source
stringlengths
29
24.8k
target
stringlengths
28
36.6k
Reliqui qui tum principes numerabantur in magistratibus erant cotidieque fere a nobis in contionibus audiebantur. erat enim tribunus plebis tum C. Curio, quamquam is quidem silebat, ut erat semel a contione universa relictus; Q. Metellus Celer non ille quidem orator sed tamen non infans; diserti autem Q. Varius C. Carbo Cn. Pomponius, et hi quidem habitabant in rostris; C. etiam Iulius aedilis curulis cotidie fere accuratas contiones habebat. sed me cupidissumum audiendi primus dolor percussit, Cotta cum est expulsus.reliquos frequenter audiens acerrumo studio tenebar cotidieque et scribens et legens et commentans oratoriis tantum exercitationibus contentus non eram. iam consequente anno Q. Varius sua lege damnatus excesserat.
Gli altri che allora venivano annoverati tra i primi, rivestivano magistrature, e io li potevo ascoltare quasi tutti i giorni nei discorsi che tenevano alle assemblee popolari. Infatti era allora tribuno della plebe Gaio Curione; per quanto lui se ne stava in silenzio, dopo che una volta l'aveva piantato in asso tutta l'assemblea; Quinto Metello Celere non era un oratore, è vero, ma la favella tuttavia non gli mancava; facondi erano invece Quinto Vario, Gaio Carbone, Gneo Pomponio; e questi stavano di casa sui rostri ; e anche Gaio Giulio edile curule, teneva quasi ogni giorno accurati discorsi di fronte all'assemblea del popolo. lo ardevo dal desiderio di ascoltare, ma il primo dolore mi colpì quando Cotta venne cacciato in esilio. Ascoltavo spesso gli altri, e mi applicavo allo studio col più grande fervore: ma per quanto ogni giorno scrivessi, leggessi, e mi allenassi all'eloquenza, tuttavia non mi accontentavo dei soli esercizi oratori. Intanto, nell'anno successivo, Quinto Vario, condannato in base alla sua stessa legge, aveva lasciato la città.
Sed quoniam earum rerum, quas ego gessi, non eadem est fortuna atque condicio quae illorum, qui externa bella gesserunt, quod mihi cum iis vivendum est, quos vici ac subegi, illi hostes aut interfectos aut oppressos reliquerunt, vestrum est, Quirites, si ceteris facta sua recte prosunt, mihi mea ne quando obsint, providere. Mentes enim hominum audacissimorum sceleratae ac nefariae ne vobis nocere possent, ego providi, ne mihi noceant, vestrum est providere.Quamquam, Quirites, mihi quidem ipsi nihil ab istis iam noceri potest. Magnum enim est in bonis praesidium, quod mihi in perpetuum comparatum est, magna in re publica dignitas, quae me semper tacita defendet, magna vis conscientiae, quam qui neglegunt, cum me violare volent, se ipsi indicabunt.
Ma dal momento che, dopo tutto quello che ho fatto, la mia posizione è ben diversa da chi ha combattuto all'estero, perché io devo vivere a fianco di coloro che ho vinto e domato e non mi lascio alle spalle nemici morti o ridotti all'impotenza, è vostro dovere, Quiriti, provvedere affinché un domani il mio operato non si ritorca contro di me, quando gli altri traggono profitto dalle loro imprese. Io ho provveduto perché non vi nuocessero i piani scellerati e nefandi degli individui più temerari. Ora sta a voi provvedere alla mia incolumità. È pur vero, Quiriti, che nessuno di costoro è in grado di nuocermi. Perché è grande la protezione che viene dagli onesti: me la garantiranno in ogni momento. Grande è l'autorità dello Stato: tacita, mi difenderà per sempre. Grande è la forza della coscienza: chi la trascurerà volendo nuocermi, denuncerà se stesso.
