena, nonostante l'età, di un'attempata cultura. Quanta severità nel suo volto! Quanta autorevolezza nelle sue parole! Quanto ponderata ogni cosa che gli usciva di bocca! " |
Sed ut perspiciatis, unde omnis iste natus error sit voluptatem accusantium doloremque laudantium, totam rem aperiam eaque ipsa, quae ab illo inventore veritatis et quasi architecto beatae vitae dicta sunt, explicabo. Nemo enim ipsam voluptatem, quia voluptas sit, aspernatur aut odit aut fugit, sed quia consequuntur magni dolores eos, qui ratione voluptatem sequi nesciunt, neque porro quisquam est, qui dolorem ipsum, quia dolor sit, amet, consectetur, adipisci velit, sed quia non numquam eius modi tempora incidunt, ut labore et dolore magnam aliquam quaerat voluptatem.Ut enim ad minima veniam, quis nostrum exercitationem ullam corporis suscipit laboriosam, nisi ut aliquid ex ea commodi consequatur? Quis autem vel eum iure reprehenderit, qui in ea voluptate velit esse, quam nihil molestiae consequatur, vel illum, qui dolorem eum fugiat, quo voluptas nulla pariatur? | Ma affinché vediate donde sia sorto tutto questo errore di coloro che accusano il piacere e lodano il dolore, chiarirò tutta la questione e spiegherò le idee espresse da quello scopritore della verità e vorrei dire architetto della felicità nella vita. Nessuno infatti disdegna, odia o fugge il piacere in sé perché è piacere ma perché sono colpiti da grandi dolori coloro che non sanno perseguire il piacere razionalmente; e viceversa non c’è nessuno che ama, insegue, vuol raggiungere il dolore in sé perché è dolore ma perché talvolta capitano circostanze tali per cui con il travaglio e il dolore si cerca qualche grande piacere. Per venire a casi di minima importanza, chi di noi intraprende un esercizio fisico faticoso se non per ottenere da esso qualche vantaggio? Chi d'altra parte avrebbe ragione di biasimare chi vuol provare quel piacere a cui non segue fastidio alcuno, o chi fugge quel dolore che non produce nessun piacere? |
Non ergo erunt homines deliciis diffluentes audiendi, si quando de amicitia, quam nec usu nec ratione habent cognitam, disputabunt. Nam quis est, pro deorum fidem atque hominum! qui velit, ut neque diligat quemquam nec ipse ab ullo diligatur, circumfluere omnibus copiis atque in omnium rerum abundantia vivere? Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae. | Non bisognerà allora dar retta a chi sguazza nei piaceri se talvolta discute sull'amicizia senza averla conosciuta né in teoria né in pratica. Chi, infatti, in nome degli dèi e degli uomini, vorrebbe annegare in un mare di ricchezze e vivere nella più grande abbondanza a patto di non amare nessuno e di non essere amato da nessuno? Non c'è dubbio: questa è la vita dei tiranni, vita che ignora completamente lealtà, affetto e fiducia in un legame durevole. Tutto desta sospetti e angosce, non vi è spazio per l'amicizia. |
Nam si propter alias res virtus expetitur, melius esse aliquid quam virtutem necesse est: pecuniamne igitur an honores an formam an valetudinem? Quae et quom adsunt perparva sunt, et quam diu adfutura sint, certum sciri nullo modo potest. An id quod turpissimum dictu est, voluptatem? At in ea quidem spernenda et repudianda virtus vel maxime cernitur. Sed videtisne quanta series rerum sententiarumque sit, atque ut ex alio alia nectantur? Quin labebar longius, nisi me retinuissem.Quintus:Quo tandem? Libenter enim, frater, quo ista oratione <tendis> tecum prolab<ar>.Marcus:Ad finem bonorum, quo referuntur et quoius a<pi>scendi causa sunt facienda omnia, controversam rem et plenam dissensionis inter doctissimos sed aliquando tam<en> iudicandam. | Infine, se alla virtù si aspira per altri motivi, necessariamente sarà meglio che vi sia qualcosa di diverso dalla virtù stessa; forse il danaro, gli onori o la bellezza o la salute? Tutti beni che, quando ci sono, valgono pressoché