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Haec igitur prima lex amicitiae sanciatur, ut ab amicis honesta petamus, amicorum causa honesta faciamus, ne exspectemus quidem, dum rogemur; studium semper adsit, cunctatio absit; consilium vero dare audeamus libere. Plurimum in amicitia amicorum bene suadentium valeat auctoritas, eaque et adhibeatur ad monendum non modo aperte sed etiam acriter, si res postulabit, et adhibitae pareatur. | Venga dunque sancita come prima legge dell'amicizia questa, che chiediamo agli amici cose oneste, facciamo cose oneste per gli amici, non esitiamo nemmeno a dare liberamente il nostro consiglio quando siamo pregati, ci sia sempre prontezza e non ci sia esitazione. Sia di grande importanza nell'amicizia l'autorità degli amici che ci portano al bene e sia utilizzata per avvertire non solo apertamente, ma anche aspramente, se la situazione lo richiedesse, e si obbedisca ad essa. |
Multas ad res perutiles Xenophontis libri sunt, quos legite, quaeso, studiose, ut facitis. Quam copiose ab eo agri cultura laudatur in eo libro, qui est de tuenda re familiari, qui Oeconomicus inscribitur! Atque ut intellegatis nihil ei tam regale videri quam studium agri colendi, Socrates in eo libro loquitur cum Critobulo Cyrum minorem, Persarum regem, praestantem ingenio atque imperi gloria, cum Lysander Lacedaemonius, vir summae virtutis, venisset ad eum Sardis eique dona a sociis adtulisset, et ceteris in rebus communem erga Lysandrum atque humanum fuisse et ei quendam consaeptum agrum diligenter consitum ostendisse.Cum autem admiraretur Lysander et proceritates arborum et derectos in quincuncem ordines et humum subactam atque puram et suavitatem odorum, qui adflarentur ex floribus, tum eum dixisse mirari se non modo diligentiam, sed etiam sollertiam eius, a quo essent illa dimensa atque discripta; et Cyrum respondisse: 'Atqui ego ista sum omnia dimensus; mei sunt ordines, mea discriptio, multae etiam istarum arborum mea manu sunt satae.' Tum Lysandrum intuentem purpuram eius et nitorem corporis ornatumque Persicum multo auro multisque gemmis dixisse; 'Recte vero te, Cyre, beatum ferunt, quoniam virtuti tuae fortuna coniuncta est.' | I libri di Senofonte sono utilissimi sotto molti aspetti: leggeteli con attenzione, vi prego, come state già facendo. Con quanti argomenti loda l'agricoltura nel libro relativo all'amministrazione del patrimonio intitolato Economico! E, perché capiate che nulla gli sembrava degno di un re quanto l'agricoltura, Socrate, in quel libro, racconta a Critobulo un episodio. Quando lo spartano Lisandro, uomo di eccezionale valore, si recò a Sardi a portare a Ciro i doni degli alleati, Ciro il giovane, re dei Persiani di straordinaria intelligenza e gloria militare, lo trattò con grande affabilità e cortesia e, tra le altre cose, gli mostrò un parco coltivato con cura. Lisandro apprezzava molto l'altezza degli alberi, la loro disposizione a scacchiera, la terra lavorata e ripulita, la soavità dei profumi che esalavano dai fiori e disse di ammirare non solo la cura ma anche la maestria dell'uomo che aveva disegnato e disposto ogni cosa. Ciro rispose: "Ma sono stato io a disegnare tutto! Mie sono le file, mia la disposizione, addirittura molti di questi alberi li ho piantati di mia mano". Al che Lisandro guardò la porpora, l'eleganza della persona e l'abbigliamento persiano, prezioso di oro e gemme, ed esclamò: "Hanno ragione, Ciro, a dirti felice, perché la tua fortuna si congiunge alla virtù." |
Vetus autem illud Catonis admodum scitum est, qui mirari se aiebat, quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidisset. Quota enim quaeque res evenit praedicta ab istis? Aut, si evenit quippiam, quid adferri potest cur non casu id evenerit? Rex Prusias, cum Hannibali apud eum exsulanti depugnari placeret, negabat se audere, quod exta prohiberent. " Ain tu?" inquit, " carunculae vitulinae mavis quam imperatori veteri credere?" Quid? Ipse Caesar cum a summo haruspice moneretur ne in Africam ante brumam tramitteret, nonne tramisit? Quod ni fecisset, uno in loco omnes adversariorum copiae convenissent.Quid ego haruspicum responsa commemorem (possum equidem innumerabilia), quae aut nullos habuerint exitus aut contrarios? Hoc civili bello, di immortales, quam multa luserunt! Quae nobis in Graeciam Roma responsa haruspicum missa sunt! Quae dieta Pompeio! Etenim ille admodum extis et ostentis movebatur. Non lubet commemorare, nec vero necesse est, tibi praesertim qui interfuisti; vides tamen omnia fere contra ac dicta sint evenisse. Sed haec hactenus; nunc ad ostenta veniamus. | È molto spiritoso quel vecchio motto di Catone, il quale diceva di meravigliarsi che un arùspice non si mettesse a ridere quando vedeva un altro arùspice. Quante delle cose predette da costoro si sono verificate? E se qualche evento si è verificato, quali prove si possono addurre contro l'eventualità che ciò sia accaduto per caso? Il re Prusia, quando Annibale, esule presso di lui, lo esortava a far guerra a oltranza, diceva di non volersi arrischiare, perché l'esame delle viscere lo dissuadeva. "Dici sul serio?" esclamò Annibale; "preferisci dar retta a un pezzetto di carne di vitella che a un vecchio condottiero?" E Cesare stesso, dissuaso dal sommo arùspice dall'imbarcarsi per l'Africa prima del solstizio d'inverno, non s'imbarcò egualmente? Se non l'avesse fatto, tutte le truppe dei suoi avversari avrebbero avuto il tempo di concentrarsi in un solo luogo. Devo mettermi a fare l'elenco (e potrei fare un elenco davvero interminabile) dei responsi degli aruspici che non hanno avuto alcun effetto o lo hanno avuto contrario alle previsioni? In quest'ultima guerra civile, quante predizioni, per gli dèi immortali!, ci delusero! Quali responsi di arùspici ci furono trasmessi da Roma in Grecia! Quali cose furono predette a Pompeo! E in verità egli credeva moltissimo alle viscere e ai prodigi. Non ho voglia di rammentare queste cose, e non ce n'è bisogno, meno che mai a te, che eri presente; vedi bene, tuttavia, che quasi tutto è accaduto al contrario di quel che ci era stato predetto. Ma di ciò non parliamo più; ritorniamo ai prodigi. |
Ex hac Rutili narratione suspicari licet, cum duae summae sint in oratore laudes, una subtiliter disputandi ad docendum, altera graviter agendi ad animos audientium permovendos, multoque plus proficiat is qui inflammet iudicem quam ille qui doceat, elegantiam in Laelio, vim in Galba fuisse. quae quidem vis tum maxume cognitast, cum Lusitanis a Ser. Galba praetore contra interpositam, ut existumabatur, fidem interfectis L. Libone tribuno plebis populum incitante et rogationem in Galbam privilegi similem ferente, summa senectute, ut ante dixi, M.Cato legem suadens in Galbam multa dixit; quam orationem in Origines suas rettulit, paucis ante quam mortuus est [an] diebus an mensibus. | 89 Da questo racconto di Rutilio si può desumere che - siccome due sono i maggiori pregi dell'oratore, il primo di saper presentare i fatti con precisione per informare gli ascoltatori, il secondo di porgere con gagliardia, per scuoterne profondamente gli animi: e molto di più di colui che si limita a informare il giudice ottiene chi sa in fiammarne le passioni - in Lelio vi era la capacità di esporre con eleganza, in Galba un potente vigore. E quest'ultimo lo si vide soprattutto quando venne in discussione il caso dei lusitani che Galba, com'era opinione, aveva fatto uccidere contro la parola data: Lucio Libone, tribuno della plebe, aizzava il popolo, e aveva presentato, contro Galba, una proposta di legge che aveva carattere personale; Marco Catone, ormai nell'estrema vecchiaia, come ho detto poc'anzi, in sostegno di quella legge parlò a lungo contro Galba (e questo discorso lo riportò nelle Origini, pochi giorni, o pochi mesi, prima di morire). |
Studio autem neminem nec industria maiore cognovi, quamquam ne ingenio quidem qui praestiterit facile dixerim C. Pisoni, genero meo. nullum tempus illi umquam vacabat aut a forensi dictione aut a commentatione domestica aut a scribendo aut a cogitando. itaque tantos processus efficiebat ut evolare, non excurrere videretur; eratque verborum et dilectus elegans et apta et quasi rotunda constructio; cumque argumenta excogitabantur ab eo multa et firma ad probandum tum concinnae acutaeque sententiae; gestusque natura ita venustus, ut ars etiam, quae non erat, et e disciplina motus quidam videretur accedere.vereor ne amore videar plura quam fuerint in illo dicere; quod non ita est: alia enim de illo maiora dici possunt. nam nec continentia nec pietate nec ullo genere virtutis quemquam eiusdem aetatis cum illo conferendum puto. | Non ho però conosciuto nessuno che avesse zelo e operosità più grandi per quanto neppure per talento mi sarebbe facile indicare uno che fosse superiore a mio genero Gaio Pisone .Non aveva mai un solo momento di tempo che fosse libero o dai discorsi forensi, o dagli esercizi di declamazione a casa, o dallo scrivere, o dal progettare i discorsi. Perciò faceva tali progressi, che più che correre sembrava volare; aveva un linguaggio di scelta eleganza, con un periodare ben connesso, e, per dir così, rotondo ; non solo sapeva escogitare argomenti numerosi e solidi per provare il suo assunto, ma aveva formulazioni penetranti e disposte con elegante simmetria; e il suo gestire era per natura così aggraziato, da parere che vi si aggiungessero anche l'artificio - che proprio non c'era -, e movenze derivanti dallo studio. Temo che possa sembrare che per affetto io gli attribuisca più qualità di quante ne ebbe; non è così: infatti di lui si possono fare altre, più grandi lodi; perché io non credo che nessuno tra quelli della sua stessa età gli fosse paragonabile per la capacità di controllare le passioni, per i sentimenti di filiale devozione, o per alcun tipo di virtù. |
Firmamentum autem stabilitatis constantiaeque eius, quam in amicitia quaerimus, fides est; nihil est enim stabile quod infidum est. Simplicem praeterea et communem et consentientem, id est qui rebus isdem moveatur, eligi par est; quae omnia pertinent ad fidelitatem; neque enim fidum potest esse multiplex ingenium et tortuosum, neque vero, qui non isdem rebus movetur naturaque consentit, aut fidus aut stabilis potest esse. Addendum eodem est, ut ne criminibus aut inferendis delectetur aut credat oblatis, quae pertinent omnia ad eam, quam iam dudum tracto, constantiam.Ita fit verum illud, quod initio dixi, amicitiam nisi inter bonos esse non posse. Est enim boni viri, quem eundem sapientem licet dicere, haec duo tenere in amicitia: primum ne quid fictum sit neve simulatum; aperte enim vel odisse magis ingenui est quam fronte occultare sententiam; deinde non solum ab aliquo allatas criminationes repellere, sed ne ipsum quidem esse suspiciosum, semper aliquid existimantem ab amico esse violatum. | Il sostegno della stabilità e della costanza che cerchiamo nell'amicizia, è quello della fiducia: niente che è infido è stabile. Inoltre conviene scegliere un amico sincero, gentile e affine (a noi), cioè che sia mosso dai nostri stessi sentimenti; e tutto ciò concerne la buona fede; infatti non può essere fidato un ingegno ambiguo e tortuoso, né inoltre può essere fidato o stanile chi non è mosso dalle stesse cose e va d'accordo per natura. Si deve aggiungere per lo stesso motivo, che non prenda gusto a lanciare accuse né creda ad accuse lanciate da altri; e queste cose concernono tutte quella costanza di cui già da un po' vengo trattando. Così accade in verità quello che ho detto all'inizio, che l'amicizia non può esistere se non tra gli onesti. Infatti, è proprio dell'uomo onesto, che è lecito chiamare saggio, osservare questi due principi nell'amicizia. Prima di tutto che non vi sia niente di finto o simulato; infatti, è proprio degli animi nobili persino odiare apertamente piuttosto che celare il proprio pensiero dietro un falso aspetto. Inoltre non solo respinge le accuse fattegli da qualcuno, ma non è neppure sospettoso, pensando sempre che l'amico abbia commesso qualche errore. |
Incidunt multae saepe causae, quae conturbent animos utilitatis specie, non, cum hoc deliberetur, relinquendane sit honestas propter utilitatis magnitudinem (nam id quidem improbum est), sed illud, possitne id, quod utile videatur, fieri non turpiter. Cum Collatino collegae Brutus imperium abrogabat, poterat videri facere id iniuste; fuerat enim in regibus expellendis socius Bruti consiliorum et adiutor. Cum autem consilium hoc principes cepissent, cognationem Superbi nomenque Tarquiniorum et memoriam regni esse tollendam, quod erat utile, patriae consulere, id erat ita honestum, ut etiam ipsi Collatino placere deberet.Itaque utilitas valuit propter honestatem, sine qua ne utilitas quidem esse potuisset. | Si presentano spesso molte cause che turbano l'animo con l'apparenza dell'utile, non quando ci si chiede se si debba abbandonare l'onestà per le dimensioni dell'utilità - giacché questo è disonesto -, ma se si possa compiere in modo non disonesto ciò che sembra utile. Quando Bruto toglieva il potere al collega Collatino, poteva sembrare che facesse ciò ingiustamente; infatti nel cacciare i re era stato alleato e collaboratore dei progetti di Bruto. Avendo preso per primo questa decisione, che bisognava eliminare la stirpe del Superbo e il nome dei Tarquini e la memoria del regno, ciò che era utile, provvedere alla patria, era così onesto che doveva piacere allo stesso Collatino. Perciò l'utilità prevalse per l'onestà, senza la quale neppure l'utilità avrebbe potuto esserci. |
Cuius autem aures clausae veritati sunt, ut ab amico verum audire nequeat, huius salus desperanda est. Scitum est enim illud Catonis, ut multa: 'melius de quibusdam acerbos inimicos mereri quam eos amicos qui dulces videantur; illos verum saepe dicere, hos numquam.' Atque illud absurdum, quod ii, qui monentur, eam molestiam quam debent capere non capiunt, eam capiunt qua debent vacare; peccasse enim se non anguntur, obiurgari moleste ferunt; quod contra oportebat, delicto dolere, correctione gaudere. | Se poi uno ha le orecchie chiuse alla verità e non può ascoltare dall'amico il vero, è il caso di disperare della sua salvezza. Acuto, come molti altri, è un detto di Catone: «Talvolta fanno del bene più i nemici irriducibili degli amici che sembrano compiacenti: i primi dicono spesso il vero, i secondi mai.» Ed ecco un'altra assurdità: chi è rimproverato non prova il dispiacere che dovrebbe provare, ma si dispiace per quello che invece non dovrebbe toccarlo: infatti non si addolora per aver sbagliato, ma si irrita di venir ripreso. Invece dovrebbe provare il contrario: dolore per la colpa e gioia per la correzione. |
Harum igitur duarum ad fidem faciendam iustitia plus pollet, quippe cum ea sine prudentia satis habeat auctoritatis; prudentia sine iustitia nihil valet ad faciendam fidem. Quo enim quis versutior et callidior, hoc invisior et suspectior detracta opinione probitatis. Quam ob rem intellegentiae iustitia coniuncta quantum volet habebit ad faciendam fidem virium, iustitia sine prudentia multum poterit, sine iustitia nihil valebit prudentia. | Di queste due qualità necessarie ad ispirare fiducia ha maggior valore la giustizia, poiché anche senza saggezza essa ha sufficiente prestigio; invece la saggezza senza giustizia non vale ad ispirar fiducia. Quanto più uno è astuto e furbo, tanto più è inviso e sospetto perché gli manca la fama dell'onestà. Per questo motivo la giustizia congiunta all'intelligenza potrà quanto vorrà nell'ispirar fiducia; la giustizia senza la saggezza potrà molto, mentre la saggezza senza la giustizia non varrà niente. |
Tu autem, Fanni, quod mihi tantum tribui dicis quantum ego nec adgnosco nec postulo, facis amice; sed, ut mihi videris, non recte iudicas de Catone; aut enim nemo, quod quidem magis credo, aut si quisquam, ille sapiens fuit. Quo modo, ut alia omittam, mortem filii tulit! memineram Paulum, videram Galum, sed hi in pueris, Cato in perfecto et spectato viro. | Quanto a te, Farinio, quando dici che mi attribuiscono meriti che non mi riconosco né pretendo di avere, ti comporti da amico, ma, a mio parere, sbagli nel giudicare Catone: infatti o nessuno è mai stato saggio - come credo più probabile - o, se ve n'è stato uno, quello fu Catone. Come ha saputo affrontare la morte del figlio, per tralasciare il resto! Mi ricordavo di Emilio Paolo, avevo visto Galo: ma essi persero dei figli in tenera età, Catone perse un uomo maturo e affermato. |
Philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum Latinarum; quae inlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi. In quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi iam esse libri Latini dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest, ut recte quis sentiat et id quod sentit polite eloqui non possit; sed mandare quemquam litteris cogitationes suas, qui eas nec disponere nec inlustrare possit nec delectatione aliqua allicere lectorem, hominis est intemperanter abutentis et otio et litteris.Itaque suos libros ipsi legunt cum suis, nec quisquam attingit praeter eos, qui eandem licentiam scribendi sibi permitti volunt. | La filosofia fu trascurata fino a quest'epoca, e non ha avuto alcuna illuminazione della letteratura latina; noi dobbiamo illustrarla e risvegliarla, così che, se siamo stati utili in qualcosa ai nostri cittadini (mentre eravamo) occupati, se ci riusciamo, siamo utili anche (mentre siamo) oziosi. In questo campo noi dobbiamo impegnarci più di così, poiché si dice che molti libri latini siano già stati scritti con leggerezza da quelli là, senza dubbio ottimi uomini, ma non abbastanza eruditi. Mentre può accadere che qualcuno pensi in modo giusto e non riesca ad esprimere perfettamente ciò che pensa, invece che qualcuno che non sa né ordinare, né illustrare i propri pensieri, né conquistare il lettore con qualche piacere, ordini in letteratura i propri pensieri, è proprio di un uomo che abusa smodatamente dello svago e della letteratura. Perciò, essi stessi leggono i loro libri con i propri amici, e nessuno (li) tocca, a parte coloro che vogliono lasciare per se stessi la stessa libertà di scrivere. |
Atque etiam in rebus prosperis et ad voluntatem nostram fluentibus superbiam magnopere, fastidium arrogantiamque fugiamus. nam ut adversas res, sic secundas inmoderate ferre levitatis est praeclaraque est aequabilitas in omni vita et idem semper vultus eademque frons, ut de Socrate itemque de C. Laelio accepimus. Philippum quidem Macedonum regem rebus gestis et gloria superatum a filio, facilitate et humanitate video superiorem fuisse. Itaque alter semper magnus, alter saepe turpissimus, ut recte praecipere videantur, qui monent, ut, quanto superiores simus, tanto nos geramus summissius.Panaetius quidem Africanum auditorem et familiarem suum solitum ait dicere, "ut equos propter crebras contentiones proeliorum ferocitate exultantes domitoribus tradere soleant, ut iis facilioribus possint uti, sic homines secundis rebus effrenatos sibique praefidentes tamquam in gyrum rationis et doctrinae duci oportere, ut perspicerent rerum humanarum imbecillitatem varietatemque fortunae". | Ancora un avvertimento. Nella prospera fortuna, quando tutto va secondo i nostri desideri, evitiamo quanto più è possibile l'orgoglio, fuggiamo il disprezzo e l'arroganza. È indizio. di gran leggerezza il sopportare senza regola e senza misura cosi la prospera come l'avversa fortuna; mentre è cosa bellissima il mostrarsi eguali a se stessi in ogni momento della vita, e il mantenere sempre lo stesso volto e la stessa fronte, come si racconta di Socrate e di Gaio Lelio. Io leggo nella storia che Filippo, re dei Macedoni, fu bensì superato da suo figlio nella gloria delle imprese militari, ma lo superò di gran lunga nell'affabilità e nella dignità umana; e così, mentre il padre fu grande sempre, il figlio fu spesso brutale; così che hanno evidentemente ragione coloro i quali ci consigliano di comportarci tanto più umilmente quanto più siamo posti in alto. Racconta Panezio che l'Africano, suo discepolo ed amico, soleva dire: "come i cavalli, vibranti di selvaggia fierezza per il frequente slanciarsi nelle battaglie, li affidiamo di solito ai domatori per averli più docili alla mano, così gli uomini, imbaldanziti dalle molte fortune e troppo fiduciosi nelle proprie forze, dobbiamo condurli, per così dire, alla scuola della ragione e della saggezza, perché vi imparino l'instabilità delle cose umane e la mutabilità della fortuna". |