Atticus:Perge, quaeso. Nam id quod tibi concessi, quorsus pertineat, exspecto.Marcus:Non faciam longius. Huc enim pertinet: animal hoc providum, sagax, multiplex, acutum, memor, plenum rationis et consilii, quem vocamus hominem, praeclara quadam condicione generatum esse a supremo deo. Solum est enim ex tot animantium generibus atque naturis particeps rationis et cogitationis, quom cetera sint omnia expertia. Quid est autem, non dicam in homine, sed in omni caelo atque terra, ratione divinius? Quae quom adolevit atque perfecta est, nominatur rite sapientia.
Attico:Continua, ti prego; che sto aspettando di sentire quale attinenza abbia ciò che ti ho concesso.Marco:Non mi dilungherò; riguarda infatti questo, che quell'essere previdente, sagace, multiforme, acuto, memore, pieno di ragione e di senno, che denominiamo uomo, è stato generato dal sommo dio in una certa condizione privilegiata; fra tanti generi e specie di esseri animati è infatti l'unico partecipe della ragione e del pensiero, mentre tutti gli altri ne sono privi. Che cosa infatti vi è, non dirò nell'uomo, ma in tutto il cielo e la terra di più divino della ragione? Essa, quando è cresciuta ed è diventata perfetta, giustamente si chiama saggezza.
Praeterea, cum fato omnia fiant, id quod alio loco ostendetur, si quis mortalis possit esse, qui conligationem causarum omnium perspiciat animo, nihil eum profecto fallat. Qui enim teneat causas rerum futurarum, idem necesse est omnia teneat quae futura sint. Quod cum nemo facere nisi deus possit, relinquendum est homini, ut signis quibusdam consequentia declarantibus futura praesentiat. Non enim illa quae futura sunt subito exsistunt, sed est quasi rudentis explicatio sic traductio temporis nihil novi efficientis et primum quidque replicantis.Quod et ii vident, quibus naturalis divinatio data est, et ii, quibus cursus rerum observando notatus est. Qui etsi causas ipsas non cernunt, signa tamen causarum et notas cernunt; ad quas adhibita memoria et diligentia et monumentis superiorum efficitur ea divinatio, quae artificiosa dicitur, extorum, fulgorum, ostentorum signorumque caelestium. Non est igitur ut mirandum sit ea praesentiri a divinantibus quac nusquam sint; sunt enim omnia, sed tempore absunt. Atque ut in seminibus vis inest earum rerum, quae ex iis progignuntur, sic in causis conditae sunt res futurae, quas esse futuras aut concitata mens aut soluta somno cernit aut ratio aut coniectura praesentit. Atque ut ii qui solis et lunae reliquorumque siderum ortus, obitus motusque cognorunt, quo quidque tempore eorum futurum sit multo ante praedicunt, sic, qui cursum rerum eventorumque consequentiam diuturnitate pertractata notaverunt, aut semper aut, si id difficile est, plerumque, quodsi ne id quidem conceditur, non numquam certe quid futurum sit intellegunt. Atque haec quidem et quaedam eiusdem modi argumenta, cur sit divinatio, ducuntur a fato.