niente, e non si può sapere in alcun modo per quanto tempo ancora possano esserci. O forse, cosa assai vergognosa a dirsi, il piacere? Ma soprattutto allora si scorge la virtù, nel disprezzarla e nel respingerla. Ma vedete quanto è lunga la successione degli argomenti e delle idee, e come una cosa si connetta all'altra? Anzi sarei andato molto più lontano, se non mi fossi trattenuto.Quinto:E fin dove? Io, fratello, mi lascerei andare volentieri con te dove cerchi di approdare con questo discorso.Marco:Fino al sommo bene, al quale si riporta ogni cosa, e per raggiungere il quale si deve fare tutto, argomento controverso e pieno di divergenze fra i massimi filosofi, ma che ormai dovrebbe essere definitivamente chiarito. |
Quid? Cum dicunt, id quod iis dicere necesse est, omnis omnium ortus quicumque gignantur in omni terra quae incolatur, eosdem esse, eademque omnibus qui eodem statu caeli et stellarum nati sint accidere necesse esse, nonne eius modi sunt, ut ne caeli quidem naturam interpretes istos caeli nosse appareat? Cum enim illi orbes, qui caelum quasi medium dividunt et aspectum nostrum definiunt (qui a Graecishorízontesnominantur, a nobis " finientes" rectissume nominari possunt) varietatem maxumam habeant aliique in aliis locis sint, necesse est ortus occasusque siderum non fieri eodem tempore apud omnis.Quodsi eorum vi caelum modo hoc, modo illo modo temperatur, qui potest eadem vis esse nascentium, cum caeli tanta sit dissirnilitudo? In his locis quae nos incolimus post solstitium Canicula exoritur, et quidem aliquot diebus; at apud Trogodytas, ut scribitur, ante solstitium; ut, si iam concedamus aliquid vini caelestem ad eos qui in terra gignuntur pertinere, confitendum sit illis eos qui nascuntur eodem tempore posse in dissimilis incidere naturas propter caeli dissimilitudinem; quod minime illis placet; volunt enim illi omnis eodem tempore ortos, qui ubique sint nati, eadem condicione nasci. | E ancora: quando dicono - e devono dirlo per forza - che tutte le nascite di tutti coloro che son generati in ogni parte della terra abitata sono identiche, e che necessariamente accadranno le stesse cose a tutti quelli che siano nati sotto la stessa posizione del cielo e degli astri, non rivelano, codesti interpreti del cielo, di non conoscerne neanche la struttura? Poiché quelle circonferenze che dividono, per così dire, il cielo a metà e limitano la nostra visuale (i greci le chiamanohorízontes, noi possiamo con tutta esattezza chiamarle "limitanti") hanno la massima varietà e sono diverse da un luogo all'altro, ne consegue che la nascita e il tramonto delle costellazioni non può avvenire dappertutto nello stesso tempo.E se per il loro influsso il cielo assume ora una, ora un'altra composizione, come possono quelli che nascono ricevere una medesima impronta, dal momento che tanto grande è la dissimiglianza del cielo? In questa parte del mondo che noi abitiamo la Canicola sorge dopo il solstizio d'estate, anzi parecchi giorni dopo; ma nel paese dei trogloditi, a quanto si legge, sorge prima del solstizio; cosicché, se anche ammettiamo che l'influsso del cielo si esplichi in qualche modo su coloro che nascono in terra, gli astrologi dovrebbero pur riconoscere che coloro che nascono contemporaneamente possono avere caratteri diversi per la dissimiglianza del cielo. Ma non hanno alcuna voglia di riconoscerlo: pretendono che tutti i nati nel medesimo tempo, qualunque sia il luogo della loro nascita, siano votati alla stessa -sorte. |