Ad hanc autem rationem quoniam maximam vim natura habet, fortuna proximam, utriusque omnino habenda ratio est in deligendo genere vitae, sed naturae magis; multo enim et firmior est et constantior, ut fortuna nonunquam tamquam ipsa mortalis cum immortali natura pugnare videatur. Qui igitur ad naturae suae non vitiosae genus consilium vivendi omne contulerit, is constantiam teneat (id enim maxime decet) nisi forte se intellexerit errasse in deligendo genere vitae.Quod si acciderit (potest autem accidere) facienda morum institutorumque mutatio est. Eam mutationem si tempora adiuvabunt, facilius commodiusque faciemus; sin minus, sensim erit pedetemptimque facienda, ut amicitias, quae minus delectent et minus probentur, magis decere censent sapientes sensim diluere quam repente praecidere. | E poiché, in questa determinazione, la natura ha il maggior potere, e subito dopo viene la fortuna, dell'una e dell'altra bisogna certamente tener conto nella scelta dello stato, ma più della natura, che è molto più salda e costante, sì che talvolta pare che la fortuna, come mortale, venga in conflitto con l'immortale natura. Chi dunque avrà conformato il proprio tenore di vita alla propria natura, purché non viziosa, si mantenga ad esso coerente (in ciò consiste il maggior decoro), tranne che non s'accorga d'avere errato nella scelta della carriera. In questo caso, che facilmente può darsi, bisogna cambiar sistema di vita. E questo cambiamento sarà tanto più facile e agevole quando le circostanze aiutano; se no, lo si faccia a poco a poco e a passo a passo, a quel modo che le amicizie, che non ci garbano e non ci soddisfano, conviene, a giudizio dei savi, allentarle a poco a poco anziché troncarle d'un tratto. |
Tumultus interim recuperanda re publica et crudelis interitus oratorum trium, Scaevolae Carbonis Antisti, reditus Cottae Curionis Crassi Lentulorum Pompei; leges et iudicia constituta, recuperata res publica; ex numero autem oratorum Pomponius Censorinus Murena sublati. tum primum nos ad causas et privatas et publicas adire coepimus, non ut in foro disceremus, quod plerique fecerunt, sed ut, quantum nos efficere potuissemus, docti in forum veniremus. | Nel frattempo, l'opera di restaurazione dello stato comportò disordini violenti, e ci furono le morti atroci di tre oratori, Scevola, Carbone e Antistio," e il ritorno in patria di Cotta, di Curione, di Crasso, dei Lentuli e di Pompeo; vennero ristabilite la legalità e la normalità giudiziaria, e si ebbe la definitiva restaurazione dello stato; dal novero degli oratori vennero però cancellati Pomponio, Censorino e Murena. Fu solo allora che io incominciai ad affrontare processi privati e penali; e non così da dover imparare nel foro, come hanno fatto i più; nella misura in cui mi era stato possibile, mi ero invece messo in condizione di arrivare nel foro con una formazione già completa. |
[...] Ex quo perspicitur, quom hanc benivolentiam tam late longeque diffusam vir sapiens in aliquem pari virtute praeditum contulerit, tum illud effici (quod quibusdam incredibile videatur, sit autem necessarium) ut <non> in ill<o> sese plus quam alterum diligat: quid enim est quod differat, quom sint cuncta paria? Quod si interesse quippiam tantulum modo potuerit in <ea>, iam amicitiae nomen occiderit, cuius est ea vis ut simul atque sibi aliquid <esse> alter maluerit, nulla sit.Quae praemuniuntur omnia reliquo sermoni disputationique nostrae, quo facilius ius in natura esse positum intellegi possit.De quo quom perpauca dixero, tum ad ius civile veniam, ex quo haec omnis est nata oratio.Quintus:Tu vero iam perpauca scilicet. Ex his enim quae dixisti, <etsi aliter> Attico, videtur mihi quidem certe ex natura ortum esse ius. | [...] dal che si vede che, quando una persona saggia riversi questa benevolenza, che è tanto diffusa, su qualcuno dotato di pari qualità, si verifica allora - cosa che ad alcuni può apparire incredibile, ma è inevitabile - che egli non ami affatto se stesso più dell'altro; che differenza rimarrebbe, se esistesse una assoluta eguaglianza di tutto? Che se nell' amicizia potesse sussistere una benché minima differenza, sparirebbe il nome stesso dell'amicizia, la cui natura è tale, che essa si annulla del tutto non appena uno dei due preferisca per sé qualcosa di diverso dall'altro. Ometto tutti i dettagli che anticipano questa conversazione e discussione, mediante i quali si potrebbe più facilmente intendere che il diritto è insito nella natura. Ed appena avrò dette pochissime parole su di ciò, verrò a quel diritto civile, da cui è nato tutto questo discorso. |
Tullius Tironi sal.Andricus postridie ad me venit, quam exspectaram; itaque habui noctem plenam timoris ac miseriae. Tuis litteris nihilo sum factus certior, quomodo te haberes, sed tamen sum recreatus. Ego omni delectatione litterisque omnibus careo, quas ante, quam te videro, attingere non possum. Medico mercedis quantum poscet promitti iubeto: id scripsi ad Ummium. Audio te animo angi et medicum dicere ex eo te laborare: si me diligis, excita ex somno tuas litteras humanitatemque, propter quam mihi es carissimus; nunc opus est te animo valere, ut corpore possis: id quum tua, tum mea causa facias, a te peto.Acastum retine, quo commodius tibi ministretur. Conserva te mihi: dies promissorum adest, quem etiam repraesentabo, si adveneris. Etiam atque etiam vale. III Idus h. VI. | Tullio (Cicerone) saluta Tirone.Andrico è giunto il giorno dopo rispetto a quando l'aspettavo; pertanto ho trascorso una notte piena di timore e di angoscia. Dalle tue lettere non sono affatto rassicurato sulla tua salute, ma sollevato sì. Per parte mia sono privo di ogni piacere che mi viene dagli studi letterari a cui non sono in grado di dedicarmi prima di averti visto. Fa' promettere al medico quanto onorario chieda. L'ho scritto a Ummio. Sento dire che ti tormenti nell'animo e che il medico dice che questa è la causa del tuo malanno. Se mi vuoi bene, scuoti dal torpore la tua cultura letteraria e la tua sensibilità, perché mi sei molto caro. Ora è necessario che tu stia bene nell'animo per poterlo essere anche nel corpo. Ti chiedo di farlo sia per te che per me. Trattieni Acasto, per essere meglio servito. Riguardati per me. Il giorno della promessa è vicino, che anzi anticiperò se verrai. Ancora una volta (tanti saluti) (e) stammi bene. 2 aprile, verso mezzogiorno. |
Quid habet enim vita commodi? Quid non potius laboris? Sed habeat sane, habet certe tamen aut satietatem aut modum. Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ei docti, saepe fecerunt, neque me vixisse paenitet, quoniam ita vixi, ut non frustra me natum existimem, ut ex vita ita discedo tamquam ex hospitio, non tamquam e domo. Commorandi enim natura devorsorium nobis, non habitandi dedit. O praeclarum diem, cum in illud divinum animorum concilium coetumque proficiscar cumque ex hac turba et conluvione discedam! Proficiscar enim non ad eos solum viros, de quibus ante dixi, verum etiam ad Catonem meum, quo nemo vir melior natus est, nemo pietate praestantior; cuius a me corpus est crematum, quod contra decuit ab illo meum, animus vero, non me deserens sed respectans, in ea profecto loca discessit, quo mihi ipsi cernebat esse veniendum.Quem ego meum casum fortiter ferre visus sum, non quo aequo animo ferrem, sed me ipse consolabar existimans non longinquum inter nos digressum et discessum fore. | Che vi è infatti di gioia nella vita? Che non vi è invece di dolore? Ma abbia pure letizie; ha tuttavia senza dubbio sazietà e limite. Non io vorrò disprezzare la vita, come hanno fatto tanti, anche sapienti; né mi duole di essere vissuto, giacché sono vissuto in modo da poter ritenere di non essere nato invano, e me ne parto dalla vita come da un albergo, non da una dimora. Per sostarvi, non per restarvi la natura ci ha dato la vita. O splendido il giorno in cui partirò per quel divino consesso di anime e taglierò i ponti con questa immonda confusione! Me ne andrò non solo per unirmi a quegli uomini, di cui ho parlato prima, ma soprattutto al mio Catone, del quale non è mai nato uomo migliore o superiore per amore filiale. Ho cremato il suo corpo, quando lui avrebbe dovuto cremare il mio, ma la sua anima non mi ha abbandonato: volgendosi a guardarmi, se ne andava in quel mondo che, come sapeva, avrei raggiunto anch'io. Se vi è parso che sopportassi con coraggio questa mia disgrazia, sappiate che in me non c'era indifferenza, ma intimamente mi consolavo al pensiero che il nostro distacco e la nostra separazione non sarebbero durati a lungo. |
Habes a patre munus, Marce fili, mea quidem sententia magnum, sed perinde erit, ut acceperis. Quamquam hi tibi tres libri inter Cratippi commentarios tamquam hospites erunt recipiendi, sed, ut, si ipse venissem Athenas, quod quidem esset factum, nisi me e medio cursu clara voce patria revocasset, aliquando me quoque audires, sic, quoniam his voluminibus ad te profecta vox est mea, tribues iis temporis, quantum poteris, poteris autem quantum voles.Cum vero intellexero te hoc scientiae genere gaudere, tum et praesens tecum propediem, ut spero, et dum aberis, absens loquar. Vale igitur, mi Cicero, tibique persuade esse te quidem mihi carissimum, sed multo fore cariorem, si talibus monumentis praeceptisque laetabere. | Tu ricevi da parte di tuo padre, o figlio Marco, un dono grande, a parer mio, ma il cui valore dipenderà dalla maniera con cui tu l'accetterai. È vero che dovrai accogliere questi tre libri come ospiti tra i trattati di Cratippo; ma, come avresti potuto udire anche me qualche volta, se fossi venuto ad Atene - e l'avrei fatto, se la patria non mi avesse richiamato con chiara voce mentre mi trovavo a metà viaggio - cosi, dal momento che questi volumi ti portano la mia voce, dedicherai ad essi il tempo che potrai, ma ne potrai quanto ne vorrai. Quando mi accorgerò che tu trai godimento da questo tipo di dottrina, allora con te discorrerà in tua presenza tra poco, come spero, e di lontano finché sarai assente. Stammi bene, mio Cicerone, e convinciti che mi stai moltissimo a cuore, e lo sarai ancora di più, se trarrai godimento da questi ammonimenti e precetti. |
quid tu, Brute? possesne, si te ut Curionem quondam contio reliquisset? Ego vero, inquit ille, ut me tibi indicem, in eis etiam causis, in quibus omnis res nobis cum iudicibus est, non cum populo, tamen si a corona relictus sim, non queam dicere. Ita se, inquam, res habet. ut, si tibiae inflatae non referant sonum, abiciendas eas sibi tibicen putet, sic oratori populi aures tamquam tibiae sunt; eae si inflatum non recipiunt aut si auditor omnino tamquam equus non facit, agitandi finis faciendus est. | E tu, Bruto? Ci saresti riuscito, se l'assemblea ti avesse piantato là, come fece una volta con Curio ne?" "In verità," disse "per mostrarmi a te quale sono, anche in quelle cause in cui si ha a che fare solo con i giudici, non col popolo, tuttavia, se venissi abbandonato dal pubblico, non riuscirei a far parola." A proprio così" dissi. "Come se un flauto, soffiandovi dentro, non desse suono, il flautista penserebbe di doverlo buttare via, così per l'oratore le orecchie del pubblico sono come un flauto; se non ricevono il soffio, o se l'uditorio, come un cavallo, è riottoso, bisogna porre fine agli sforzi. |
Introducti autem Galli ius iurandum sibi et litteras ab Lentulo, Cethego, Statilio ad suam gentem data esse dixerunt, atque ita sibi ab his et a L. Cassio esse praescriptum, ut equitatum in Italiam quam primum mitterent; pedestres sibi copias non defuturas. Lentulum autem sibi confirmasse ex fatis Sibyllinis haruspicumque responsis se esse tertium illum Cornelium, ad quem regnum huius urbis atque imperium pervenire esset necesse; Cinnam ante se et Sullam fuisse.Eundemque dixisse fatalem hunc annum esse ad interitum huius urbis atque imperii, qui esset annus decimus post virginum absolutionem, post Capitoli autem incensionem vice simus. | Dopo Volturcio è la volta dei Galli. Affermano che Publio Lentulo, Cetego e Statilio avevano prestato giuramento e consegnato loro delle lettere indirizzate al popolo allobrogico. Insieme a Lucio Cassio chiedevano ai Galli di inviare al più presto la cavalleria in Italia; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell'anno in corso, il decimo dall'assoluzione delle Vestali e il ventesimo dall'incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l'ineluttabile caduta di Roma e dell'impero. |
Sed vide, quaeso, Caesar, constantiam ornatissimi viri, L. Tuberonis, quam ego quamvis ipse probarem ut probo, tamen non commemorarem nisi a te cognovissem in primis eam virtutem solere laudari. Quae fuit igitur umquam in ullo homine tanta constantia? constantiam dico? nescio an melius patientiam possim dicere. Quotus enim istud quisque fecisset, ut a quibus partibus in dissensione civili non esset receptus, essetque etiam cum crudelitate reiectus, ad eas ipsas partis rediret? Magni cuiusdam animi atque eius viri quem de suscepta causa propositaque sententia nulla contumelia, nulla vis, nullum periculum possit depellere. | Ma osserva, ti prego, o Cesare, la coerenza di quel personaggio molto ragguardevole che è Lucio Tuberone; io, pur approvandola personalmente, come l'approvo, tuttavia mi asterrei dal ricordare, se non sapessi che quella qualità sei solito approvarla tra le prime. Quale coerenza, dunque, si è trovata mai così grande in alcuno? La chiamo coerenza: ma credo che meglio la potrei chiamare resistenza. Quanti, infatti, sarebbero stati così fermi da ritornare in quel partito, dal quale, durante la guerra civile, non erano stati accolti, ed erano stati, anzi, respinti, per giunta con un atto di crudeltà ? E' il comportamento proprio di un uomo veramente magnanimo e tale che nessuna offesa, nessuna violenza, nessun pericolo riuscirebbe a rimuovere dal partito prescelto e dalla decisione adottata. |
De tribus autem reliquis latissime patet ea ratio, qua societas hominum inter ipsos et vitae quasi communitas continetur; cuius partes duae: iustitia, in qua virtutis splendor est maximus, ex qua viri boni nominantur, et huic coniuncta beneficentia, quam eandem vel benignitatem vel liberalitatem appellari licet. Sed iustitiae primum munus est, ut ne cui quis noceat, nisi lacessitus iniuria, deinde ut communibus pro communibus utatur, privatis ut suis. | Fra le altre tre specie dell'onesto, la più ampia ed estesa è quella su cui si fonda la società degli uomini e, per così dire, la comunanza della vita. Due sono le sue parti: la giustizia, che ha in sé il più fulgido splendore della virtù e che conferisce agli uomini il nome di buoni; e, congiunta ad essa, la beneficenza, che può anche chiamarsi generosità o liberalità. Il primo compito, dunque, della giustizia è che nessuno rechi danno ad alcuno, se non provocato a torto; il secondo è che ciascuno adoperi le cose comuni come comuni, le private come private. |
Sed ea animi elatio, quae cernitur in periculis et laboribus, si iustitia vacat pugnatque non pro salute communi, sed pro suis commodis, in vitio est; non modo enim id virtutis non est, sed est potius immanitatis omnem humanitatem repellentis. Itaque probe definitur a Stoicis fortitudo, cum eam virtutem esse dicunt propugnantem pro aequitate. Quocirca nemo, qui fortitudinis gloriam consecutus est insidiis et malitia, laudem est adeptus: nihil enim honestum esse potest, quod iustitia vacat. | Ma quella grandezza d'animo che si manifesta nei pericoli e nelle difficoltà, se manca di giustizia e combatte, non per il pubblico bene, ma per i suoi particolari interessi, è in colpa: perché l'egoismo non solo è estraneo alla virtù, ma piuttosto è proprio della brutalità, che esclude e respinge ogni gentilezza umana. Pertanto gli Stoici ben definiscono la fortezza, quando affermano che essa è quella virtù che combatte in difesa della giustizia. Nessuno, perciò, che abbia conseguito fama di fortezza con inganni e con malizia, ha mai ottenuto una vera gloria: non c'è onestà se non c'è giustizia. |
Videmus item paucis annis post reges exactos, cum plebes prope ripam Anionis ad tertium miliarium consedisset eumque montem, qui Sacer appellatus est, occupavisset, M. Valerium dictatorem dicendo sedavisse discordias, eique ob eam rem honores amplissumos habitos et eum primum ob eam ipsam causam Maxumum esse appellatum. ne L. Valerium quidem Potitum arbitror non aliquid potuisse dicendo, qui post decemviralem invidiam plebem in patres incitatam legibus et contionibus suis mitigaverit. | Vediamo parimenti che pochi anni dopo la cacciata dei re, quando la plebe si accampò sulla riva dell'Aniene, a tre miglia dalla città, e occupò quel monte che fu poi chiamato Sacro, il dittatore Marco Valerio placò con la sua parola le discordie civili: per questo motivo gli vennero tributati i più grandi onori, e sempre per la stessa ragione fu il primo a essere chiamato "Massimo". E ritengo che con l'eloquenza riuscisse a ottenere risultati di una discreta efficacia anche Lucio Valerio Potito, che dopo l'odiosa tirannia dei decemviri seppe mitigare, con leggi e allocuzioni, la collera della plebe nei confronti dei senatori. |
Quid? Cum ista res nihil commovisset eius animum ad quem veneratis, languidiore, credo, studio in causa fuistis; tantum modo in praesidiis eratis, animi vero a causa abhorrebant; an, ut fit in civilibus bellis, nec in vobis magis quam in reliquis? Omnes enim vincendi studio tenebamur. Pacis equidem semper auctor fui, sed tum sero; erat enim amentis, cum aciem videres, pacem cogitare. Omnes, inquam, vincere volebamus: tu certe praecipue, qui in eum locum venisses, ubi tibi esset pereundum nisi vicisses; quamquam, ut nunc se res habet, non dubito quin hanc salutem anteponas illi victoriae. | In verità, quando l'animo di colui che avevate raggiunto restò indifferente dinanzi a codesto vostro comportamento, siete rimasti, sì, nel partito, ma - credo bene - con minor calore; eravate solo fisicamente presenti nelle file, ma il vostro animo era alieno alla causa o, come avviene nelle guerre civili, né in voi più che negli altri; tutti, infatti, eravamo posseduti dalla brama di vittoria. Riconosco che io sono stato consigliere di pace, ma allora era troppo tardi; sarebbe stato da pazzi pensare alla pace di fronte ad un esercito schierato. Tutti, lo ripeto, volevano vincere; tu, certo, più degli altri, giunto, com'eri, a tale punto che, se non avessi vinto, avresti dovuto soccombere. Sebbene, nelle circostanze attuali, son sicuro che tu preferisci questa salvezza a quella vittoria. |