C. Acilius autem, qui Graece scripsit historiam, plures ait fuisse, qui in castra revertissent eadem fraude, ut iure iurando liberarentur eosque a censoribus omnibus ignominiis notatos. Sit iam huius loci finis. Perspicuum est enim ea, quae timido animo, humili, demisso fractoque fiant, quale fuisset Reguli factum, si aut de captivis quod ipsi opus esse videretur, non quod rei publicae, censuisset aut domi remanere voluisset, non esse utilia, quia sint flagitiosa, foeda, turpia. | [Gaio Acilio, invece, che scrisse una storia di Roma in greco, dice che furono molti a ritornare negli accampamenti con lo stesso inganno, per esser liberati dal giuramento, e furono bollati dai censori con ogni nota d'infamia.] Mettiamo fine, oramai, a questo argomento. È chiaro, infatti, che tutto ciò che viene fatto con animo pavido, umile, depresso ed avvilito (come sarebbe stata l'azione di Regolo, se avesse proposto, riguardo ai prigionieri, quello che gli sembrava opportuno per sé, non per lo Stato, o avesse voluto restare in patria) non è utile, perché è dannoso, disonorevole, ripugnante. |
Bene vero quod Mens, Pietas, Virtus, Fides consecrantur humanae, quarum ommum Romae dedicata publice templa sunt, ut illas qui habeant - habent autem omnes boni - deos ipsos in animis suis conlocatos putent. Nam illud vitiosum Athenis quod Cylonio scelere expiato, Epimenide Crete suadente, fecerunt Contumeliae fanum et Inpudentiae, <magnumque consecravit gymnasiis in simulacra Amorum et Cupidinum quod Graeciasuscepit consilium audax>. Virtutes enim, non vitia consecrari decet.Araque vetusta in Palatio Febris et altera Esquiliis Malae Fortunae detest<anda>, atque omnia eius modi repudianda sunt. Quodsi fingenda nomina, Vicaepotae potius vincendi atque potiundi, Statae standi, cognominaque Statoris et Invicti Iovis, rerumque expetendarum nomina, Salutis, Honoris, Opis, Victoriae, quoniamque exspectatione rerum bonarum erigitur animus, recte etiam Spes a Calatino consecrata est. Fortunaque sit vel Huiusce diei - nam valet in omnis dies -, vel Respiciens ad opem ferendam, vel Fors in quo incerti casus significantur magis, vel Primigenia a gignendo comes. | Ed è bene che siano consacrate la Ragione, la Pietà, la Virtù, la Fede; a tutte queste sono dedicati in Roma dei templi in maniera tale che, tutti quelli che le posseggono - e le posseggono tutti i buoni - pensino di avere nel loro animo gli dèi stessi. Colpevole azione fu, in realtà quella degli Ateniesi; per espiare il delitto commesso contro Cilene, dietro consiglio del cretese Epimenide essi innalzarono un tempio all'Offesa ed all'Impudenza, [e per di più grande, e fece consacrare nei ginnasi le statue degli Amorini e dei Cupidi, consiglio audace che la Grecia accettò]. Sarebbe logico infatti consacrare le virtù, non i vizi. E l'antico altare alla Febbre sul Palatino e l'altro sull'Esquilino alla Cattiva Fortuna e tutte le opere di questo genere per noi esecrabili sono da ripudiare. Infatti, se sarà necessario personificare dei nomi, lo saranno piuttosto quello di Vica Pota, da vincere ed impadronirsi, di Stata da conservare, di Giove Statore ed Invitto e di quante altri beni sono desiderabili, della Salute, dell'Onore, dell'Abbondanza, della Vittoria. E poiché l'animo si conforta nell'attesa dei beni, giustamente fu consacrata da Calatino anche la Speranza. E sia divinizzata anche la Fortuna, o Quella del giorno - infatti vale per tutti i giorni -, o Quella che guarda indietro per recar aiuto, o la Fortuita, con cui si rappresentano piuttosto gli avvenimenti incerti, o la Primigenia, la prima nascita, compagna ora nel momento del concepimento. |
De illis vero rebus quae in philosophia versantur, num quid est quod quisquam divinorum aut rispondere soleat aut consuli quid bonum sit, quid malum, quid neutrum? Sunt enim haec propria philosophorum. Quid? De officio num quis haruspicem consulit quem ad modum sit cum parentibus, cum fratribus, cum amicis vivendum, quem ad modum utendum pecunia, quem ad modum honorË, quem ad modum imperio? Ad sapientes haec, non ad divinos referri solent. Quid? Quae a dialecticis aut physicis tractantur, num quid eorum divinari potest, unusne mundus sit an plures, quae sint initia rerum, ex quibus nascuntur omnia? Physicorum est ista prudente.Quomodo autem "mentientem", quempseudómenosvocant, dissolvas aut quem ad modum soriti resistas (quem, si necesse sit, Latino verbo liceat "acervalem" appellare; sed nihil opus est: ut enim ipsa "philosophia" et multa verba Graecorum, sic "sorites, satis Latino sermone tritus est), ergo haec quoque dialectici dicent, non divini. Quid? Cum quaeritur qui sit optimus rei publicae status, quae leges, qui mores aut utiles aut inutiles, haruspicesne ex Etruria arcessentur an principes statuent et delecti viri periti rerum civilium? Quodsi nec earum rerum, quae subiectae sensibus sunt, una divinatio est nec earum quae artibus continentur, nec earum, quae in philosophia disseruntur, nec earum, quae in re publica versantur, quarum rerum sit nihil prorsus intellego. Nam aut omnium debet esse, aut aliqua ei materia danda est in qua versari possit. Sed nec omnium divinatio est, ut ratio docuit, nec locus nec materia invenitur, cui divinationem praeficere possimus. | Quanto, poi, alle questioni filosofiche, ce n'è forse qualcuna a cui qualsiasi indovino sia solito dare una risposta, o per cui venga consultato allo scopo di sapere che cosa sia bene, che cosa male, che cosa indifferente? No, sono questioni proprie dei filosofi. E ancora: c'è qualcuno che consulta un arùspice su un dovere da compiere, quanto al modo di comportarsi coi genitori, coi fratelli, con gli amici, di usare il proprio denaro, di gestire una carica pubblica, di esercitare una funzione di comando? Per tali problemi ci si rivolge ai saggi, non agl'indovini. E ancora: tra gli argomenti che sono trattati dai dialettici o dai filosofi della natura - se vi sia un mondo solo o più, quali siano i primi principii dell'universo dai quali ogni cosa deriva -, ce n'è qualcuno che possa essere risolto mediante la divinazione? No, la competenza in codeste cose spetta ai filosofi della natura. Come, poi, tu possa confutare il sofisma del "mentitore", che in greco chiamanopseudómenos, o come possa controbattere il sorìte (che, se fosse necessario, si potrebbe chiamare in latino "acervàle"; ma non ce n'è bisogno: come la parola stessa "filosofia" e molte altre tratte dal greco, così "sorìte" è un termine divenuto abbastanza usuale in latino), anche queste cose, dunque, te le insegneranno i dialettici, non gli indovini. E poi? Quando si discute sulla migliore, costituzione politica, su quali leggi e quali usanze siano utili o inutili, si faranno venire dall'Etruria gli arùspici, o la decisione spetterà a personaggi politici di alto grado e a uomini scelti, esperti di scienza dello Stato? Ché se non esiste alcuna capacità divinatoria né riguardo alle cose sensibili, né a quelle di pertinenza delle varie tecniche, né a quelle che sono argomento di discussione filosofica, né a quelle che rientrano nell'ambito della politica, quale sia l'oggetto della divinazione non lo capisco proprio affatto. Una delle due: o la divinazione deve riguardare ogni cosa, o bisogna attribuirle un campo specifico di sua competenza. Ma né la divinazione riguarda ogni cosa (il ragionamento ce lo ha dimostrato), né si riesce a trovare un campo o un argomento di cui possiamo assegnarle la giurisdizione. |
Est ergo ulla res tanti aut commodum ullum tam expetendum, ut viri boni et splendorem et nomen amittas? Quid est, quod afferre tantum utilitas ista, quae dicitur, possit, quantum auferre, si boni viri nomen eripuerit, fidem iustitiamque detraxerit? Quid enim interest, utrum ex homine se convertat quis in beluam an hominis figura immanitatem gerat beluae?Quid? qui omnia recta et honesta neglegunt, dummodo potentiam consequantur, nonne idem faciunt, quod is, qui etiam socerum habere voluit eum, cuius ipse audacia potens esset.Utile ei videbatur plurimum posse alterius invidia. Id quam iniustum in patriam et quam turpe esset, non videbat. Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi:'Nam si violandum est ius, regnandi gratia,Violandum est; aliis rebus pietatem colas.'Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit. | Niente gli si addice di meno, questo è certo. Vi è, dunque, una cosa tanto importante o un vantaggio tanto desiderabile, da far si che tu perda l'aureola e il nome di uomo probo? Che cosa ti potrebbe dare di tanto grande questa cosiddetta utilità, quanto piuttosto togliere, se si sottrae il nome di uomo probo, se ti porta via la lealtà e la giustizia? Che differenza c'è, difatti, tra il mutarsi da uomo in bestia o il portare, sotto l'aspetto di uomo, l'indole crudele d'una belva? E che? Quanti trascurano ogni rettitudine e onestà, pur di raggiungere la potenza, non si comportano proprio come colui che volle avere per suocero un uomo, la cui audacia giovasse alla propria potenza? Gli sembrava utile raggiungere la massima potenza a spese dell'impopolarità altrui, ma non si rendeva conto di quanto ciò fosse ingiusto e vergognoso nei confronti della patria. E quel suocero aveva continuamente sulle labbra i versi greci delle Fenicie, che dirò come potrò, forse rozzamente, ma tuttavia in modo che si possa capire il contenuto: 'Se si deve violare il diritto, bisogna violarlo per il potere assoluto; per il resto coltiva la pietà'. Degno d'essere messo a morte è Eteocle, o piuttosto Euripide, che eccettuava quest'unico caso, che è il più scellerato di tutti. |
Eorum igitur, quae constant, exempla ponemus, horum, quae dubia sunt, rationes afferemus. Quinquepertita argumentatio est huiusmodi: "Omnes leges, iudices, ad commodum rei publicae referre oportet et eas ex utilitate communi, non ex scriptione, quae in litteris est, interpretari. Ea enim virtute et sapientia maiores nostri fuerunt, ut in legibus scribendis nihil sibi aliud nisi salutem atque utilitatem rei publicae proponerent. Neque enim ipsi, quod obesset, scribere volebant, et, si scripsissent, cum esset intellectum, repudiatum iri legem intellegebant.Nemo enim leges legum causa salvas esse vult, sed rei publicae, quod ex legibus omnes rem publicam optime putant administrari. Quam ob rem igitur leges servari oportet, ad eam causam scripta omnia interpretari convenit: hoc est, quoniam rei publicae servimus, ex rei publicae commodo atque utilitate interpretemur. Nam ut ex medicina nihil oportet putare proficisci, nisi quod ad corporis utilitatem spectet, quoniam eius causa est istituta, sic a le gibus nihil convenit arbitrari, nisi quod rei publicae conducat, proficisci, quoniam eius causa sunt comparatae. | Facciamo dunque degli esempi di queste che sono evidenti, (ed) esponiamo delle opinioni di queste (altre) che sono dubbie. Un'argomentazione in cinque parti è di questo genere: "È necessario indirizzare tutte le leggi al vantaggio dello stato e interpretarle secondo l’utilità comune, non alla lettera. Di tale virtù e saggezza furono infatti i nostri antenati, poiché nello scrivere le leggi si proponevano nient’altro che la salvezza e l’interesse dello stato. E nemmeno loro infatti, volevano scrivere ciò che potesse essere di danno e, se l’avessero scritto, dopo che si fosse compreso, capivano che la legge sarebbe stata rifiutata. Nessuno infatti vuole che le leggi siano utili per le leggi, ma per lo stato, poiché tutti credono che lo stato debba essere ottimamente amministrato dalle leggi. Per questa ragione dunque è opportuno che le leggi siano rispettate, conviene interpretare tutti gli scritti a quel fine: cioè, dal momento che siamo al servizio dello stato, interpretiamole secondo l’interesse e l’utilità dello stato. Infatti come si deve pensare che nulla ha origine dalla medicina, se non ciò che concerne l’utilità del corpo, dato che per questo è stata creata, così non conviene pensare che nulla ha origine dalle leggi, se non ciò che conduce allo stato,dato che per questo sono state istituite. |