addunt ad extremum omnia levius casura rebus divinis procuratisi Si enim nihil fit extra fatum, nihil levari re divina potest. Hoc sentit Homerus, cum querentem Iovem inducit, quod Sarpedonem filium a morte contra fatum eripere non posset. Hoc idem significat Graecus ille in eam sententiam versus:"quod fore paratum est, id summum exsuperat Iovem."Totum omnino fatum etiam Atellanio versu iure mihi esse inrisum videtur; sed in rebus tam severis non est iocandi locus.Concludatur igitur ratio: si enim provideri nihil potest futurum esse eorum quae casu fiunt, quia esse certa non possunt, divinatio nulla est; sin autem idcirco possunt provideri, quia certa sunt et fatalia, rursus divinatio nulla est; eam enim tu fortuitarum rerum esse dicebas.Sed haec fuerit nobis tamquam levis armaturae prima orationis excursio; nunc comminus agamus experiamurque si possimus cornua commovere disputationis tuae. | aggiungono, alla fine, che tutto potrà andar meglio se si compiranno riti di espiazione? Se nulla può accadere contro i decreti del fato, nulla può essere alleviato con cerimonie religiose. Lo ha inteso bene Omero, là dove ci mostra Giove che si lamenta di non poter strappare alla morte suo figlio Sarpedonte contro i decreti del fato. Uguale è il significato di quel verso greco che, quanto al significato, dice:"Ciò che è decretato dal destino è più forte di Giove, il dio sommo."Il destino in generale mi sembra che sia giustamente deriso anche da un verso di un'Atellana; ma in faccende così serie non è il caso di scherzare. Concludiamo dunque la nostra argomentazione: se nessuno degli eventi che accadono per caso può essere previsto, poiché non possono avvenire sicuramente, non esiste alcuna divinazione; se invece gli eventi si possono prevedere, perché sono certi e predestinati, ancora una volta non esiste alcuna divinazione: l'hai detto tu, che la divinazione riguarda gli eventi casuali.Ma questa io la considero come la prima sortita del mio ragionamento, come quella delle truppe armate alla leggera; ora veniamo ai ferri corti e proviamo se ci riesce di attaccare alle ali la tua argomentazione. |
Quae ergo ad vitam hominum tuendam pertinent, partim sunt inanima, ut aurum, argentum, ut ea, quae gignuntur e terra, ut alia generis eiusdem, partim animalia, quae habent suos impetus et rerum appetitus. Eorum autem rationis expertia sunt, alia ratione utentia. Expertes rationis equi, boves, reliquae pecudes, apes, quarum opere efficitur aliquid ad usum hominum atque vitam. Ratione autem utentium duo genera ponunt, deorum unum, alterum hominum. Deos placatos pietas efficiet et sanctitas; proxime autem et secundum deos homines hominibus maxime utiles esse possunt. | Le cose che riguardano la conservazione della vita umana sono in parte inanimate, come l'oro, l'argento, i prodotti della terra ed altre del medesimo genere, in parte sono animate, ed hanno i propri istinti e appetiti. Tra queste, parte è priva di ragione, parte, invece, ne è fornita. Privi di ragione sono i cavalli. I buoi, gli altri animali domestici, [le api,] il cui lavoro produce alcuni vantaggi per l'uomo e la sua vita. Due sono le classi di coloro che sono forniti di ragione, una è quella degli dei, l'altra è quella degli uomini. Il sentimento di pietà e di reverenza ci renderà propizi gli dei; ma dopo gli dei e seguendo subito dopo di essi gli uomini, possono essere soprattutto utili agli uomini. |
Cum enim legati renuntiarint, quod certe renuntiabunt, non in vestra potestate, non in senatus esse Antonium, quis erit tam inprobus civis qui illum civem habendum putet? Nunc enim sunt pauci illi quidem, sed tamen plures, quam re publica dignum est, qui ita loquantur: "Ne legatos quidem expectabimus?" Istam certe vocem simulationemque clementiae extorquebit istis res ipsa [publica]. Quo etiam, ut confitear vobis, Quirites, minus hodierno die contendi, minus laboravi, ut mihi senatus adsentiens tumultum decerneret, saga sumi iuberet.Malui viginti diebus post sententiam meam laudari ab omnibus quam a paucis hodie vituperari. | Infatti quando i delegati avranno annunciato, poiché di certo lo annunceranno, che Antonio non è in vostro potere, né in potere del senato, chi sarà cittadino tanto improbo da ritenere che lo si debba stimare meritatamente un cittadino? Ora infatti sono di certo pochi, ma tuttavia più numerosi di quanto sia degno dello stato, quelli che parlano così: "Non aspetteremo nemmeno i delegati?". La cosa stessa di certo estorcerà a questi, questa voce e simulazione di clemenza. E perciò anche, per farvi delle confessioni, Quiriti, oggi mi sono sforzato meno, mi sono affannato meno, affinché il senato, dandomi il proprio assenso, dichiarasse lo stato di guerra, ordinasse di prendere le armi. Ho preferito che la mia proposta fosse approvata venti giorni dopo da tutti, che biasimata oggi da pochi. |
(Scipio) facile in civitatem receptus esset, propter umanitatem atque doctrinam Anco regi familiaris est factus usque eo ut consiliorum omnium particeps et socius paene regni putaretur. Erat in eo praeterea summa comitas, summa in omnis civis opis, auxilii, defensionis, largiendi etiam benignitas. Itaque mortuo Marcio cunctis populi suffragiis rex est creatus L. Tarquinius; sic enim suum nomen ex Graeco nomine inflexerat, ut in omni genere huius populi consuetudinem videretur imitatus.Isque ut de suo imperio legem tulit, principio duplicavit illum pristinum patrum numerum, et antiquos patres maiorum gentium appellavit, quos priores sententiam rogabat, a se adscitos minorum. | (Parla Scipione) essendogli stato concessa facilmente la cittadinanza, per l’umanità e la cultura divenne amico del re Anco a tal punto, da essere ritenuto partecipe di tutte le decisioni e quasi alleato del regno. Inoltre c’era in lui una grandissima affabilità, e aveva la massima generosità nell'elargire verso tutti i cittadini ricchezze, assistenza e patrocini giudiziari. E così morto Marcio con tutti i voti del popolo fu eletto re L. Tarquinio; così infatti aveva cambiato il suo nome dal nome greco, affinché sembrasse che avesse assimilato in ogni aspetto i costumi di questo (nuovo) popolo. Ed egli, non appena fu ratificata la sua elezione (lett. non appena ottenne la legge sul suo comando), per prima cosa raddoppiò il vecchio numero dei patrizi, e chiamò quelli vecchi "padri delle famiglie maggiori", e a questi chiedeva i pareri per primi, e quelli nominati da lui "(padri delle famiglie) minori". |
Atque interea statim admonitu Allobrogum C. Sulpicium praetorem, fortem virum, misi, qui ex aedibus Cethegi, si quid o telorum esset, efferret; ex quibus ille maximum sicarum numerum et gladiorum extulit. Introduxi Volturcium sine Gallis; fidem publicam iussu senatus dedi; hortatus sum, ut ea, quae sciret sine timore indicaret. Tum ille dixit, cum vix se ex magno timore recreasset, a P. Lentulo se habere ad Catilinam mandata et litteras, ut servorum praesidio uteretur, ut ad urbem quam primum cum exercitu accederet; id autem eo consilio, ut, cum urbem ex omnibus partibus, quem ad modum discriptum distributumque erat, incendissent caedemque infinitam civium fecissent, praesto esset ille, qui et fugientis exciperet et se cum his urbanis ducibus coniungeret. | Nel contempo, su consiglio degli Allobrogi, ho mandato in casa di Cetego il pretore Caio Sulpicio, uomo di una certa tempra, a sequestrare le armi che avesse trovato. Ha requisito pugnali e spade a non finire. Introduco Volturcio senza i Galli. Col permesso del Senato, gli garantisco l'impunità. Lo esorto a rivelare senza paura quanto sa. Allora lui, riprendendosi a stento da una gran paura, dice di aver ricevuto da Publio Lentulo delle indicazioni e una lettera per Catilina in cui gli si diceva di ricorrere agli schiavi e dirigersi al più presto a Roma con l'esercito. La loro intenzione era di incendiare la città in ogni zona, come era stato stabilito in partenza, e di procedere al massacro della cittadinanza intera: Catilina doveva trovarsi sul posto per catturare i fuggiaschi e unirsi ai capi rimasti a Roma. |
O fortunatam rem publicam, si quidem hanc sentinam urbis eiecerit! Uno me hercule Catilina exhausto levata mihi et recreata res publica videtur. Quid enim mali aut sceleris fingi aut cogitari potest, quod non ille conceperit? Quis tota Italia veneficus, quis gladiator, quis latro, quis sicarius, quis parricida, quis testamentorum subiector, quis circumscriptor, quis ganeo, quis nepos, quis adulter, quae mulier infamis, quis corruptor iuventutis, quis corruptus, quis perditus inveniri potest, qui se cum Catilina non familiarissime vixisse fateatur? Quae caedes per hosce annos sine illo facta est, quod nefarium stuprum non per illum? | O fortunato lo Stato, se riuscirà a mandar via questa feccia della città! Per Ercole, mi sembra che, una volta cacciato solo Catilina, lo Stato sia sollevato e rinato. Infatti, quale male o scelleratezza si potrebbe immaginare o pensare che non sia stato concepito da lui? In tutta l'Italia, quale avvelenatore, quale gladiatore, quale ladro, quale sicario, quale parricida, quale falsificatore di testamenti, quale truffatore, quale depravato, quale dissipatore, quale adultero, quale prostituta, quale corruttore della gioventù, quale corrotto, quale sciagurato non ammetterebbe di aver vissuto con Catilina molto vicino? Quale strage è stata compiuta in questi anni senza di lui, quale turpe violenza (è stata eseguita) se non per opera sua? |
Ego autem iuris civilis studio multum operae dabam Q. Scaevolae P. f., qui quamquam nemini <se> ad docendum dabat, tamen consulentibus respondendo studiosos audiendi docebat. atque huic anno proxumus Sulla consule et Pompeio fuit. tum P. Sulpici in tribunatu cotidie contionantis totum genus dicendi penitus cognovimus; eodemque tempore, cum princeps Academiae Philo cum Atheniensium optumatibus Mithridatico bello domo profugisset Romamque venisset, totum ei me tradidi admirabili quodam ad philosophiam studio concitatus; in quo hoc etiam commorabar adtentius—etsi rerum ipsarum varietas et magnitudo summa me delectatione retinebat—, sed tamen sublata iam esse in perpetuum ratio iudiciorum videbatur. | lo, avendo un forte interesse per il diritto civile, seguivo con grande assiduità Quinto Scevola figlio di Publio, il quale, sebbene in nessun caso si prestasse a insegnare, tuttavia, nel rispondere a quanti lo consultavano, insegnava a coloro che mettevano impegno nell'ascoltarlo. E l'anno successivo a questo fu quello del consolato di Silla e di Pompeo. Allora potei conoscere a fondo tutto il genere d'eloquenza di Publio Sulpicio, che nel corso del suo tribunato parlava quotidianamente di fronte all'assemblea popolare; e nello stesso periodo, una volta che il capo dell'accademia, Filone, fuggito dalla sua patria insieme ai maggiorenti di Atene in seguito alla guerra mitridatica, si fu stabilito a Roma, mi dedicai interamente a lui, animato da uno straordinario trasporto per la studio della filosofia; in esso indugiavo con interesse tanto più vivo - è vero che mi avvincevano la stessa varietà e importanza dei problemi, con l'immenso piacere che mi procuravano, ma tuttavia la normalità giudiziaria pareva abolita per sempre. |
Ardebat autem cupiditate sic, ut in nullo umquam flagrantius studium viderim. nullum enim patiebatur esse diem quin aut in foro diceret aut meditaretur extra forum. saepissume autem eodem die utrumque faciebat. adtuleratque minime volgare genus dicendi; duas quidem res quas nemo alius: partitiones, quibus de rebus dicturus esset, et conlectiones, memor et quae essent dicta contra quaeque ipse dixisset. | Tanto ardeva d'entusiasmo, che in nessuno ho visto un'applicazione più fervida. Infatti non lasciava passare giorno senza parlare nel foro o prepararsi fuori del foro; e molto spesso in uno stesso giorno faceva tutte e due le cose. Aveva introdotto un genere oratorio proprio fuori del comune; due cose specialmente erano solo sue: le partizioni, cioè di quali argomenti avrebbe trattato, e le ricapitolazioni, memore com'era di quel che era stato detto dalla parte avversa e di quel che aveva detto lui stesso. |
Tum Brutus: volui id quidem efficere certe et capio magnum fructum, si quidem quod volui tanta in re consecutus sum. sed scire cupio, quae te Attici litterae delectaverint. Istae vero, inquam, Brute, non modo delectationem mihi, sed etiam, ut spero, salutem adtulerunt. Salutem? inquit ille. quodnam tandem genus istuc tam praeclarum litterarum fuit? An mihi potuit, inquam, esse aut gratior ulla salutatio aut ad hoc tempus aptior quam illius libri, quo me hic adfatus quasi iacentem excitavit? | Allora Bruto: "Proprio questo mi proponevo, e mi sento ben ricompensato, se in un compito tanto importante ho ottenuto ciò che volevo. Ma vorrei sapere quale sia lo scritto di Attico che ti ha procurato tanto piacere". "Codesta opera, Bruto," dissi "non solo mi ha arrecato piacere, ma anche, come spero, la salvezza." "La salvezza?" fece lui. "E di quale mai specie meravigliosa di scritto si trattava?" "Poteva forse esserci per me un saluto" più gradito o più adatto a questi tempi che la dedica di quel libro col quale, rivolgendosi a me, mi rialzò dal mio abbattimento?" |
T. Torquatus T. f. et doctus vir ex Rhodia disciplina Molonis et a natura ad dicendum satis solutus atque expeditus, cui si vita suppeditavisset, sublato ambitu consul factus esset, plus facultatis habuit ad dicendum quam voluntatis. itaque studio hui c non satisfecit, officio vero nec in suorum necessariorum causis nec in sententia senatoria defuit. | Tito Torquato figlio di Tito, formatosi a Rodi alla scuola di Molone, e dotato per natura di una discreta scioltezza e facilità di parola - se fosse vissuto abbastanza, una volta eliminati i brogli elettorali sarebbe stato eletto console -, ebbe, per l'eloquenza, più talento che volontà. Perciò non vi si applicò quanto sarebbe stato necessario, ma non venne meno ai propri doveri né nei processi degli amici, né nelle deliberazioni del senato. |
"At omnes reges, populi, nationes utuntur auspiciis." Quasi vero quicquam sit tam valde quam nihil sapere vulgare, aut quasi tibi ipsi in iudicando placeat multitudo! Quotus quisque est, qui voluptatem neget esse bonum? Plerique etiam summum bonum dicunt. Num igitur eorum frequente Stoici de sententia deterrentur? Aut num plerisque in rebus sequitur eorum auctoritatem multitudo? Quid mirum igitur si in auspiciis et in omni divinatione imbecilli animi superstitiosa ista concipiant, verum dispicere non possint? Quae autem est inter augures conveniens et coniuncta constantia? Ad nostri augurii consuetudinem dixit Ennius:"tum tonuit laevum bene tempestate serena."At Homericus Aiax apud Achillem querens de ferocitate Troianorum nescio quid hoc modo nuntiat:"prospera Iuppiter his dextris fulgoribus edit."Ita nobis sinistra videntur, Graiis et barbaris dextra meliora; quamquam haud ignoro, quae bona sint, sinistra nos dicere, etiamsi dextra sint; sed certe nostri sinistrum nominaverunt externique dextrum, quia plerumque id melius videbatur.Haec quanta dissensio est! Quid quod aliis avibus utuntur, aliis signis, aliter observant, alia respondent? Non necesse est fateri partim horum errore susceptum esse, partim superstitione, multa fallendo? | "Ma tutti i re, i popoli, le genti ricorrono agli auspicii. Come se ci fosse qualcosa di tanto diffuso quanto il non capir nulla, o come se anche tu, nel giudicare su qualche problema, ti attenessi all'opinione della moltitudine! Quanti sono quelli che negano che il piacere sia un bene? secondo i più, è addirittura il sommo bene. Dunque il loro gran numero induce gli stoici ad abbandonare la loro dottrina? O, d'altra parte, la moltitudine segue per lo più, nel modo di comportarsi, l'autorità degli stoici? Qual meraviglia, dunque, se a proposito degli auspicii e di ogni genere di divinazione le menti deboli accolgono tutte queste credenze superstiziose e non sono capaci di scorgere la verità? Quale coerenza, poi, basata su accordo e comunanza di idee, c'è fra gli àuguri? Uniformandosi all'usanza della nostra pratica augurale, Ennio disse:"Allora tuonò da sinistra nel cielo perfettamente sereno."Ma l'Aiace omerico, lamentandosi con Achille della combattività dei troiani, si esprime press'a poco così:"Ad essi Giove diede presagi favorevoli con lampi inviati da destra."Dunque, a noi i segni da sinistra sembrano più propizi, ai greci e ai barbari quelli da destra. Beninteso, non ignoro che i presagi favorevoli li chiamiamo talvolta "sinistri", anche se vengono da destra; ma certamente i nostri chiamarono sinistro l'auspicio e gli stranieri lo chiamarono destro, perché nella maggior parte dei casi esso sembrava loro migliore. Che grave discordanza! E che dire del fatto che dànno valore a uccelli diversi, a segni diversi, seguono metodi d'osservazione diversi, pronunciano responsi diversi? Non bisognerà ammettere che una parte di queste divergenze derivi da errori, un'altra da superstizione, molte da volontà d'imbrogliare? |
Quintus:Equidem ista agnosco frater, et meritas dis gratias ago. Sed nimis saepe secus aliquanto videmus evadere.Marcus:Non enim Quinte recte existimamus quae poena divina sit, sed opinionibus vulgi rapimur in errorem, nec vera cernimus. Morte aut dolore corporis aut luctu animi aut offensione iudicii hominum miserias ponderamus, quae fateor humana esse et multis bonis viris accidisse. Sceleri <ipsi in>est poena tristis et praeter eos eventus qui secuntur per se ipsa maxima est: vidimus eos, qui nisi odissent patriam numquam inimici nobis fuissent, ardentis tum cupiditate, tum metu, tum conscientia quid<quid> agerent, modo timentis, vicissim contemnentis religiones, iudicia corrupta ab isdem <corrupta> - hominum, non deorum. | Quinto:So tutto questo, fratello, e ne ringrazio gli dèi perché lo meritano; ma mi sembra che troppo spesso stiamo divagando un po'.Marco:Infatti non sappiamo valutare esattamente, Quinto, quale sia il castigo divino, ma dalle opinioni del popolino siamo indotti in errore e non vediamo il vero; noi misuriamo le miserie umane o in base alla morte o al dolore fisico o alla tristezza spirituale o all'onta di un processo; tutti fatti che ammetto essere inerenti alla natura umana e che sono accaduti a molti uomini dabbene. Ma la punizione di un delitto è triste, e, pur prescindendo dalle conseguenze, è già gravissima di per se stessa. Vediamo coloro, i quali mai avrei avuto come avversari se non avessero odiato la patria, ora bruciati da cupidigia, ora da timore, ora da rimorso, ora dubbiosi, qualunque cosa facciano, e d'altra parte sprezzanti della religione; i processi inquinati da costoro, per disonestà di uomini, non per volontà degli dèi. |
Ex hoc genere illud est Ennii,utinam ne in nemore Pelio securibuscaesae accidissent abiegnae ad terram trabes!Licuit vel altius: 'Utinam ne in Pelio nata ulla umquam esset arbor!' etiam supra: 'Utinam ne esset mons ullus Pelius!' similiterque superiora repetentem regredi infinite licet.Neve inde navis inchoandi exordiumcepisset.Quorsum haec praeterita? quia sequitur illud,Nam numquam era errans mea domo ecferret pedemMedea, animo aegra, amore saevo saucia,non erat ut eae res causam adferrent amoris. | Di tale tenore sono quei ben noti versi di Ennio:O se nel bosco del Pelio, dalle scuriabbattuti, non fossero mai caduti al suolo i tronchi d'abete!Si sarebbe potuto risalire addirittura più indietro: "O se sul Pelio non fosse mai nato un albero!", o ancora prima: "O se non fosse mai esistito un monte Pelio!" e si potrebbe, seguitando identicamente a ritroso nel tempo, procedere all'infinito.Se da lì la costruzione di una navenon avesse avuto principio!A che scopo ripercorre il tempo trascorso? Segue infatti quel celebre passo:Giammai la mia signora, Medea, vagando, avrebbe lasciatola casa, con l'animo afflitto, ferita da fiera passione,ma non perché quei fatti comportassero la causa della sua passione. |
Hoc bellum quintum civile geritur (atque omnia in nostram aetatem inciderunt) primum non modo non in dissensione et discordia civium, sed in maxima consensione incredibilique concordia. Omnes idem volunt, idem defendunt, idem sentiunt. Cum omnes dico, eos excipio, quos nemo civitate dignos putat. Quae est igitur in medio belli causa posita? Nos deorum immortalium templa, nos muros, nos domicilia sedesque populi Romani, aras, focos, sepulchra maiorum, nos leges, iudicia, libertatem, coniuges, liberos, patriam defendimus; contra M.Antonius id molitur, id pugnat, ut haec omnia perturbet, evertat, praedam rei publicae causam belli putet, fortunas nostras partim dissupet, partim dispertiat parricidis. | Questa guerra civile è la quinta che si fa (e inoltre tutte capitarono durante la nostra vita), non soltanto non in dissenso e discordia dei cittadini, ma in grandissimo accordo e incredibile concordia. Tutti vogliono la stessa cosa, difendono la stessa cosa, provano la stessa cosa. Dunque qual è la causa posta in mezzo alla guerra? Proprio noi difendiamo i templi degli dei immortali, noi le mura, noi le abitazioni e le cose del popolo romano, gli alòtari, le famiglie, le tombe degli avi, noi le leggi, i progressi, la libertà, le mogli, i figli, la patria; Marco Antonio ardisce al contrario contro questo, per questo combatté, per sconvolgere, per aizzare tutte queste cose, per chiamare alla guerra la preda per la causa della repubblica, in parte per dissipare in parte le nostre fortune, in parte per cosparger(le) qua e là con parricidi. |
Quid autem aliud egimus, Tubero, nisi ut quod hic potest non possemus? Quorum igitur impunitas, Caesar, tuae clementiae laus est, eorum ipsorum ad crudelitatem te acuet oratio? Atque in hac causa non nihil equidem, Tubero, etiam tuam sed multo magis patris tui prudentiam desidero, quod homo cum ingenio tum etiam doctrina excellens genus hoc causae quod esset non viderit; nam si vidisset, quovis profecto quam isto modo a te agi maluisset. Arguis fatentem.Non est satis; accusas eum qui causam habet aut, ut ego dico, meliorem quam tu, aut, ut tu vis, parem. | Che altro abbiamo tentato di fare, o,Tuberone, se non raggiungere il potere che ora detiene il qui presente [Cesare]? Dunque, sarà proprio la parola di quelli, la cui impunità rappresenta, o Cesare, l'elogio della tua clemenza, a incitarti alla crudeltà? In questo processo sento non poco la mancanza della tua saggezza, o Tuberone, ma molto più di tuo padre, perché un uomo come lui, d'ingegno così fine come anche di cultura, non ha scorto questo carattere della causa. Ché, se l'avesse scorto, avrebbe preferito, certo, vederla trattare da te in qualsiasi modo piuttosto che in questo. Tu provi la colpevolezza d'un reo confesso. Non basta: accusi uno che si trova in una posizione giuridicamente migliore della tua, come affermo io, o ad essa pari, come sostieni tu. |
Quare, patres conscripti, consulite vobis, prospicite patriae, conservate vos, coniuges, liberos fortunasque vestras, populi Romani nomen salutemque defendite; mihi parcere ac de me cogitare desinite. Nam primum debeo sperare omnis deos, qui huic urbi praesident, pro eo mihi, ac mereor, relaturos esse gratiam; deinde, si quid obtigerit, aequo animo paratoque moriar. Nam neque turpis mors forti viro potest accidere neque immatura consulari nec misera sapienti.Nec tamen ego sum ille ferreus, qui fratris carissimi atque amantissimi praesentis maerore non movear horumque omnium lacrumis, a quibus me circumsessum videtis Neque meam mentem non domum saepe revocat exanimata uxor et abiecta metu filia et parvulus filius quem mihi videtur amplecti res publica tamquam ob sidem consulatus mei, neque ille, qui expectans huius exitum diei stat in conspectu meo, gener. Moveo his rebus omnibus, sed in eam partem, uti salvi sint vobiscum omnes, etiamsi me vis aliqua oppresserit, potius, quam et illi et nos una rei publicae peste pereamus. | Quindi, padri coscritti, provvedete a voi stessi! Pensate al futuro della patria! Salvate la vostra vita, quella delle vostre mogli, dei vostri figli, salvate le vostre proprietà! Difendete la gloria e il futuro del popolo romano! Smettete di preoccuparvi, di darvi pensiero per me! In primo luogo, infatti, voglio sperare che tutti gli dèi che proteggono Roma mi ricompenseranno secondo i miei meriti. Poi, se dovesse capitarmi qualcosa, saprò morire con animo preparato e sereno: la morte non può essere vergognosa per il valoroso, né prematura per chi è stato console, né triste per il saggio. Tuttavia non sono così di ferro da restare insensibile all'angoscia del mio caro e affezionato fratello, qui presente, e alle lacrime di tutti coloro che mi vedete intorno. Né la mia mente si astiene dal tornare spesso a casa, richiamata da mia moglie, completamente prostrata, da mia figlia, sconvolta dalla paura, dal mio piccolo figlio, che mi sembra stretto tra le braccia della repubblica come ostaggio per il mio operato di console, e infine da mio genero, che sta qui davanti ad aspettare l'esito di questa giornata. Tutto ciò mi procura ansia, un'ansia che mi spinge però a voler salvare tutti loro insieme a voi, anche a costo della mia vita, piuttosto che morire noi e loro nella distruzione dello Stato. |
Nam quibusdam, quos audio sapientes habitos in Graecia, placuisse opinor mirabilia quaedam (sed nihil est quod illi non persequantur argutiis): partim fugiendas esse nimias amicitias, ne necesse sit unum sollicitum esse pro pluribus; satis superque esse sibi suarum cuique rerum, alienis nimis implicari molestum esse; commodissimum esse quam laxissimas habenas habere amicitiae, quas vel adducas, cum velis, vel remittas; caput enim esse ad beate vivendum securitatem, qua frui non possit animus, si tamquam parturiat unus pro pluribus. | Alcuni che, a quanto sento dire, vennero considerati sapienti in Grecia, hanno sostenuto tesi a mio giudizio paradossali (ma non esiste argomento su cui non cavillino). Una parte afferma che dobbiamo rifuggire dalle amicizie eccessive, per evitare che uno solo si tormenti per molti; a ciascuno bastano e avanzano i propri problemi e farsi carico di quelli altrui è una bella noia. La cosa migliore, secondo loro, è allentare più che si può le briglie dell'amicizia, tirandole o lasciandole andare a proprio piacere; essenziale per vivere bene è la tranquillità, di cui l'animo non può godere se, per così dire, fosse uno solo a sopportare il travaglio per tutti. |
Addunt etiam, quemadmodum nos dicamus videri quaedam utilia, quae non sint, sic se dicere videri quaedam honesta, quae non sunt, ut hoc ipsum videtur honestum conservandi iuris iurandi causa ad cruciatum revertisse, sed fit non honestum, quia, quod per vim hostium esset actum, ratum esse non debuit. Addunt etiam, quicquid valde utile sit, id fieri honestum, etiam si antea non videretur. Haec fere contra Regulum. Sed prima videamus. | Aggiungono anche che, come noi diciamo che ci sembrano utili alcune cose che non lo sono, così essi dicono che sembrano oneste alcune cose che non lo sono; ad esempio può apparire onesto proprio l'esser tornato al supplizio per mantenere un giuramento, ma finisce coi divenire non onesto, perché quanto si fa costretti dai nemici non avrebbe dovuto esser mantenuto. Aggiungono anche che tutto ciò che è molto utile diventa onesto, anche se in precedenza non sembrava tale. Queste, all'incirca, sono le obiezioni rivolte a Regolo. Ma esaminiamo la prima. |
Etenim virtus omnis tribus in rebus fere vertitur, quarum una est in perspiciendo, quid in quaque re verum sincerumque sit, quid consentaneum cuique, quid consequens, ex quo quaeque gignantur, quae cuiusque rei causa sit, alterum cohibere motus animi turbatos, quos Graecipathenominant, appetitionesque, quas illihormas, oboedientes efficere rationi, tertium iis, quibuscum congregemur, uti moderate et scienter, quorum studiis ea, quae natura desiderat, expleta cumulataque habeamus, per eosdemque, si quid importetur nobis incommodi, propulsemus ulciscamurque eos, qui nocere nobis conati sint, tantaque poena adficiamus, quantam aequitas humanitasque patiatur. | Infatti ogni virtù è riposta, genericamente, in tre aspetti: il primo consiste nel vedere che cosa sia sincero e vero in qualsiasi azione, che cosa sia conveniente a ciascuno, quanto sia conseguente e quanto derivi da ciascuna cosa, quale ne sia la causa; il secondo consiste nel frenare le tumultuose passioni dell'animo, che i Greci chiamanopathe, e rendere obbedienti alla ragione gli istinti,hormas, come essi dicono; il terzo consiste nel comportarsi in maniera moderata e riflessiva verso coloro coi quali conviviamo, a finché, col loro aiuto, possiamo ottenere in grande abbondanza quello che la natura richiede, ma anche per respingere, per mezzo di quegli stessi, quanto eventualmente ci rechi danno e per vendicarci di coloro che abbiano tentato di nuocerci, e per infligger loro una pena in quella misura che lo consentano la giustizia ed il senso d'umanità. |
Sed de Graecis hactenus; et enim haec ipsa forsitan fuerint non necessaria. Tum Brutus: ista vero, inquit, quam necessaria fuerint non facile dixerim; iucunda certe mihi fuerunt neque solum non longa, sed etiam breviora quam vellem. Optime, inquam, sed veniamus ad nostros, de quibus difficile est plus intellegere quam quantum ex monumentis suspicari licet. | Ma basta con i greci; e forse anche questo che ho detto potrebbe non essere stato necessario." E Bruto: "Quanto sia stato necessario" fece "non mi sarebbe facile dirlo; certo per me è stato piacevole, e si è trattato di un'esposizione non solo non lunga, ma anche più breve di quanto avrei desiderato". "Benissimo;" dissi "ma veniamo ai nostri connazionali, sui quali è difficile saperne di più di quel che permettono di congetturare i documenti della tradizione. |
multum etiam in causis versabatur isdem fere temporibus D. Brutus, is qui consul cum Mamerco fuit, homo et Graecis doctus litteris et Latinis. dicebat etiam L. Scipio non imperite Gnaeusque Pompeius Sex. f. aliquem numerum obtinebat. nam Sex. frater e ius praestantissimum ingenium contulerat ad summam iuris civilis et ad perfectam geometriae rerumque Stoicarum scientiam. itam in iure et ante hos M. Brutus et paulo post eum C. Billienus homo per se magnus prope simili ratione summus evaserat; qui consu l factus esset, nisi in Marianos consulatus et in eas petitionis angustias incidisset. | Molto anche si occupava di cause, all'incirca nello stesso periodo, Decimo Bruto, "O quello che fu console con Mamerco, uomo ricco di cultura greca e latina. Anche Lucio Scipione non parlava senza abilità, e Gneo Pompeo figlio di Sesto godeva di una certa considerazione. Invece suo fratello Sesto aveva rivolto il proprio eccezionale ingegno ai più alti studi di diritto civile, e alla più completa conoscenza della geometria e della filosofia stoica, valenti nel diritto prima di costoro Marco Bruto e poco dopo di lui, in maniera quasi analoga, aveva conquistato una posizione preminente Gaio Billieno uomo che si era fatto grande da solo. Egli sarebbe stato eletto console, se non fosse capitato in mezzo ai consolati di Mario, e al restringersi delle possibilità di competizione. |
Verum haec genera virtutum non solum in moribus nostris, sed vix iam in libris reperiuntur. Chartae quoque, quae illam pristinam severitatem continebant, obsoleverunt; neque solum apud nos, qui hanc sectam rationemque vitae re magis quam verbis secuti sumus, sed etiam apud Graecos, doctissimos homines, quibus, cum facere non possent, loqui tamen et scribere honeste et magnifice licebat, alia quaedam mutatis Graeciae temporibus praecepta exstiterunt. | Tuttavia quei tipi di virtù, non solo non si trovano nei nostri costumi, ma ormai a mala pena nei libri. Persino le carte, che racchiudevano quell’antico rigore, si sono logorate ; e non presso di noi, che seguimmo quella condotta. e tenore di vita più con l’azione che con le parole, anche presso i Greci, uomini coltissimi, che quando non poterono agire, tuttavia ama-vano(-rono) raccontare e scrivere virtuosamente e solennemente, per i quali allo stesso modo, mutate le circostanze, derivarono certe altre norme. |
De ipsius Laeli et Scipionis ingenio quamquam ea est fama, ut plurimum tribuatur ambobus, dicendi tamen laus est in Laelio inlustrior. at oratio Laeli de collegiis non melior quam de multis quam voles Scipionis; non quo illa Laeli quicquam sit dulcius aut quo de religione dici possit augustius, sed multo tamen vetustior et horridior ille quam Scipio; et, cum sint in dicendo variae voluntates, delectari mihi magis antiquitate videtur et lubenter verbis etiam uti paulo magis priscis Laelius. | Per ciò che riguarda l'ingegno di Lelio e di Scipione, sebbene tale ne sia la fama, che ambedue godo no di un altissimo apprezzamento, nell'eloquenza è tuttavia più insigne la reputazione di Lelio. Eppure l'orazione di Lelio sui collegi non è migliore di una qualsiasi tra le molte di Scipione; non perché vi sia qualcosa di più gradevole di quel celebre discorso di Lelio, o perché della religione si possa parlare in termini più augusti; tuttavia egli è molto più vetusto e ruvido di Scipione; e, poiché nell'eloquenza le inclinazioni sono varie, a me pare che Lelio si compiaccia maggiormente di una maniera antiquata, e che volentieri faccia anche ricorso a vocaboli notevolmente più arcaici. |
Ita enim multa tum contra scriptum pro aequo et bono dixit, ut hominem acutissimum Q. Scaevolam et in iure, in quo illa causa vertebatur, paratissimum obrueret argumentorum exemplorumque copia; atque ita tum ab his patronis aequalibus et iam consularibus causa illa dicta est, cum uterque ex contraria parte ius civile defenderet, ut eloquentium iuris peritissimus Crassus, iuris peritorum eloquentissimus Scaevola putaretur. qui quidem cum peracutus esset ad excogitandum quid in iure aut in aequo verum aut esset aut non esset, tum verbis erat ad rem cum summa brevitate mirabiliter aptus. | Trovò infatti tante cose da dire contro la lettera della legge, in favore dell'equità e della giustizia, da schiacciare con la massa degli argomenti e degli esempi un uomo come Quinto Scevola, acutissimo e preparatissimo nelle questioni giuridiche, sulle quali quella causa verteva. Da questi avvocati coetanei, e già consolari - essi difendevano ambedue il diritto civile, ma ciascuno da un contrario punto di vista quel processo venne affrontato in maniera tale, che Crasso si acquistò fama di essere il più esperto in diritto tra gli uomini eloquenti, Scevola il più eloquente tra gli esperti di diritto. Quest'ultimo, oltre ad avere un'eccezionale perspicacia nel distinguere il vero dal falso nel diritto o nell'equità - sapeva inoltre mirabilmente adattare le parole all'argomento, con grande concisione. |
De qua non ita longa disputatione opus esse videtur, cum recorder non L. Brutum, qui in liberanda patria est interfectus, non duos Decios, qui ad voluntariam mortem cursum equorum incitaverunt, non M. Atilium, qui ad supplicium est profectus, ut fidem hosti datam conservaret, non duos Scipiones, qui iter Poenis vel corporibus suis obstruere voluerunt, non avum tuum L. Paulum, qui morte luit conlegae in Cannensi ignominia temeritatem, non M. Marcellum, cuius interitum ne crudelissimus quidem hostis honore sepulturae carere passus est, sed legiones nostras, quod scripsi in Originibus, in eum locum saepe profectas alacri animo et erecto, unde se redituras numquam arbitrarentur.Quod igitur adulescentes, et ei quidem non solum indocti, sed etiam rustici, contemnunt, id docti senes extimescent? | Non è il caso di spendere, credo, troppe parole sull'argomento: mi basta ricordare non dico Lucio Bruto, che fu ucciso nel liberare la patria, non i due Deci, che spronarono i cavalli a morte volontaria, non Marco Attilio, che andò al supplizio per non tradire la parola data al nemico, non i due Scipioni, che vollero sbarrare la strada ai Cartaginesi persino con il proprio corpo, non tuo nonno, Lucio Paolo, che nella vergogna di Canne pagò con la morte la temerarietà del collega, non Marco Marcello, la cui vita neppure il più crudele dei nemici osò privare dell'onore della sepoltura, ma le nostre legioni, come ho scritto nelle Origini, spesso partite con animo acceso e fiero per una meta da cui pensavano di non tornare mai più. Allora, quel che disprezzano i giovani, non solo ignoranti, ma anche zotici, spaventerà dei vecchi pieni di cultura? |
Apud Lacedaemonios quidem ei, qui amplissimum magistratum gerunt, ut sunt, sic etiam nominantur senes. Quod si legere aut audire voletis externa, maximas res publicas ab adulescentibus labefactatas, a senibus sustentatas et restitutas reperietis.Cedo, qui vestram rem publicam tantam amisistis tam cito?Sic enim percontantur in Naevi poetae Ludo. Respondentur et alia et hoc in primis:Proveniebant oratores novi, stulti adulescentuli.Temeritas est videlicet florentis aetatis, prudentia senescentis. | A Sparta, appunto, chi esercita la magistratura più alta ha l'età e quindi il nome di "vecchio". Se poi volete leggere o ascoltare la storia delle nazioni straniere, scoprirete che sono stati i giovani a mandare in rovina gli stati più forti, i vecchi a sostenerli e a rimetterli in piedi.Dite, come perdeste in così poco tempo il vostro stato, tanto potente?A tale domanda, formulata nel Ludo del poeta Nevio, si risponde, tra le altre cose, in primo luogo così:Spuntavano nuovi oratori, stupidi sbarbatelli.Naturale: la temerarietà è tipica dell'età in fiore, la saggezza dell'età declinante. |
Quam ob rem, quamquam blanda ista vanitas apud eos valet qui ipsi illam allectant et invitant, tamen etiam graviores constantioresque admonendi sunt, ut animadvertant, ne callida assentatione capiantur. Aperte enim adulantem nemo non videt, nisi qui admodum est excors; callidus ille et occultus ne se insinuet, studiose cavendum est; nec enim facillime agnoscitur, quippe qui etiam adversando saepe assentetur et litigare se simulans blandiatur atque ad extremum det manus vincique se patiatur, ut is qui illusus sit plus vidisse videatur.Quid autem turpius quam illudi? Quod ut ne accidat, magis cavendum est.Ut me hodie ante omnes comicos stultos senesVersaris atque inlusseris lautissume. | Perciò, anche se le menzogne dettate dall'ossequio funzionano su chi le attira a sé e le provoca, bisogna ugualmente avvertire le persone serie e coerenti a non diventare vittime di un'adulazione ben congegnata. Tutti, tranne il perfetto imbecille, riconoscono l'adulatore smaccato. Ma è da quello astuto e coperto che dobbiamo guardarci perché non si insinui in noi. Non è molto facile riconoscerlo. Spesso, infatti, adula anche contraddicendo: per compiacere finge di litigare, ma alla fine si arrende, si dà per vinto regalando all'altro l'illusione, con l'inganno, di esser stato più intelligente di lui. Cosa c'è di più vergognoso che farsi ingannare? A maggior ragione dobbiamo evitare che accada.Come mi hai raggirato e menato ben bene per il naso, oggi,più di tutti gli stupidi vecchi delle commedie! |
Ego, quanta manus est coniuratorum, tantam me inimicorum multitudinem suscepisse video, sed eam turpem iudico et infirmam et abiectam. Tantam laudem, quanta vos me vestris decretis honestastis, nemo est assecutus: ceteris enim bene gesta re publica laudes tribuistis, mihi uni conservata re publica hanc gratulationem decrevistis. Sit Scipio clarus ille, cuius consilio atque virtute Hannibal in Africam redire atque Italia decedere coactus est; ornetur eximia laude alter Africanus, qui duas hurbes huic imperio infestissimas, Carthaginem Numantiamque delevit; habeatur vir egregius Paulus ille, cuius currum rex potentissimus quondam et nobilissimus, Perses, honestavit; sit aeterna gloria Marius, qui bis Italiam obsidione et metu servitutis liberavit; anteponatur omnibus Pompeius, cuius res gestae atque virtutes iisdem regionibus ac terminis continentur, quibus solis cursus (continetur): erit profecto inter horum laudes aliquid loci nostrae gloriae. | Io vedo che ho raccolto tanta moltitudine di nemici, quanto grande è la schiera dei congiurati, ma la reputo turpe e debole ed abietta. Nessuno ha conseguito tanta lode quanta (quella con cui) voi mi avete onorato con i vostri decreti: infatti ad altri avete attribuito onori per le buone imprese per lo Stato, solo a me avete decretato questo ringraziamento, una volta salvato lo Stato. Sia pure celebre il famoso Scipione, per i cui senno e virtù Annibale fu obbligato a tornare in Africa e lasciare l'Italia; sia onorato con un'eccellente lode l'altro africano, che distrusse due città molto ostili a questo dominio, Cartagine e Numanzia; sia il famoso Paolo stimato uomo egregio, il cui carro Perseo, re una volta potentissimo ed illustrissimo, ornò; sia Mario, che liberò l'Italia sia dall'assedio che dalla paura della schiavitù, di gloria eterna; sia Pompeo posto davanti a tutti, le cui imprese e virtù sono contenute dalle stesse regioni e confini da cui è delimitato il corso del sole: si creerà un po' di posto per la (nostra) mia gloria tra le lodi di questi. |
Quam ob rem hoc quidem deliberantium genus pellatur e medio ( est enim totum sceleratum et impium), qui deliberant, utrum id sequantur, quod honestum esse videant, an se scientes scelere contaminent; in ipsa enim dubitatione facinus inest, etiamsi ad id non pervenerint. Ergo ea deliberanda omnino non sunt, in quibus est turpis ipsa deliberatio. | Si tolgano, perciò, di mezzo tutte queste persone - giacché sono tutte scellerate ed empie - che si pongono il problema se seguire quello che vedono essere onesto o macchiarsi scientemente di un delitto; nello stesso dubbio è insita la colpa, anche se essi non vi sono giunti. Non bisogna, dunque, decidere nemmeno su argomenti il cui esame stesso è disonesto. Ugualmente in ogni decisione bisogna tener lontana la speranza e la convinzione di potersi nascondere e celarsi. Dovremmo essere abbastanza convinti, se pure abbiamo fatto qualche progresso nello studio della filosofia, che, pur potendo tenere all'oscuro tutti gli dei e gli uomini, ciò nonostante non dobbiamo compiere niente per desiderio di guadagno, niente con ingiustizia, niente per passione o smoderatezza. |
his enim scriptis etiam ipse interfui, cum essem apud Aelium adulescens eumque audire perstudiose solerem. Cottam autem miror summum ipsum oratorem minimeque ineptum Aelianas leves oratiunculas voluisse existimari suas. his duobus eiusdem aetatis adnu merabatur nemo tertius, sed mihi placebat Pomponius maxime vel dicam minime displicebat. locus erat omnino in maxumis causis praeter eos de quibus supra dixi nemini; propterea quod Antonius, qui maxume expetebatur, facilis in causis recipiendis erat; fast idiosior Crassus, sed tamen recipiebat.horum qui neutrum habebat, confugiebat ad Philippum fere aut ad Caesarem; Cotta <tum et> Sulpicius expetebantur. ita ab his sex patronis causae inlustres agebantur; neque tam multa quam nostra aetate iudicia fiebant , neque hoc quod nunc fit, ut causae singulae defenderentur a pluribus, quo nihil est vitiosius. | A questo lavoro di composizione potei infatti assistere io stesso, quando da giovinetto frequentavo la casa di Elio, ed ero solito seguirne le lezioni col più grande impegno. Mi meraviglio però che Cotta, che era di per sé oratore grandissimo e tutt'altro che malaccorto, abbia voluto far passare per sue le insignificanti orazioncine di Elio. A questi due, nessuno dello stesso periodo veniva affiancato come terzo, ma a me piaceva soprattutto Pomponio, o, per meglio dire, mi dispiaceva meno di tutti. Eccettuati quelli dei quali ho già parlato, nelle cause più importanti non vi era spazio per nessuno, poiché Antonio, che era ricercatissimo, era molto disponibile ad assumersi le cause; Crasso faceva più difficoltà, ma tuttavia le accettava. Chi non riusciva ad avere né l'uno né l'altro, faceva per lo più ricorso a Filippo o a Cesare; dopo di loro, venivano ricercati Cotta e Sulpicio. Così le cause di maggior richiamo venivano patrocinate da questi sei avvocati; e non c'erano tanti processi quanti all'epoca nostra, né accadeva, come oggigiorno, che una singola causa fosse difesa da più avvocati, cosa quanto mai sbagliata. |
Novum crimen, C. Caesar, et ante hanc diem non auditum propinquus meus ad te Q. Tubero detulit, Q. Ligarium in Africa fuisse, idque C. Pansa, praestanti vir ingenio, fretus fortasse familiaritate ea quae est ei tecum, ausus est confiteri. Itaque quo me vertam necio. Paratus enim veneram, cum tu id neque per te scires neque audire aliunde potuisses, ut ignoratione tua ad hominis miseri salutem abuterer. Sed quoniam diligentia inimici inuestigatum est quod latebat, confitendum est, opinor, praesertim cum meus necessarius Pansa fecerit ut id integrum iam non esset, omissaque controversia omnis oratio ad misericordiam tuam conferenda est, qua plurimi sunt conservati, cum a te non liberationem culpae sed errati veniam impetravissent. | Certo è una novità mai udita prima d'oggi, o Gaio Cesare, la denunzia che il mio parente Quinto Tuberone ha sporto dinanzi a te. Quinto Ligario è stato in Africa; e Gaio Pansa, che è tutt'altro che uno sciocco, fidando forse nell'amicizia da cui si sente legato a te, non ha esitato a riconoscere che questo è vero. Sicché io non so dove rivolgermi. Pensando che tu non fossi a diretta conoscenza di questo fatto e non avessi potuto apprenderlo da altri, ero venuto qui pronto ad approfittare della tua ignoranza per salvare un disgraziato. Ma poiché, per lo zelo del mio avversario, si è fatta luce su quanto era nascosto, penso proprio di dover riconoscere anch'io, tanto più che l'ha fatto il mio intimo amico Pansa, che la questione è ormai pregiudicata per me, e che, senza muovere contestazioni, ogni mia parola dev'essere rivolta ad ottenere la tua misericordia, da cui moltissimi sono stati salvati, avendo ottenuto non l’assoluzione dalla colpa, ma il perdono del loro fallo. |
Quos Sex. Titius consecutus, homo loquax sane et satis acutus sed tam solutus et mollis in gestu, ut saltatio quaedam nasceretur, cui saltationi Titius nomen esset. ita cavendumst, ne quid in agendo dicendove facias, cuius imitatio rideatur. sed ad pa ulo superiorem aetatem revecti sumus; nunc ad eam de qua aliquantum sumus locuti revertamur. | Dopo di loro venne Sesto Tizio, uomo parecchio loquace e con sufficiente acume, ma tanto languido e molle nel gestire, che ne nacque una danza chiamata "Tizio". Perciò si deve fare attenzione, nel gestire e nel parlare, a evitare tutto quanto possa prestarsi a una parodia ridicola. Ma siamo risaliti a un'epoca abbastanza anteriore; ora torniamo a quella di cui abbiamo già un po' parlato. |
Ac mihi quidem videtur, cum duae sententiae fuissent veterum philosophorum, una eorum, qui censerent omnia ita fato fieri, ut id fatum vim necessitatis adferret, in qua sententia Democritus, Heraclitus, Empedocles, Aristoteles fuit, altera eorum, quibus viderentur sine ullo fato esse animorum motus voluntarii, Chrysippus tamquam arbiter honorarius medium ferire voluisse--sed applicat se ad eos potius, qui necessitate motus animos liberatos volunt; dum autem verbis utitur suis, delabitur in eas difficultates, ut necessitatem fati confirmet invitus. | A dire il vero, tra le due posizioni dei filosofi antichi (la prima di chi riteneva che tutto si verificasse per volere del fato, al punto che il fato comportava la forza della necessità, posizione nella quale rientravano Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele; la seconda di chi pensava che ci fossero moti volontari dell'anima senza alcun intervento del fato), mi sembra che Crisippo, quale arbitro onorario, abbia voluto seguire la via mediana, anche se si avvicina di più a coloro che propendono per i moti dell'anima affrancati dalla necessità; ma, mentre fa uso della terminologia che gli è propria, scivola in difficoltà tali, da dover ribadire, suo malgrado, la necessità del fato. |
Nam quod aes alienum obiectum est, sumptus reprehensi, tabulae flagitatae, videte, quam pauca respondeam. Tabulas, qui in patris potestate est, nullas conficit. Versuram numquam omnino fecit ullam. Sumptus unius generis obiectus est, habitationis; triginta milibus dixistis eum habitare. Nunc demum intellego P. Clodi insulam esse venalem, cuius hic in aediculis habitat decem, ut opinor, milibus. Vos autem dum illi placere voltis, ad tempus eius mendacium vestrum accommodavistis. | Infatti, ciò che è stato obiettato riguardo al debito, dell'accusa di dilapidare, della necessità di mostrare i propri registri, vedete quanto in breve tempo risponderò. Chi è sotto la patria potestà, non redige registri. Mai in alcun modo fece debito. Di lussuoso gli fu rinfacciata una cosa sola, la casa: avete detto ch'egli spenda per esso trentamila sesterzi. Ora effettivamente capisco che debba essere in vendita il palazzo di Publio Clodio, nel quale occupa un appartamento che gli viene a costare, come credo, diecimila sesterzi. Voi, dunque, mentre volete andare a genio al proprietario, avete adattato una vostra menzogna per una sua occasione favorevole. |
Haec de Indis et magis; redeamus ad somnia. Hannibalem Coelius scribit, cum columnam auream, quae esset in fano Iunonis Laciniae, auferre vellet dubitaretque utrum ea solida esset an extrinsecus inaurata, perterebravisse, cumque solidam invenisset, statuisse tollere. Ei secundum quietem visam esse Iunonem praedicere ne id faceret, minarique, si fecisset, se curaturam ut eum quoque oculum, quo bene videret, amitteret; idque ab homine acuto non esso neglectum; itaque ex eo auro, quod exterebratum esset, buculam curasse faciendam et eam in summa columna conlocavisse.Hoc item in Sileni, quem Coelius sequitur, Graeca historia est (is autem diligentissume res Hannibalis persecutus est): Hannibalem, cum cepisset Saguntum, visum esse in somnis a Iove in deorum concilium vocari; quo cum venisset, Iovem imperavisse, ut Italiae bellum inferret, ducemque ei unum e concilio datum, quo illum utentem cum exercitu progredi coepisse; tum ei ducem illum praecepisse ne respiceret; illum autem id diutius facere non potuisse elatumque cupiditate respexisse; tum visam beluam vastam et immanem circumplicatam serpentibus, quacumque incederet, omnia arbusta, virgulta, tecta pervertere, et eum admiratum quaesisse de deo quodnam illud esset tale monstrum, et deum respondisse vastitatem esse Italiae praecepisseque ut pergeret protinus, quid retro atque a tergo fieret ne laboraret. Apud Agathoclem scriptum in historia est Hamilcarem Karthaginiensem, cum oppugnaret Syracusas, visum esse audire vocem se postridie cenaturum Syracusis; cum autem is dies inluxisset, magnam seditionem in castris eius inter Poenos et Siculos milites esse factam; quod cum sensissent Syracusani, improviso eos in castra inrupisse Hamilcaremque ab iis vivum esse sublatum: ita res somnium comprobavit. Plena exemplorum est historia, tum referta vita communis. At vero P. Decius ille Quinti filius, qui primus e Deciis consul fuit, cum esset tribunus militum M. Valerio A. Cornelio, consulibus, a Samnitibusque premeretur noster exercitus, cum pericula proeliorum iniret audacius monereturque, ut cautior esset, dixit, quod exstat in annalibus, sibi in somnis visum esse, cum in mediis hostibus versaretur, occidere cum maxuma gloria. Et tum quidem incolumis exercitum obsidione liberavit; post triennium autem, cum consul esset, devovit se et in aciem Latinorum inrupit armatus. Quo eius facto superati sunt et deleti Latini. Cuius mors ita gloriosa fuit, ut eandem concupisceret filius. | Basti ciò quanto agli indiani e ai maghi; ritorniamo ai sogni. Celio Antipatro scrive che Annibale, desideroso di portar via una colonna d'oro che si trovava nel tempio di Giunone Lacinia, ma dubbioso se fosse d'oro massiccio o soltanto dorata all'esterno, la fece trapanare e, accertatosi che era tutta d'oro, decise di asportarla. Durante il sonno gli apparve Giunone e lo ammonì a non farlo, minacciandolo che, se l'avesse fatto, essa gli avrebbe fatto perdere anche l'unico occhio con cui vedeva bene. Quell'uomo sagace non trascurò l'ammonimento e, con quella parte d'oro che era stata tolta nella trapanazione, fece fare una piccola effigie d'una giovenca e la fece collocare in cima alla colonna. Un altro episodio è riferito nella storia, scritta in greco, di Sileno, da cui lo attinse Celio (Sileno narrò con grande accuratezza le imprese di Annibale). Dopo la presa di Sagunto, Annibale sognò che era chiamato da Giove nel concilio degli dèi. Giunto là, si sentì ordinare da Giove di portar guerra all'Italia, e gli venne dato come guida un dio del concilio. Seguendo le indicazioni di costui, incominciò a mettersi in marcia con l'esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi a guardare indietro. Ma Annibale non riuscì a resistere a lungo, e, cedendo alla bramosia di vedere, si voltò. Vide una belva enorme e orrenda, cinta da serpenti, la quale, dove passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale, stupefatto, chiese al dio che lo guidava che cos'era mai un mostro di quella sorta; e il dio rispose che quella era la devastazione dell'Italia e gli ordinò di continuare il cammino, senza curarsi di ciò che avveniva dietro, alle sue spalle. Nella Storia di Agatocle si legge che ad Amilcare cartaginese, mentre assediava Siracusa, parve di udire una voce che gli diceva: "Domani cenerai a Siracusa." Appena spuntata l'alba del giorno dopo, nel suo accampamento sorse una grande rissa fra i soldati cartaginesi e quelli siculi. I siracusani se ne accorsero, fecero un'irruzione improvvisa nell'accampamento e presero vivo Amilcare: così i fatti confermarono la verità del sogno. Di esempi analoghi è piena la storia, è addirittura ricolma la vita quotidiana. Esempio più illustre che mai, Publio Decio figlio di Quinto, il primo della famiglia dei Decii che fu eletto console, quando era tribuno militare sotto i consoli Marco Valerio e Aulo Cornelio e il nostro esercito era incalzato dai sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerità i pericoli del combattimento e lo ammonivano a esser più prudente, disse - lo narrano le storie - che in sogno gli era parso di morire gloriosissimamente nel folto della mischia. E quella volta rimase incolume e liberò l'esercito dalla morsa dei sanniti; ma tre anni dopo, quando fu console, offri se stesso in sacrifizio agli dèi e, indossate le armi, si lanciò contro l'esercito dei latini. Grazie al suo impeto, i latini furono sconfitti e annientati; e la sua morte fu così gloriosa, che suo figlio volle ottenerne una uguale. |
Haec sunt, quae conturbent in deliberatione non numquam, cum id, in quo violatur aequitas, non ita magnum, illud autem, quod ex eo paritur, permagnum videtur, ut Mario praeripere collegis et tribunis plebi popularem gratiam non ita turpe, consulem ob eam rem fieri, quod sibi tum proposuerat, valde utile videbatur. Sed omnium una regula est, quam tibi cupio esse notissimam: aut illud, quod utile videtur, turpe ne sit, aut si turpe est, ne videatur esse utile.Quid igitur? possumusne aut illum Marium virum bonum iudicare aut hunc? Explica atque excute intellegentiam tuam, ut videas, quae sit in ea [species] forma et notio viri boni. Cadit ergo in virum bonum mentiri, emolumenti sui causa criminari, praeripere, fallere? Nihil profecto minus. | Sono questi i casi che spesso, quando dobbiamo decidere, ci rendono dubbiosi, allorché la violazione dell'equità non sembra rilevante, ma appare grandissimo il vantaggio che da essa deriva: così, ad esempio, a Mario non sembrava tanto riprovevole carpire il favore popolare ai colleghi e ai tribuni della plebe, ma molto utile diventar console con quel mezzo, ciò che egli si era proposto. Ma in tutti questi casi esiste una sola regola, che desidero ti sia notissima: o che non sia turpe quello che sembra utile o, se è turpe, che non sembri essere utile. E che, dunque? Possiamo giudicare probo il primo o il secondo Mario? Dispiega e fa funzionare la tua intelligenza, per vedere quale sia in essa il concetto e la nozione di uomo dabbene. Si addice, dunque, ad un uomo onesto mentire per proprio vantaggio, accusare, sottrarre, ingannare? |
Atticus:Recte igitur Magnus ille noster me audiente posuit in iudicio, quom pro Ampio tecum simul diceret, rem publicam nostram iustissimas huic municipio gratias agere posse, quod ex eo duo sui conservatores exstitissent, ut iam videar adduci, hanc quoque quae te procrearit esse patriam tuam. Sed ventum in insulam est. Hac vero nihil est amoenius. Etenim hoc quasi rostro finditur Fibrenus, et divisus aequaliter in duas partes latera haec adluit, rapideque dilapsus cito in unum confluit, et tantum conplectitur quod satis sit modicae palaestrae loci.Quo effecto, tamquam id habuerit operis ac muneris, ut hanc nobis efficeret sedem ad disputandum, statim praecipitat in Lirem, et quasi in familiam patriciam venerit, amittit nomen obscurius, Liremque multo gelidiorem facit. Nec enim ullum hoc frigidius flumen attigi, cum ad multa accesserim, ut vix pede temptare id possim, quod in Phaedro Platonis facit Socrates. | Attico:Aveva ragione allora quel nostro Magno, quando affermò in tribunale, e lo sentii anch'io con le mie orecchie, mentre insieme a te difendeva Ampio, che il nostro Stato poteva essere assai riconoscente a questo municipio, perché da esso erano venuti fuori i suoi due salvatori, tanto che già mi sembra di essere convinto che anche questa che ti ha generato sia una tua patria. Ma siamo arrivati all'isola. Davvero nulla vi potrebbe essere di più ameno. Infatti il Fibreno è tagliato quasi come da un rostro e, diviso in due rami eguali, lambisce questi fianchi e scorrendo velocemente in un attimo confluisce in un unico braccio, abbracciando tanto di quel terreno che sarebbe sufficiente per una palestra di medie dimensioni. Subito dopo, come se questo fosse suo compito e dovere, di costruirci cioè un posto per la nostra discussione, si getta nel Liri, e, quasi come se fosse entrato in una famiglia patrizia, abbandona il suo nome piuttosto oscuro, e rende il Liri molto più fresco. Infatti io non ho mai toccato acqua più fresca di questa, pur avendone provate molte, al punto che a mala pena posso provarla col piede, come fa Socrate nel Fedro di Platone. |
Marcus:Igitur tu Titias et Apuleias leges nullas putas?Quintus:Ego vero ne Livias quidem.Marcus:Et recte, quae praesertim uno versiculo senatus puncto temporis sublatae sint. Lex autem illa, cuius vim explicavi, neque tolli neque abrogari potest.Quintus:Eas tu igitur leges rogabis videlicet quae numquam abrogentur.Marcus:Certe, si modo acceptae a duobus vobis erunt. Sed ut vir doctissimus fecit Plato atque idem gravissimus philosophorum omnium, qui princeps de re publica conscripsit idemque separatim de legibus <eius>, id<em> mihi credo esse faciundum, ut priusquam ipsam legem recitem, de eius legis laude dicam.Quod idem et Zaleucum et Charondam fecisse video, quom quidem illi non studii et delectationis sed rei publicae causa leges civitatibus suis scripserint. Quos imitatus Plato videlicet hoc quoque legis putavit esse, persuadere aliquid, non omnia vi ac minis cogere. | Marco:Allora tu non consideri affatto leggi le Tizie e le Apuleie?Quinto:Io francamente nemmeno le Livie.Marco:Ed hai ragione, dal momento che esse furono abrogate in un solo istante e con un unico tratto di penna del senato. Invece quella legge, di cui ho spiegato l'efficacia, non può essere soppressa né abrogata.Quinto:Tu allora presenterai delle leggi tali, che non possano mai essere abrogate.Marco:Certamente, purché vengano accettate da voi due. Ma come ha fatto il sapientissimo Platone, peraltro il più autorevole di tutti i filosofi, il quale per primo scrisse su lo Stato, e poi, a parte, sulle sue Leggi, credo che anch' io dovrò fare la stessa cosa, cioè, prima enunciare la legge, quindi farne le lodi. E questo, a quel che vedo, è quanto hanno fatto anche Zaleuco e Caronda, pur avendo essi scritto le loro leggi per le città non già per esercizio scolastico o per passatempo, ma per il bene del loro Stato. E dietro il loro esempio, Platone certamente ritenne che anche questa fosse una caratteristica specifica della legge, di convincere di qualche cosa, e non imporre tutto costringendo con le minacce e con la forza. |
Qui tibi dies ille, M. Antoni, fuit! Quamquam mihi inimicus subito extitisti, tamen me tui miseret, quod tibi invideris. Qui tu vir, di immortales, et quantus fuisses, si illius diei mentem servare potuisses! Pacem haberemus, quae erat facta per obsidem puerum nobilem, M. Bambalionis nepotem. Quamquam bonum te timor faciebat, non diuturnus magister officii, inprobum fecit ea, quae, dum timor abest, a te non discedit, audacia. Etsi tum, cum optimum te putabant me quidem dissentiente, funeri tyranni, si illud funus fuit, sceleratissime praefuisti.Tua illa pulchra laudatio, tua miseratio, tua cohortatio; tu, tu, inquam, illas faces incendisti, et eas, quibus semustulatus ille est, et eas, quibus incensa L. Bellieni domus deflagravit; tu illos impetus perditorum hominum et ex maxima parte servorum, quos nos vi manuque reppulimus, in nostras domos inmisisti. Idem tamen quasi fuligine abstersa reliquis diebus in Capitolio praeclara senatus consulta fecisti, ne qua post Idus Martias immunitatis tabula neve cuius benefici figeretur. Meministi ipse, de exulibus, scis, de immunitate quid dixeris. Optimum vero, quod dictaturae nomen in perpetuum de re publica sustulisti; quo quidem facto tantum te cepisse odium regni videbatur, ut eius omen omne propter proximum dictatoris metum tolleres. Constituta res publica videbatur aliis, mihi vero nullo modo, qui omnia te gubernante naufragia metuebam. Num igitur me fefellit, aut num diutius sui potuit dissimilis esse? Inspectantibus vobis toto Capitolo tabulae figebantur, neque solum singulis venibant immunitates, sed etiam populis universis; civitas non iam singillatim, sed provinciis totis dabatur. Itaque, si haec manent, quae stante re publica manere non possunt, provincias universas, patres conscripti, perdidistis, neque vectigalia solum, sed etiam imperium populi Romani huius domesticis nundinis deminutum est. | Che giorno fu per te, Marc'Antonio! Nonostante ti manifestassi nemico a me, tuttavia avevo compassione di te, perché eri invidiato. Che uomo, o dei immortali, e quanto grande saresti stato se avessi potuto conservare i sentimenti di quel giorno! Avremmo avuto la pace che era stata sancita con l'ostaggio del nobile fanciullo nipote di M. Bambalione. Per quanto il timore, che non a lungo insegna il dovere, ti rendeva onesto, ti rese malvagio ciò che, finché il timore non c'era, non si allontanò da te: l'audacia. Allora tuttavia, dato che ti credevano onesto, non essendo io d'accordo, in modo veramente scellerato sovrintendesti al funerale del tiranno, se quello fu un vero funerale. Quel tuo bell'elogio funebre, il tuo discorso commovente, quella tua esortazione; tu, tu, dico, hai acceso sia quelle fiaccole con cui egli fu mezzo bruciato sia quelle con cui fu incendiata la casa di Lucio Bellieno, che bruciò completamente; tu hai mandato nelle nostre case quella folla di uomini disperati e costituita in massima parte da schiavi, che noi abbiamo respinto a viva forza. Tuttavia, spazzata via la fuliggine degli incendi, i restanti giorni convocasti una famosissima seduta del senato sul campidoglio affinché non si affiggesse dopo il 15 marzo nessun provvedimento riguardante l'immunità o il beneficio. Tu stesso ti ricordi degli esuli; sia dell'immunità di cui hai parlato. In verità fu ottimo il fatto di aver abolito in eterno il titolo di dittatore dalla costituzione repubblicana, tanto che per questo fatto sembrò che un così grande odio del regno ti avesse impadronito, da cancellare ogni suo nome a causa della paura scatenata dalla recente dittatura. Ad alcuni lo stato sembrava consolidato, a me, in verità, per niente, che temevo un naufragio finché tu fossi al timone dello stato. Dunque mi ha ingannato, o può essere a lungo diverso da sé? Mentre voi guardavate, su tutto il campidoglio furono affisse le tavole: l'immunità non veniva solo per il singolo ma per intere popolazioni, la cittadinanza non fu concessa singolarmente ma a tutte le province. E così se persistono questi abusi, se la repubblica vuole sopravvivere stabilmente, perdeste, senatori, tutte le province, non solo le entrate dell'erario ma venne meno anche l'autorità del popolo romano nel mercato privato. |
Triennium fere fuit urbs sine armis; sed oratorum aut interitu aut discessu aut fuga—nam aberant etiam adulescentes M. Crassus et Lentuli duo—primas in causis agebat Hortensius, magis magisque cotidie probabatur Antistius, Piso saepe dicebat, minus saepe Pomponius, raro Carbo, semel aut iterum Philippus. at vero ego hoc tem pore omni noctes et dies in omnium doctrinarum meditatione versabar. | Per circa tre anni Roma non conobbe contese armate; ma a causa della morte, della partenza volontaria, o dell'esilio di tanti oratori -tra l'altro, erano lontani anche dei giovani come Marco Crasso e i due Lentuli nei processi Ortensio era l'oratore più in vista, Antistio di giorno in giorno si faceva apprezzare sempre di più, Pisone parlava spesso, meno spesso Pomponio, Carbone di rado, e Filippo non parlò più di una volta o due; mentre io, in tutto questo periodo, attendevo giorno e notte allo studio di tutte le discipline. |
Etenim, cum complector animo, quattuor reperio causas, cur senectus misera videatur: unam, quod avocet a rebus gerendis; alteram, quod corpus faciat infirmius; tertiam, quod privet fere omnibus voluptatibus; quartam, quod haud procul absit a morte. Earum, si placet, causarum quanta quamque sit iusta una quaeque, videamus. A rebus gerendis senectus abstrahit. Quibus? An eis, quae iuventute geruntur et viribus? Nullaene igitur res sunt seniles quae, vel infirmis corporibus, animo tamen administrentur? Nihil ergo agebat Q.Maximus, nihil L. Paulus, pater tuus, socer optimi viri, fili mei? Ceteri senes, Fabricii, Curii, Coruncanii, cum rem publicam consilio et auctoritate defendebant, nihil agebant? | In realtà, quando esamino il problema sotto tutti gli aspetti, trovo quattro motivi che fanno sembrare la vecchiaia infelice. Primo: allontana dalle attività. Secondo: indebolisce il corpo. Terzo: priva di [quasi] tutti i piaceri. Quarto: è a un passo dalla morte. Analizziamo, se siete d'accordo, la portata e il valore di ciascun motivo. La vecchiaia ci porta via dalle attività. - Da quali? Da quelle che si compiono con le energie della giovinezza? Non ci sono forse occupazioni che gli anziani possano svolgere con la mente, anche senza forze fisiche? Allora non faceva niente Quinto Massimo, niente Lucio Paolo, tuo padre, suocero di quell'uomo eccellente che era mio figlio? E gli altri vecchi, i Fabrizi, i Curi, i Coruncani, quando difendevano lo stato con senno e autorità non facevano niente? |
an censes, dum illi viguerunt quos ante dixi, non eosdem gradus oratorum volgi iudicio et doctorum fuisse? de populo si quem ita rogavisses: quis est in hac civitate eloquentissimus? in Antonio et Crasso aut dubitaret aut hunc alius, illum alius dicer et. nemone Philippum, tam suavem oratorem tam gravem tam facetum his anteferret, quem nosmet ipsi, qui haec arte aliqua volumus expendere, proximum illis fuisse diximus? nemo profecto; id enim ipsum est summi oratoris summum oratorem populo videri. | 0 credi che al tempo in cui fiorirono quelli di cui ho parlato prima, la gerarchia degli oratori non fosse la stessa per il giudizio del volgo e per quello dei competenti? Se avessi chiesto a uno del popolo: "Chi è il più eloquente in questa città? Chi avrebbe esitato tra Antonio e Crasso, oppure chi avrebbe detto questo e chi quello. Ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe loro anteposto Filippo, oratore tanto piacevole, tanto solenne, tanto faceto - e io stesso, che intendo valutare di ciò in base a dei principi teorici, l'ho definito il più vicino a loro -? Non ci sarebbe stato di certo; infatti è privilegio del sommo oratore di apparire sommo oratore al popolo. |
Quintum genus est parricidarum, sicariorum, denique omnium facinerosorum. Quos ego a Catilina non revoco; nam neque ab eo divelli possunt et pereant sane in latrocinio quoniam sunt ita multi, ut eos carcer capere non possit. Postremum autem genus est non solum numero verum etiam genere ipso atque vita, quod proprium Catilinae est, de eius dilectu, immo vero de complexu eius ac sinu; quos pexo capillo nitidos aut inberbis aut bene barbatos videtis, manicatis et talaribus tunicis velis amictos, non togis; quorum omnis industria vitae et vigilandi labor in antelucanis cenis expromitur. | La quinta categoria è degli assassini, dei sicari, in una parola di tutti i delinquenti. Non li voglio staccare da Catilina, perché non sanno separarsi da lui. E allora muoiano da banditi! Sono in troppi perché il carcere possa contenerli tutti! L'ultima categoria, poi, non solo nell'ordine, ma anche nello stile di vita, è quella cui appartiene Catilina e comprende uomini scelti da lui, diciamo meglio i suoi fidi. Li avete sotto gli occhi: senza un capello fuori posto, cosparsi di unguenti, imberbi o con la barba ben tagliata, vestiti di tuniche sino alla caviglia e con le maniche lunghe, avvolti da veli e non dalla toga. Tutta la loro energia, tutto lo sforzo di stare svegli li impiegano in bagordi notturni. |
tu artifex quid quaeris amplius? delectatur audiens multitudo et ducitur oratione et quasi voluptate quadam perfunditur: quid habes quod disputes? gaudet dolet, ridet plorat, favet odit, contemnit invidet, ad misericordiam inducitur ad pudendum ad pig endum; irascitur miratur sperat timet; haec perinde accidunt ut eorum qui adsunt mentes verbis et sententiis et actione tractantur; quid est quod exspectetur docti alicuius sententia? quod enim probat multitudo, hoc idem doctis probandum est.denique hoc specimen est popularis iudici, in quo numquam fuit populo cum doctis intellegentibusque dissensio. | tu, esperto, cosa vuoi ancora? La folla in ascolto trova gusto, si lascia prendere dal discorso, ed è quasi pervasa da un senso di piacere: che cosa hai da discutere? Gioisce, si rattrista, ride, piange, prova simpatia o avversione, disprezzo o invidia, è mossa a compassione, a vergogna, a rincrescimento; si adira, resta sorpresa, spera e teme. Gli effetti variano a seconda del trattamento cui le menti degli ascoltatori vengono sottoposte dalle parole, dai pensieri, dall'azione dell'oratore; che bisogno c'è di aspettare il parere di un qualche intenditore? Infatti, ciò che incontra l'approvazione della folla, deve incontrare anche quella degli intenditori. Ecco infine un esempio probante del fatto che nel giudizio del popolo non c'è mai stato contrasto tra il popolo e gli intenditori e i competenti. |
Huic nec laus magna tribuenda nec gratia est. Sed sive et simulatio et dissimulatio dolus malus est, perpaucae res sunt, in quibus non dolus malus iste versetur, sive vir bonus est is, qui prodest quibus potest, nocet nemini, certe istum virum bonum non facile reperimus. Numquam igitur est utile peccare, quia semper est turpe, et, quia semper est honestum virum bonum esse, semper est utile. | Comunque, sia che la simulazione e la dissimulazione costituiscano frode, pochissime sono le azioni in cui non entri la frode; sia che uomo onesto sia colui che giova a chi può e non nuoce a nessuno, è certo che non possiamo trovare facilmente questo uomo onesto. Non è mai utile, dunque, cadere in fallo, perché è sempre disonesto, e, poiché è sempre onesto essere probi, è sempre utile. |
Numeroque eodem fuit Sex. Aelius, iuris quidem civilis omnium peritissumus, sed etiam ad dicendum paratus. de minoribus autem C. Sulpicius Galus, qui maxume omnium nobilium Graecis litteris studuit; isque et oratorum in numero est habitus et fuit reliquis rebus ornatus atque elegans. iam enim erat unctior quaedam splendidiorque consuetudo loquendi. nam hoc praetore ludos Apollini faciente cum Thyesten fabulam docuisset, Q. Marcio Cn. Servilio consulibus mortem obiit Ennius. | E allo stesso novero appartenne Sesto Elio, fra tutti il maggiore esperto di diritto civile, ma fornito anche di preparazione oratoria. Tra i più giovani, d'altra parte, vi fu Gaio Sulpicio Galo, che di tutti i nobili fu quello più appassionato nello studio delle lettere greche; venne annoverato tra ì veri oratori, e anche in altri campi seppe mostrare una raffinata distinzione. Infatti si stava ormai diffondendo l'abitudine di parlare in maniera, in un certo senso, più succulenta e più ricca di splendore: fu in effetti quando Galo era pretore, e celebrava i ludi in onore di Apollo, che Ennio morì, dopo aver fatto rappresentare il suo Tieste, sotto il consolato di Quinto Marcio e di Gneo Servilio. |
Quintus:Optime vero frater, et fieri sic decet.Marcus:Videamus igitur rursus, priusquam adgrediamur ad leges singulas, vim naturamque legis, ne quom referenda sint ad eam nobis omnia, labamur interdum errore sermonis, ignoremusque vim rationis eius qua iura nobis definienda sint.Quintus:Sane quidem hercle, et est ista recta docendi via.Marcus:Hanc igitur video sapientissimorum fuisse sententiam, legem neque hominum ingeniis excogitatam, nec scitum aliquod esse populorum, sed aeternum quiddam, quod universum mundum regeret imperandi prohibendique sapientia.Ita principem legem illam et ultimam mentem esse dicebant omnia ratione aut cogentis aut vetantis dei. Ex quo illa lex, quam di humano generi dederunt, recte est laudata: est enim ratio mensque sapientis ad iubendum et ad deterrendum idonea. | Marco:Dunque, prima di passare alle singole leggi, vediamo di nuovo l'efficacia e la natura della legge, ad evitare che, dovendo riportare tutto ad essa, si scivoli talvolta in qualche errore di linguaggio e si trascuri l'importanza di quel metodo in base al quale dobbiamo definire i principi giuridici.Quinto:Bene per Ercole, ed è questa la via giusta dell'insegnamento.Marco:Vedo che questa fu l'opinione degli uomini più sapienti, cioè che la legge non è stata elaborata dagli umani intelletti, né essa sia un qualche decreto dei popoli, ma qualcosa di eterno, che governa l'universo con la saggezza nel comandare e nell'obbedire. Dicevano esattamente così, che prima e suprema legge era la mente del dio che tutto razionalmente o impone o vieta. Con tali presupposti fu esaltata quella legge che gli dèi diedero al genere umano; essa infatti è la ragione e la mente del saggio, atta a comandare e a distogliere. |
Hanc Epicurus rationem induxit ob eam rem, quod veritus est, ne, si semper atomus gravitate ferretur naturali ac necessaria, nihil liberum nobis esset, cum ita moveretur animus, ut atomorum motu cogeretur. Id Democritus, auctor atomorum, accipere maluit, necessitate omnia fieri, quam a corporibus individuis naturalis motus avellere. Acutius Carneades, qui docebat posse Epicureos suam causam sine hac commenticia declinatione defendere. Nam cum docerent esse posse quendam animi motum voluntarium, id fuit defendi melius quam introducere declinationem, cuius praesertim causam reperire non possent; quo defenso facile Chrysippo possent resistere.Cum enim concessissent motum nullum esse sine causa, non concederent omnia, quae fierent, fieri causis antecedentibus; voluntatis enim nostrae non esse causas externas et antecedentis. | Epicuro ha introdotto tale teoria in quanto a noi uomini, temeva, non sarebbe rimasto alcun margine di libertà, se l'atomo fosse costretto a muoversi sempre per forza di gravità naturale e necessaria, perché l'anima si regola a seconda di come è indotta dal movimento degli atomi. Democrito, il primo a formulalare la teoria degli atomi, preferì ammettere che tutto accade per necessità piuttosto che privare gli atomi del loro moto naturale. Più acutamente argomentava Carneade, il quale spiegava che gli epicurei avrebbero potuto sostenere una difesa senza questa fittizia deviazione degli atomi. Se avessero infatti spiegato che sussiste un moto volontario dell'anima, sarebbe stato più semplice difendere questa tesi piuttosto che introdurre la deviazione degli atomi, tenendo soprattutto conto che, per quest'ultima, non sono in grado di trovare una causa: difeso questo punto, avrebbero potuto facilmente resistere a Crisippo. Pur avendo ammesso che non si dà moto senza causa, non vorrebbero concedere che tutto ciò che accade, accade per cause precedenti: non si danno infatti cause esterne e precedenti della nostra volontà. |
Testis est Graecia, quae cum eloquentiae studio sit incensa iamdiuque excellat in ea praestetque ceteris, tamen omnis artes vetustiores habet et multo ante non inventas solum, sed etiam perfectas, quam haec est a Graecis elaborata dicendi vis atque copia. in quam cum intueor, maxime mihi occurrunt, Attice, et quasi lucent Athenae tuae, qua in urbe primum se orator extulit primumque etiam monumentis et litteris oratio est coepta mandari. | E lo testimonia la Grecia: per quanto sia infiammata dalla passione per l'eloquenza, e già da molto in essa eccella lasciandosi indietro le altre nazioni, tuttavia possiede tutte le altre arti da più antica data: non solo scoperte, ma anche portate a perfezione molto prima che venisse sviluppata questa capacità di parlare con vigorosa facondia. E quando penso alla Grecia, mi si presenta alla mente, e quasi mi risplende, Attico, la tua Atene: la città dove per la prima volta sorse un oratore, e dove per la prima volta si incominciò anche ad affidare le orazioni al ricordo durevole della scrittura. |
Atque etiam hoc praeceptum officii diligenter tenendum est, ne quem umquam innocentem iudicio capitis arcessas; id enim sine scelere fieri nullo pacto potest. Nam quid est tam inhumanum, quam eloquentiam a natura ad salutem hominum et ad conservationem datam ad bonorum pestem perniciemque convertere? Nec tamen, ut hoc fugiendum est, item est habendum religioni nocentem aliquando, modo ne nefarium impiumque defendere. Vult hoc multitudo, patitur consuetudo, fert etiam humanitas.Iudicis est semper in causis verum sequi, patroni non numquam veri simile, etiam si minus sit verum, defendere, quod scribere, praesertim cum de philosophia scriberem, non auderem, nisi idem placeret gravissimo Stoicorum Panaetio. Maxime autem et gloria paritur et gratia defensionibus, eoque maior, si quando accidit, ut ei subveniatur, qui potentis alicuius opibus circumveniri urgerique videatur, ut nos et saepe alias et adulescentes contra L. Sullae dominantis opes pro Sex. Roscio Amerino fecimus, quae, ut scis, extat oratio. | Si deve anche diligentemente osservare questo precetto morale, di non chiamar mai in giudizio capitale un innocente: questa azione non può mai esser compiuta senza un'intenzione colpevole. Che cos'è tanto inumano quanto il rivolgere l'eloquenza, data dalla natura per la salvezza degli uomini e per la loro protezione, alla rovina e al danno delle persone oneste? E, come si deve evitare una tale macchia, ugualmente non dobbiamo farci scrupolo di difendere qualche volta un colpevole, purché non sia uno scellerato ed un empio: lo vuole il popolo, lo ammette la consuetudine e lo sollecita anche il sentimento d'umanità. Il giudice deve seguire sempre il vero nelle cause, l'avvocato talvolta difendere anche il verosimile, pur se è meno vero. Non l'avrei osato scrivere, soprattutto trattando di argomenti filosofici, se non fosse identica l'opinione di Panezio, il più serio degli Stoici. Ma soprattutto le difese procurano gloria e gratitudine, e tanto maggiore, se talora accada di venire in aiuto di qualcuno, che sembra essere assediato ed oppresso dalle ricchezze di un potente, come feci io e molte altre volte e ancora adolescente contro la potenza di Lucio Silla in difesa di Sesto Roscio Amerino; questa orazione, come sai, resta tutt'ora. |
Haec, etiamsi ficta sunt a poeta, non absunt tamen a consuetudine somniorum. Sit sane etiam illud commenticium, quo Priamus est conturbatus, quia"mater gravida parere se ardentem facemvisa est in somnis Hecuba; quo facto paterrex ipse Priamus somnio, mentis metuperculsus, curis sumptus suspirantibus,exsacrificabat hostiis balantibus.Tum coniecturam postulat pacem petens,ut se edoceret obsecrans Apollinemquo sese vertant tantae sortes somnium.Ibi ex oraclo voce divina ediditApollo: puerum, primus Priamo qui foretpostilla natus, temperaret tollere:eum esse exitium Troiae, pestem Pergamo."Sint haec, ut dixi, somnia fabularum, hisque adiungatur etiam Aeneae somnium, quod nimirum in Fabi Pictoris Graecis annalibus eius modi est, ut omnia quae ab Aenea gesta sunt quaeque illi acciderunt, ea fuerint quae ei secundum quietem visa sunt. | Anche se tutto ciò è invenzione poetica, non si discosta da tanti altri tipi di sogni realmente accaduti. Ammettiamo pure che sia inventato quel sogno dal quale Priamo rimase turbato, perché"la madre, Ecuba, mentre era incinta, sognò che partoriva una fiaccola ardente. In seguito a ciò il padre, il re Priamo in persona, preso da timore in cuor suo per questo sogno, afflitto da ansie che si effondevano in sospiri, compiva sacrifici di vittime belanti. Quindi, implorando pace, chiede un responso, scongiura Apollo di fargli sapere a che cosa accennino presagi di sogni così gravi. Allora con voce divina Apollo rispose dall'oracolo: il bambino che per primo nascesse tra breve a Priamo, si guardasse bene dall'allevarlo: sarebbe stato rovina a Troia, sciagura a Pergamo."Ammettiamo pure, ripeto, che queste siano leggende immaginarie, e a esse aggiungiamo anche il sogno di Enea, che, come ben sai, negli Annali scritti in greco da Fabio Pittore è narrato in modo che tutto ciò che fu poi compiuto da Enea e che gli accadde corrisponda esattamente alle cose a lui apparse mentre era immerso nel sonno. |
Nam quem Thucydides, qui et Atheniensis erat et summo loco natus summusque vir et paulo aetate posterior, tantum <morbo> mortuum scripsit et in Attica clam humatum, addidit fuisse suspicionem veneno sibi conscivisse mortem: hunc isti aiunt, cum taurum immolavisset, excepisse sanguinem patera et eo poto mortuum concidisse. hanc enim mortem rhetorice et tragice ornare potuerunt; illa mors volgaris nullam praebebat materiem ad ornatum. quare quoniam tibi ita quadrat, omnia fuisse Themistocli paria et Coriolano, pateram quoque a me sumas licet, praebebo etiam hostiam, ut Coriolanus sit plane alter Themistocles. | Tucidide -il quale era ateniese, era di stirpe assai nobile, era uomo eccelso, ed era di poco posteriore agli avvenimenti -scrisse solo che era morto di malattia ed era stato sepolto clandestinamente in Attica, aggiungendo che era circola to il sospetto che si fosse dato la morte coi veleno;" costoro invece dicono che dopo avere immolato un toro, ne raccolse il sangue in una tazza, e, bevutolo, cadde morto. Una morte così potevano abbellirla di ornamenti retorici e tragici; quell'altra morte banale non offriva materia per ornamenti. Perciò, siccome ti torna bene che in Temistocle e in Coriolano ogni cosa fosse compagna, puoi prendere da me anche la tazza, e ti fornirò pure la vittima, di modo che Coriolano sia proprio un altro Temistocle". |
Iam cetera in XII minuendi sumptus sunt lamentationisque funebris, translata de Solonis fere legibus. 'Hoc plus' inquit 'ne facito. Rogum ascea ne polito.' Nostis quae sequuntur. Discebamus enim pueri XII ut carmen necessarium, quas iam nemo discit. Extenuato igitur sumptu tribus reciniis et tunicula purpurea et decem tibicinibus, tollit etiam <nimiam> lamentationem: 'Mulieres genas ne radunto neve lessum funeris ergo habento.' Hoc veteres interpretes Sex.Aelius L. Acilius non satis se intellegere dixerunt, sed suspicari vestimenti aliquod genus funebris, L. Aelius lessum quasi lugubrem eiulationem, ut vox ipsa significat. Quod eo magis iudico verum esse quia lex Solonis id ipsum vetat. Haec laudabilia et locupletibus fere cum plebe communia. Quod quidem maxime e natura est, tolli fortunae discrimen in morte. | Le altre norme delle dodici tavole poi, relative alla diminuzione delle spese ed al compianto funebre, furono quasi tradotte dalla legislazione di Solone. È detto: "Non si faccia più questo: non si levighi con l'ascia la legna del rogo". Tu sai quel che segue, che da fanciulli imparavamo a memoria le dodici tavole come un carme obbligatorio; ma ormai quasi più nessuno le studia. Limitata dunque la spesa a tre pezze di stoffa, ad una tunichetta di porpora ed a dieci flautisti, elimina anche il lamento funebre: "Le donne non si graffino le guance e di conseguenza non intonino la nenia per il funerale". Gli antichi interpreti Sesto Elio e L. Acilio dissero di non riuscire a comprenderlo, ma s'immaginava un qualche genere di abito da lutto, e L. Elio affermava che quelle nenie sono quasi un lugubre pianto, secondo il significato del termine stesso; e tanto più credo essere vera questa interpretazione, in quanto la legge di Solone contiene esattamente tale divieto. Queste lodevoli disposizioni sono per lo più comuni ai ricchi ed al popolo; ed è assolutamente un fatto naturale che davanti alla morte venga meno ogni distinzione di fortuna. |
Atticus:Video quae sint in pontificio iure, sed quaero ecquidnam sit in legibus.Marcus:Pauca sane Tite, et ut arbitror non ignota vobis. Sed ea non tam ad religionem spectant quam ad ius sepulcrorum. 'Hominem mortuum' inquit lex in XII ' in urbe ne sepelito neve urito.' Credo vel propter ignis periculum. Quod autem addit 'neve urito', indicat non qui uratur sepelin, sed qui humetur.Atticus:Quid quod post XII in urbe sepulti sunt clari viri?Marcus:Credo Tite fuisse aut eos quibus hoc ante hanc legem virtutis causa tributum est, ut Poplicolae, ut Tuberto, quod eorum posteri iure tenuerunt, aut eos si qui hoc ut C.Fabricius virtutis causa soluti legibus consecuti sunt. Sed <ut> in urbe sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum collegio, non esse ius in loco publico fieri sepulcrum. Nostis extra portam Collinam aedem Honoris. Aram in eo loco fuisse memoriae proditum est. Ad eam cum lamina esset inventa, et in ea scriptum <lamina> 'Honoris', ea causa fuit <ut> aedis haec dedicare<tur>. Sed quom multa in eo loco sepulcra fuissent, exarata sunt. Statuit enim collegium locum publicum non potuisse privata religione obligari. | Attico:Mi rendo conto di ciò che è compreso nel diritto pontificale, ma ti chiedo, che cosa venga stabilito nelle leggi.Marco:Poche disposizioni, Tito, e, come credo, non ignote a voi; ma esse riguardano non tanto il culto, quanto i diritti relativi ai sepolcri. La legge dice nelle dodici tavole: "Non si seppellisca né si cremi in città il cadavere", penso a causa del pericolo di incendio. E poiché aggiunge "non si cremi", chiarisce che non è seppellito colui che viene cremato, ma colui che è inumato.Attico:Ma come è possibile, se dopo la promulgazione delle dodici tavole si seppellirono in città gli uomini illustri?Marco:Credo, Tito, che si sia trattato di quelli cui tal privilegio fu conferito prima di questa legge in riconoscimento del loro valore, come a Publicola ed a Tuberto, privilegio che i loro discendenti conservarono per diritto, o di quelli che lo conseguirono come G. Fabrizio, essendo stati esonerati dall'osservanza della legge a causa dei loro meriti. Ma come la legge fa divieto di seppellire in città, così il collegio dei pontefici stabilì che non fosse lecito che si costruissero sepolcri in luogo pubblico. Tu conosci il tempio dell'Onore fuori porta Collina; si tramanda che in quel luogo ci fosse un altare; e che, essendosi trovata presso di essa una lamina con su scritto "lamina dell'Onore", tale fu il motivo della dedica di questo tempio. Ma poiché in quel luogo si trovavano molti sepolcri, vi fu passato sopra l'aratro; infatti il collegio stabilì che un luogo pubblico non poteva essere usato per riti di culto privato. |
«Cum pateat igitur aeternum id esse, quod a se ipso moveatur, quis est, qui hanc naturam animis esse tributam neget? Inanimum est enim omne, quod pulsu agitatur externo; quod autem est animal, id motu cietur interiore et suo; nam haec est propria natura animi atque vis; quae si est una ex omnibus, quae sese moveat, neque nata certe est et aeterna est. Hanc tu exerce optimis in rebus! Sunt autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit; idque ocius faciet, si iam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime se a corpore abstrahet.Namque eorum animi, qui se corporis voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et hominum iura violaverunt, corporibus elapsi circum terram ipsam volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis revertuntur». Ille discessit; ego somno solutus sum. | “Dal momento che, dunque, è evidente che è eterno ciò che si muove da sé, chi c’è che potrebbe negare che questa qualità sia stata assegnata all’anima? Infatti è senza anima tutto ciò che è mosso da un impulso esterno; ciò che invece è animato, si muove per impulso interno e proprio; questa è infatti la proprietà naturale dell’animo; e se essa è l’unica tra tutti gli esseri che si muove da sé, senza dubbio non è mai nata ed è eterna. Questa tu devi esercitare nelle attività più nobili. D’altra parte, le più nobili sono le attività in favore della salvezza della patria, e l’anima – spinta e tenuta in esercizio da queste preoccupazioni – potrà più velocemente volare a questa sua sede e dimora. E farà ciò più prontamente se riuscirà a sollevare lo sguardo su ciò che sta al di fuori del mondo nel momento in cui sarà già rinchiuso nel corpo e, contemplando ciò che sarà al di fuori, riuscirà ad astrarsi il più possibile lontano dal corpo. Infatti l’anima di coloro che si sono arresi alle passioni e si sono offerti per così dire come servi di quelle e hanno violato le leggi degli dèi e degli uomini per impulso dei piaceri che obbediscono alle passioni, una volta scivolata via dal corpo, è trascinata in cielo intorno alla terra e non ritorna |
Quintus:Aliquotiens iam iste iocus a te tactus est. Sed antequam ad populares leges venias, vim istius caelestis legis explana si placet, ne aestus nos consuetudinis absorbeat et ad sermonis morem usitati trahat.Marcus:A parvis enim Quinte didicimus, 'si in ius vocat' atque alia eius modi leges <alias> nominare. Sed vero intellegi sic oportet, et hoc et alia iussa ac vetita populorum vim habere ad recte facta vocandi et a peccatis avocandi, quae vis non modo senior est quam aetas populorum et civitatium, sed aequalis illius caelum atque terras tuentis et regentis dei. | Quinto:Già più volte hai toccato questo argomento. Ma prima di venire alle leggi relative ai popoli, spiegaci, per favore, la natura di questa legge celeste, affinché l'onda dell'abitudine non ci travolga e ci spinga sulla strada di una comune conversazione.Marco:Fin da fanciulli, Quinto, ci è stato insegnato a chiamare leggi il "Se chiama in giudizio" ed altre espressioni di tal genere. Ma così occorre intendere, cioè che questi ed altri analoghi precetti e divieti dei popoli hanno la forza di invitare alle azioni corrette e di allontanare dalle colpe, forza che non soltanto è più antica dell'età stessa dei popoli e degli Stati, ma è coeva di quel dio che protegge e governa il cielo e le terre. |
Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio; rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. | Vengo ora alla passione di costui, come egli stesso la chiama, alla morbosa mania come la chiamano i suoi amici, al ladrocinio come la chiamano i Siculi. Non so con quale nome chiamarla. Vi esporrò il fatto: voi valutatelo non con il peso del nome (non in base al nome). Cercate di capire innanzitutto lo stesso genere, giudici, poi forse non cercherete con grande impegno con quale nome ritenete che ciò debba essere chiamato. Io dico che in tutta la Sicilia, provincia tanto ricca e antica, con tante città, e tante famiglie tanto ricche, non c’è stato nessun vaso d’argento, alcuno corinzio o delio, nessuna gemma o perla, nessuna cosa fatta di oro o di avorio, nessuna statua di bronzo, di marmo, di avorio, dico di nuovo (non c’è stato) alcun dipinto né su quadro né su tessuto che abbia esaminato, indagato e che non abbia portato via se gli fosse piaciuto. |
CICERO ATTICO SAL.post tuum a me discessum litterae mihi Roma adlatae sunt ex quibus perspicio nobis in hac calamitate tabescendum esse. neque enim (sed bonam in partem accipies) si ulla spes salutis nostrae subesset, tu pro tuo amore in me hoc tempore discessisses. sed ne ingrati aut ne omnia velle nobiscum una interire videamur, hoc omitto; illud abs te peto des operam, id quod mihi adfirmasti, ut te ante Kalendas Ianuarias ubicumque erimus sistas. | CICERONE AD ATTICODopo la tua partenza da qui mi è stata consegnata una lettera da Roma, dalla quale vedo con chiarezza che dovròmarcire in questa mia desolazione. E infatti (ma prendila nel verso giusto), se fosse subentrata una qualche speranzadi salvezza, tu per l'affetto che mi porti non te ne saresti partito proprio adesso. Ma non voglio parlarne, per nonsembrare ingrato o desideroso di coinvolgere l'universo intero nella mia rovina: ti chiedo solo, come mi haiassicurato, di fermarti - entro il 1° gennaio - dovunque io mi trovi. |
Illud forsitan quaerendum sit, num haec communitas, quae maxime est apta naturae ea sit etiam moderationi modestiaeque semper anteponenda. non placet; sunt enim quaedam partim ita foeda, partim ita flagitiosa, ut ea ne conservandae quidem patriae causa sapiens facturus sit. Ea Posidonius collegit permulta, sed ita taetra quaedam, ita obscena, ut dictu quoque videantur turpia. Haec igitur non suscipiet rei publicae causa, ne res publica quidem pro se suscipi volet.Sed hoc commodius se res habet, quod non potest accidere tempus, ut intersit rei publicae quicquam illorum facere sapientem. | Ora, ci si potrebbe domandare: questo sentimento di fratellanza, che più d'ogni altro è conforme alla natura umana, è anche da anteporsi sempre alla moderazione e alla temperanza? Io rispondo di no. Ci sono certe azioni così infami, così criminose che un uomo saggio non si sognerebbe mai di commettere neppure per salvare la propria patria. Posidonio ne raccolse moltissimi esempi, ma alcuni così sconci, così osceni che paion turpi anche solo a dirsi. Di questi, dunque, l'uomo saggio non si aggraverà la coscienza neppure per amor di patria; e del resto nemmeno la patria vorrà che uno si disonori per amor suo. Ma, per fortuna, la cosa è tanto più agevole in quanto è del tutto improbabile che l'interesse dello Stato esiga un tale sacrificio dal sapiente. |
Peregrini autem atque incolae officium est nihil praeter suum negotium agere, nihil de alio anquirere minimeque esse in aliena re publica curiosum. - Ita fere officia reperientur, cum quaeretur quid deceat et quid aptum sit personis, temporibus, aetatibus. Nihil est autem quod tam deceat, quam in omni re gerenda consilioque capiendo servare constantiam. | Dovere, poi, del forestiere, o di passaggio o residente, è di badare soltanto ai fatti suoi, non immischiandosi negli affari degli altri e non ficcando il naso nella politica di uno Stato che non è il suo. Questi sono all'incirca i doveri che si ritrovano indagando quale sia l'essenza del decoro in rapporto alle persone, alle circostanze e alle età. Ma il sommo del decoro consiste pur sempre nel mantenere la coerenza in ogni azione e in ogni risoluzione. |
Nunc, patres conscripti, ego mea video quid intersit. Si eritis secuti sententiam C. Caesaris, quoniam hanc is in re publica viam, quae popularis habetur, secutus est, fortasse minus erunt hoc auctore et cognitore huiusce sententiae mihi populares impetus pertimescendi; sin illam alteram, nescio an amplius mihi negotii contrahatur. Sed tamen meorum periculorum rationes utilitas rei publicae vincat. Habemus enim a Caesare, sicut ipsius dignitas et maiorum eius amplitudo postulabat, sententiam tamquam obsidem perpetuae in rem publicam voluntatis.Intellectum est, quid interesset inter levitatem contionatorum et animum vere popularem saluti populi consulentem. | Ora, padri coscritti, so bene cosa mi convenga. Se seguirete il parere di Caio Cesare, per il fatto che egli segue il gruppo politico detto democratico, probabilmente dovrò aver meno timore degli attacchi dei democratici, essendo lui il promotore e il sostenitore di questa proposta. Se invece voterete la proposta di Silano, potrei andare incontro a difficoltà maggiori. Ma l'importante è che l'interesse dello Stato prevalga sulla considerazione dei pericoli personali. Abbiamo infatti da parte di Cesare, così come richiede il suo rango e la nobiltà dei suoi antenati, una proposta che è garanzia della sua incrollabile devozione allo Stato. È evidente quale differenza intercorra tra la superficialità dei demagoghi e uno spirito davvero democratico, tutto teso al bene del popolo. |
Deinde qui alterum violat, ut ipse aliquid commodi consequatur, aut nihil existimat se facere contra naturam aut magis fugienda censet mortem, paupertatem, dolorem, amissionem etiam liberorum, propinquorum, amicorum, quam facere cuiquam iniuriam. Si nihil existimat contra naturam fieri hominibus violandis, quid cum eo disseras, qui omnino hominem ex homine tollat? Sin fugiendum id quidem censet, sed multo illa peiora, mortem, paupertatem, dolorem, errat in eo, quod ullum aut corporis aut fortunae vitium vitiis animi gravius existimat.Ergo unum debet esse omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum; quam si ad se quisque rapiet, dissolvetur omnis humana consortio. | Inoltre colui che fa del male ad un altro per conseguire qualche vantaggio, o ritiene di non far niente contro natura o giudica che si debbano piuttosto tenere a distanza la morte, la povertà, il dolore, la perdita anche dei figli, dei parenti, degli amici, anziché recare offesa a qualcuno. Se crede di non compiere niente contro natura col far violenza agli uomini, a che pro discutere con una persona che sopprime completamente l'umanità nell'uomo? Se invece pensa che si debba evitare ciò, ma che siano molto peggiori i mali, come la morte, la povertà, il dolore, sbaglia in questo, che ritiene più gravi dei difetti dell'animo quelli riguardanti il corpo o la fortuna. Uno solo, dunque, deve essere lo scopo di tutti: che coincida l'utile individuale con quello di tutti, in quanto se ciascuno se lo arrogherà, tutta la società umana andrà in frantumi. |
Quapropter de summa salute vestra populique Romani, de vestris coniugibus ac liberis, de aris ac focis, de fanis atque templis de totius urbis tectis ac sedibus, de imperio ac libertate, de salute Italiae, de universa re publica decernite diligenter, ut instituistis, ac fortiter. Habetis eum consulem, qui et parere vestris decretis non dubitet et ea, quae statueritis, quoad vivet, defendere et per se ipsum praestare possit. | Sta a voi, adesso, prendere una decisione con la stessa solerzia e con la stessa fermezza con cui avete iniziato: è in discussione la sicurezza vostra e del popolo romano, la vita delle vostre mogli e dei vostri figli, gli altari e i focolari sacri, i templi e i santuari, le case e le abitazioni dell'intera città, l'impero e la libertà, la vita dell'Italia, lo Stato nel suo complesso. Avete un console che non esiterà a eseguire i vostri decreti e a difendere quanto stabilirete, finché vivrà. Egli potrà garantire di persona. |
Ex quo efficitur illud, ut is agnoscat deum, qui, unde ortus sit, quasi recordetur <ac> cognoscat. Iam vero virtus eadem in homine ac deo est, neque alio ullo in gen<ere> praeterea. Est autem virtus nihil aliud, nisi perfecta et ad summum perducta natura: est igitur homini cum deo similitudo. Quod cum ita sit, quae tandem esse potest proprior certiorve cognatio? Itaque ad hominum commoditates et usus tantam rerum ubertatem natura largita est, ut ea, quae gignuntur, donata consulto nobis, non fortuito nata videantur, nec solum ea quae frugibus atque bacis terrae fetu profunduntur, sed etiam pecudes, qu<om> perspicuum sit <plerasque> esse ad usum hominum, partim ad fructum, partim ad vescendum, procreatas. | Da ciò deriva che conosce il dio colui il quale quasi ricordi e riconosca dove egli nacque. Dunque la virtù è la medesima nell'uomo e nella divinità, ed al di fuori di essi non sussiste in alcun'altra specie. Inoltre la virtù altro non è se non la natura stessa portata al massimo della perfezione; esiste infatti una somiglianza tra l'uomo ed il dio. Così stando le cose, in definitiva quale parentela vi potrebbe essere più stretta e più certa? Di conseguenza la natura elargì per le comodità ed i pratici vantaggi dell'uomo tanta abbondanza di beni, che queste creature sembrano donateci deliberatamente, e non nate per caso, e non citiamo soltanto quelle ricchezze che vengono profuse dalla fecondità della terra con messi e con frutti, ma anche gli animali, essendo evidente che parte di essi sono stati procreati per l'utilità dell'uomo, parte affinché egli li sfrutti, parte per nutrirlo. |
Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita conlocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in ortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam compluxu, osculatione, actis, navigatione, conviviis, ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur: cum hac si qui adulescens forte fuerit, utrum hic tibi, L.Herenni, adulter an amator, expugnare pudicitiam an explee libidinem voluisse videatur? | Se questa donna non sposata avesse aperto la sua casa alla passione di tutti, se si fosse posta apertamente a una vita da meretrice, se avesse stabilito di frequentare banchetti di uomini assai sconvenienti, se facesse ciò nella città, nei giardini, nella folla di Baia, se infine si comportasse così non solo nel portamento ma anche nell’abbigliamento e nella compagnia, nei gesti, nel rapporto con gli altri, nei banchetti, così da sembrare non solo una meretrice ma anche una meretrice sfrontata e insolente, se qualche giovane per caso fosse stato con questa, questo (giovane), Lucio Erennio, ti sembrerebbe adultero o amatore che abbia voluto espugnare la pudicizia (della donna) o saziare una passione? |
Quid enim quis aliud in maxima discentium multitudine, summa magistrorum copia, praestantissimis hominum ingeniis, infinita causarum varietate, amplissimis eloquentiae propositis praemiis esse causae putet, nisi rei quandam incredibilem magnitudinem ac difficultatem? Est enim et scientia comprehendenda rerum plurimarum, sine qua verborum volubilitas inanis atque inridenda est, et ipsa oratio conformanda non solum electione, sed etiam constructione verborum, et omnes animorum motus, quos hominum generi rerum natura tribuit, penitus pernoscendi, quod omnis vis ratioque dicendi in eorum, qui audiunt, mentibus aut sedandis aut excitandis expromenda est; accedat eodem oportet lepos quidam facetiaeque et eruditio libero digna celeritasque et brevitas et respondendi et lacessendi subtili venustate atque urbanitate coniuncta; [...] | Infatti che altro motivo c'è che uno stimi nella grandissima folla di discepoli con un'enorme abbondanza di insegnanti per le menti eccellenti degli uomini nell'infinita varietà di cause agli altissimi premi proposti dall'eloquenza,se non un'incredibile grandezza e difficoltà di ciò? Infatti anche la conoscenza di numerose cose deve essere fatta propria, senza la quale la speditezza di parola è inutile e deve essere derisa e lo stesso discorso deve essere abbellito non solo con la scelta, ma anche con la costruzione delle parole e tutti i sentimenti degli animi che natura diede al genere umano devono essere conosciuti a fondo, poiché ogni forza e l'arte oratoria nelle menti di coloro che ascoltano deve essere dispiegata o per colmarle o per eccitarle. E' opportuno che una qualche grazia si aggiunga a ciò e l'umorismo e liberamente un'erudizione degna sia la scioltezza che la stringatezza e nel rispondere e nell'attaccare e unita ad una sottile grazia e gentilezza;[...] |
Sit ergo hic sermo, in quo Socratici maxime excellunt, lenis minimeque pertinax, insit in eo lepos. Nec vero, tamquam in possessionem suam venerit, excludat alios, sed cum reliquis in rebus tum in sermone communi vicissitudinem non iniquam putet. Ac videat in primis, quibus de rebus loquatur, si seriis, severitatem adhibeat, si iocosis leporem. In primisque provideat, ne sermo vitium aliquod indicet inesse in moribus; quod maxime tum solet evenire, cum studiose de absentibus detrahendi causa aut per ridiculum aut severe, maledice contumelioseque dicitur. | Sia dunque questo il linguaggio della conversazione, in cui si distinguono massimamente i socratici, leggero e niente affatto arrogante, vi sia in esso grazia; né, invero, come è entrato in suo possesso, escluda gli altri, ma come negli altri casi così nel linguaggio comune non reputi invano il parlare uno per volta; e soprattutto veda di quali cose si parla, se serie, ricorra alla serietà, se leggere, alla facezia; e soprattutto faccia in modo che la conversazione non dichiari che c'è qualche vizio nei costumi; cosa che massimamente tanto suole accadere quanto si parla male e oltraggiosamente degli assenti a bella posta a scopo di denigrazione o in tono scherzoso o seriamente. |
Inprimisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio. Itaque cum sumus necessariis negotiis curisque vacui, tum avemus aliquid videre, audire, addiscere cognitionemque rerum aut occultarum aut admirabilium ad beate vivendum necessariam ducimus. Ex quo intellegitur, quod verum, simplex sincerumque sit, id esse naturae hominis aptissimum. Huic veri videndi cupiditati adiuncta est appetitio quaedam principatus, ut nemini parere animus bene informatus a natura velit nisi praecipienti aut docenti aut utilitatis causa iuste et legitime imperanti; ex quo magnitudo animi existit humanarumque rerum contemptio. | Ma soprattutto è propria esclusivamente dell'uomo l'accurata e laboriosa ricerca del vero. Ecco perché, quando siamo liberi dalle occupazioni e dalle ansie inevitabili della vita, allora ci prende il desiderio di vedere, di udire, d'imparare, e siamo convinti che il conoscere i segreti e le meraviglie della natura è la via necessaria per giungere alla felicità. E di qui ben si comprende come nulla sia più adatto alla natura umana di ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero. A questo desiderio di contemplare la verità, va unita un certo desiderio d'indipendenza spirituale, per cui un animo ben formato per natura non è disposto ad obbedire ad alcuno, se non a chi lo educhi e lo ammaestri, oppure, nel suo interesse, con giusta e legittima autorità gli dia degli ordini. Di qui sorge la grandezza d'animo, di qui il disprezzo delle cose umane. |
Quod si in scaena, id est in contione, in qua rebus fictis et adumbratis loci plurimum est, tamen verum valet, si modo id patefactum et illustratum est, quid in amicitia fieri oportet, quae tota veritate perpenditur? in qua nisi, ut dicitur, apertum pectus videas tuumque ostendas, nihil fidum, nihil exploratum habeas, ne amare quidem aut amari, cum, id quam vere fiat, ignores. Quamquam ista assentatio, quamvis perniciosa sit, nocere tamen nemini potest nisi ei qui eam recipit atque ea delectatur.Ita fit, ut is assentatoribus patefaciat aures suas maxime, qui ipse sibi assentetur et se maxime ipse delectet. | Se, dunque, in quel teatro che è l'assemblea popolare, dove finzioni e apparenze giocano un ruolo di primo piano, il vero comunque prevale, purché sia svelato e messo nella giusta luce, che cosa deve accadere nell'amicizia, che si misura tutta sul metro della verità? Se nell'amicizia non vedessi, come si dice, che l'amico ti apre il suo cuore e tu gli mostri il tuo, non avresti nulla di cui fidarti, nulla di cui esser certo, neppure di amare e di essere amato, perché non sapresti quanto ci sia di vero in tutto ciò. Del resto l'adulazione, per quanto sia pericolosa, nuoce soltanto a chi l'ammette e se ne compiace. Ecco perché è proprio l'uomo pieno di sé e tutto preso dalla propria persona a spalancare le orecchie agli adulatori. |
Sed iuris consulti, sive erroris obiciundi causa, quo plura et difficiliora scire videantur, sive, quod similius veri est, ignoratione docendi - nam non solum scire aliquid artis est, sed quaedam ars [est] etiam docendi - saepe quod positum est in una cognitione, id in infinita dispertiuntur. Velut in hoc ipso genere, quam magnum illud Scaevolae faciunt, pontifices ambo et eidem iuris peritissimi! 'Sae<pe>' inquit Publi filius 'ex patre audivi, pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset.' Totumne? Quid ita? Quid enim ad pontificem de iure parietum aut aquarum aut luminum <ni>si eo quod cum religione coniunctum est? Id autem quantulum est! De sacris credo, de votis, de feriis et de sepulcris, et si quid eius modi est.Cur igitur haec tanta facimus, cum cetera perparva sint, de sacris autem, qui locus patet latius, haec sit una sententia, ut conserventur semper et deinceps familiis prodantur, et ut in lege posui perpetua sint sacra? | Ma i giuristi, o per sottolineare un errore, al fine di sembrare d'avere una preparazione più vasta e sottile, oppure, il che è più verisimile, per ignoranza di metodo - infatti non soltanto conoscere qualcosa appartiene alla scienza, ma [vi è] pure una scienza dell'insegnare -, spesso dividono all'infinito ciò che si riferisce ad un unico concetto, come appunto in questa materia ampliandola in misura tanto estesa come fanno i due Scevola, entrambi pontefici ed espertissimi di diritto. Dice il figlio di Publio: "Ho spesso sentito dire da mio padre che nessuno può essere un buon pontefice, se non conosce il diritto civile". Ma parla forse di una conoscenza completa? E perché? Quanto può importare ad un pontefice del diritto dei muri comuni o delle acque o delle luminarie, se non che abbia attinenza con le faccende del culto? E questo punto quanto è limitato come importanza! Consiste nelle cerimonie, nei voti, nelle feste, nei sepolcri, e se in ciò che vi sia qualcosa di analogo. Perché allora diamo loro tanta importanza? Essendo le altre questioni d'interesse assolutamente limitato, circa le cerimonie del culto, argomento questo più esteso, l'unico principio sia il seguente, che i riti si conservino sempre e si tramandino nelle famiglie, e, come ho esposto nella legge, siano perpetui. Ciò posto, questo diritto per l'autorità dei pontefici fece sì che nemmeno alla morte del capo famiglia venisse a cadere la memoria del culto familiare, ed esso fosse attribuito a coloro che, per la morte del padre, fossero eredi di un patrimonio. |
Quid? quod Agamemnon cum devovisset Dianae, quod in suo regno pulcherrimum natum esset illo anno, immolavit Iphigeniam, qua nihil erat eo quidem anno natum pulchrius. Promissum potius non faciendum, quam tam taetrum facinus admittendum fuit. Ergo et promissa non facienda nonnumquam neque semper deposita reddenda. Si gladium quis apud te sana mente deposuerit, repetat insaniens, reddere peccatum sit, officium non reddere. Quid? si is, qui apud te pecuniam deposuerit, bellum inferat patriae, reddasne depositum? Non credo, facies enim contra rem publicam, quae debet esse carissima.Sic multa, quae honesta natura videntur esse, temporibus fiunt non honesta. Facere promissa, stare conventis, reddere deposita commutata utilitate fiunt non honesta. Ac de iis quidem, quae videntur esse utilitates contra iustitiam simulatione prudentiae, satis arbitror dictum. | E che dire di Agamennone? Avendo offerto in voto a Diana quello che di più bello fosse nato nel suo regno in quell'anno, immolò Ifigenia, della quale, almeno in quell'anno, niente era nato di più bello; avrebbe dovuto fare a meno dì promettere, anziché commettere un delitto così infame. Non sempre, dunque, bisogna promettere e non sempre bisogna restituire ciò che si è avuto in deposito. Se uno sano di mente avesse depositato presso di te una spada e, divenuto folle, te la richiedesse, sarebbe una colpa il restituirla, dovere il non restituirla. E che? Se uno, che avesse depositato del denaro presso dì te, muovesse guerra alla patria, dovresti restituirgli la somma depositata? Credo di no, perché agiresti contro lo Stato, che deve starti a cuore più d'ogni cosa. Così molte azioni, che sembrerebbero oneste per natura, diventano in particolari circostanze disoneste: mantenere le promesse, attenersi ai patti, restituire i depositi, cambiate le utilità diventano azioni disoneste. Ed anche di quelle azioni che, per una finzione di prudenza, sembrano essere utili, pur contrastando la giustizia, credo di aver parlato a sufficienza. |
Est autem eius discriptio duplex; nam et generale quoddam decorum intellegimus, quod in omni honestate versatur, et aliud huic subiectum, quod pertinet ad singulas partes honestatis. Atque illud superius sic fere definiri solet, decorum id esse, quod consentaneum sit hominis excellentiae in eo, in quo natura eius a reliquis animantibus differat. quae autem pars subiecta generi est, eam sic definiunt, ut id decorum velint esse, quod ita naturae consentaneum sit, ut in eo moderatio et temperantia appareat cum specie quadam liberali. | Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro o conveniente intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol dare pressappoco questa definizione: "è decoro ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri esseri viventi"; la parte speciale, invece, è definita così: "decoro è ciò che è conforme alla particolare natura di ciascuno, così che in esso appaiono moderazione e temperanza con un certo aspetto di nobiltà". |
Sanguine pluisse senatui nuntiatum est, Atratum etiam fluvium fluxisse sanguine, deorum sudasse simulacra. Num censes his nuntiis Thalen aut Anaxagoran aut quemquam physicum crediturum fuisse? Nec enim sanguis nec sudor nisi e corpore. Sed et decoloratio quaedam ex aliqua contagione terrena maxume potest sanguini similis esse, et umor adlapsus extrinsecus, ut in tectoriis videmus austro, sudorem videtur imitari. Atque haec in bello plura et maiora videntur timentibus, eadem non tam animadvertuntur in pace; accedit illud etiam, quod in metu et periculo cum creduntur facilius, tum finguntur impunius.Nos autem ita leves atque inconsiderati sumus, ut, si mures corroserint aliquid, quorum est opus hoc unum, monstrum putemus. Ante vero Marsicum bellum quod clipeos Lanuvii, ut a te dictum est, mures rossent, maxumum id portentum haruspices esse dixerunt; quasi vero quicquam intersit, mures diem noctem aliquid rodentes scuta an cribra corroserint! Nam si ista sequimur, quod Platonis Politian nuper apud me mures corroserunt, de re publica debui pertimescere, aut, si Epicuri de voluptate liber rosus esset, putarem annonam in macello cariorem fore. | Fu riferito al senato che era piovuto sangue, che anche le acque del fiume Atrato si erano tinte di sangue, che le statue degli dèi avevano sudato. Ritieni che Talete o Anassagora o qualsiasi altro filosofo della natura avrebbe prestato fede a simili notizie? Non c'è né sangue né sudore che non fuoriesca da un corpo vivente. Ma un mutamento di colore, provocato da qualche commistione con terra, può render l'acqua estremamente simile a sangue; e l'umidità proveniente dall'esterno, come vediamo sugli intonachi dei muri quando soffia lo scirocco, può rassomigliare al sudore. Questi fatti, del resto, appaiono più numerosi e più gravi in tempo di guerra, quando c'è uno stato di paura; in tempo di pace non ci si bada altrettanto. Si aggiunga anche un'altra cosa: in momenti di terrore e di pericolo non solo ci si crede con più facilità, ma si inventano più impunemente. Ma noi siamo così leggeri e sconsiderati che, se i topi han rosicchiato qualcosa (e questo è l'unico lavoro al quale si dedicano!), lo consideriamo un prodigio. Prima della guerra màrsica, siccome i topi, come hai rammentato, avevano rosicchiato degli scudi a Lanuvio, gli arùspici dissero che questo era un prodigio dei più terribili: come se ci fosse qualche differenza a seconda che i topi, i quali giorno e notte rodono qualcosa, avessero rosicchiato degli scudi o degli stacci! Se ci mettiamo per questa strada, dovrei disperare delle sorti dello Stato per il fatto che, poco tempo fa, i topi hanno rosicchiato in casa mia laRepubblicadi Platone, oppure, se mi avessero rosicchiato il libro di EpicuroSul piacere, avrei dovuto prevedere che al mercato i prezzi sarebbero rincarati. |
Themistocles post victoriam eius belli, quod cum Persis fuit, dixit in contione se habere consilium rei publicae salutare, sed id sciri non opus esse; postulavit, ut aliquem populus daret, quicum communicaret; datus est Aristides. Huic ille, classem Lacedaemoniorum, quae subducta esset ad Gytheum, clam incendi posse quo facto frangi Lacedaemoniorum opes necesse esset. Quod Aristides cum audisset, in contionem magna exspectatione venit dixitque perutile esse consilium, quod Themistocles adferret, sed minime honestum.Itaque Athenienses, quod honestum non esset, id ne utile quidem putaverunt totamque eam rem, quam ne audierant quidem, auctore Aristide repudiaverunt. Melius hi quam nos, qui piratas immunes, socios vectigales habemus. Maneat ergo, quod turpe sit, id numquam esse utile, ne tum quidem, cum id, quod utile esse putes, adipiscare; hoc enim ipsum, utile putare quod turpe sit, calamitosum est. | Temistocle, dopo la vittoria nella guerra contro i Persiani, disse nell'assemblea di avere un consiglio salutare per lo Stato, ma che non era opportuno venisse conosciuto: chiese che il popolo gli desse qualcuno da rendere partecipe di tale consiglio: venne designato Aristide. Egli gli disse che si poteva incendiare di nascosto la flotta spartana, all'ancora a Giteo, cosa che avrebbe inevitabilmente infranto le risorse degli Spartani. Dopo che Aristide ebbe udito ciò, si recò nell'assemblea tra l'aspettazione generale e disse che il consiglio di Temistocle era utilissimo ma per nulla onesto. Così gli Ateniesi non ritennero neanche utile ciò che non era onesto e dietro consiglio di Aristide rifiutarono un progetto che neppure conoscevano. Meglio essi di noi, che lasciamo sani e salvi i pirati e riscuotiamo tributi dagli alleati. Sia ben chiaro, dunque, che quanto è immorale non può mai essere utile, neppure quando si consegue ciò che si crede utile; è, difatti, dannoso persino lo stimare utile ciò che è immorale. |
Etenim quod summum bonum a Stoicis dicitur, convenienter naturae vivere, id habet hanc, ut opinor, sententiam, cum virtute congruere semper, cetera autem, quae secundum naturam essent, ita legere, si ea virtuti non repugnarent. Quod cum ita sit, putant quidam hanc comparationem non recte introductam nec omnino de eo genere quicquam praecipiendum fuisse. Atque illud quidem honestum, quod proprie vereque dicitur id in sapientibus est solis neque a virtute divelli umquam potest.In iis autem, in quibus sapientia perfecta non est, ipsum illud quidem perfectum honestum nullo modo, similitudines honesti esse possunt. | Infatti ciò che è chiamato dagli Stoici il sommo bene - il vivere secondo natura - ha questo significato, secondo il mio parere, di conformarsi sempre alla virtù e a tutte le altre cose che sono secondo natura, di sceglierle in quanto non siano in contrasto con la virtù. Poiché la questione sta in tali termini, alcuni ritengono che questa comparazione sia stata introdotta senza una giusta ragione e che, quindi, non si dovrebbero dare affatto insegnamenti. Inoltre quella onestà (ideale), si afferma con giusta proprietà, si trova nei soli sapienti e non può mai essere disgiunta dalla virtù. In coloro, invece, nei quali la sapienza non è perfetta, non è in alcun modo perfetta neppure quella stessa onestà, ma vi possono essere elementi ad essa somiglianti. |