Inoltre, siccome tutto avviene per determinazione del fato, come dimostreremo altrove, se potesse esservi un uomo capace di abbracciare col proprio intelletto l'intera concatenazione delle cause, costui saprebbe certamente tutto. Chi, infatti, conoscesse le cause degli avvenimenti futuri, necessariamente conoscerebbe tutto il futuro. Ma poiché nessuno può far questo tranne la divinità, bisogna che l'uomo si accontenti di prevedere il futuro in base ad alcuni segni che gli indicano ciò che da essi conseguirà. Il futuro non sorge all'improvviso: come lo sdipanarsi di una gomena, tale è lo scorrere del tempo che non produce nulla di nuovo e ritorna sempre al punto da cui mosse. Questo lo vedono sia coloro che hanno avuto in dote la divinazione naturale, sia coloro che con l'osservazione hanno compreso il corso degli eventi. Costoro, anche se non scorgono le cause vere e proprie, scorgono però i segni e gli indizi delle cause; per di più, con l'aiuto della memoria, dell'attenzione e di ciò che ci è stato tramandato dagli scritti dei nostri antenati, ecco che si forma quella divinazione che è chiamata artificiale, basata sull'esame delle viscere, dei fulmini, dei prodigi e dei segni provenienti dal cielo. Non c'è dunque motivo di meravigliarsi del fatto che gli indovini prevedano ciò che non vi è ancora in nessun luogo; tutte queste cose vi sono, ma sono ancora lontane nel tempo. E come nei semi è ìnsita la potenza generativa delle future piante, così nelle cause sono racchiusi gli eventi futuri; il loro avvento, lo prevede la mente invasata o immersa nel sonno, o anche il ragionamento e l'interpretazione. E come quelli che conoscono il sorgere, il tramontare, i moti del sole, della luna e degli altri astri sono in grado di predire con molto anticipo in quale tempo ciascuno di quei fenomeni avverrà, così quelli che con lunghe osservazioni hanno notato lo svolgersi dei fatti e il rapporto tra segni ed eventi comprendono il futuro, o sempre, o, se ciò può sembrare arrischiato, nella maggior parte dei casi, o, se neppur questo mi si vuol concedere, almeno parecchie volte. Questi argomenti, dunque, e altri dello stesso genere a favore della divinazione, sono tratti dall'esistenza del fato.
Licet eadem de Pausania Lysandroque dicere, quorum rebus gestis quamquam imperium Lacedaemoniis partum putatur, tamen ne minima quidem ex parte Lycurgi legibus et disciplinae conferendi sunt; quin etiam ob has ipsas causas et parentiores habuerunt exercitus et fortiores. Mihi quidem neque pueris nobis M. Scaurus C. Mario neque, cum versaremur in re publica, Q. Catulus Cn. Pompeio cedere videbatur; parvi enim sunt foris arma, nisi est consilium domi.Nec plus Africanus, singularis et vir et imperator in exscindenda Numantia rei publicae profuit quam eodem tempore P. Nasica privatus, cum Ti. Gracchum interemit; quamquam haec quidem res non solum ex domestica est ratione - attingit etiam bellicam, quoniam vi manuque confecta est - sed tamen id ipsum est gestum consilio urbano sine exercitu.
Lo stesso può dirsi di Pausania e di Lisandro, le cui imprese, pur avendo ampliato, come si crede, l'impero agli Spartani, tuttavia non si possono neppure lontanamente paragonare con le leggi e gli ordinamenti di Licurgo; anzi, proprio in virtù di questi, essi ebbero eserciti più disciplinati e più agguerriti. Secondo il mio parere, Marco Scauro, al tempo della mia fanciullezza, non era inferiore a Gaio Mario, e così Quinto Catulo, al tempo della mia attività politica, non era da meno di Gneo Pompeo: poco valgono gli eserciti in campo, se non c'è il buon consiglio in patria. E lo stesso Africano, uomo e generale veramente unico, distruggendo Numanzia, non giovò allo Stato più di quel che giovò, nel medesimo tempo, Publio Nasica, cittadino privato, uccidendo Tiberio Gracco. Si dirà che quest'azione non rientra solo nella ragione politica, ma riguarda anche la militare, in quanto fu compiuta con la forza delle armi; ma appunto quest'uso della forza avvenne per deliberazione civile e senza intervento dell'esercito.
Marcus:Videtis igitur magistratus hanc esse vim ut praesit praescribatque recta et utilia et coniuncta cum legibus. Ut enim magistratibus leges, ita populo praesunt magistratus, vereque dici potest, magistratum esse legem loquentem, legem autem mutum magistratum.
Marco:Facciamo allora precedere l'elogio della legge stessa citando i pregi ad essa connessi?Attico:Benissimo, come hai già fatto per la legge sul culto.Marco:Voi vi rendete dunque conto che questa è l'essenza del magistrato, di sovraintendere e dare prescrizioni giuste ed utili, nonché in armonia con le leggi. Come infatti le leggi stanno al di sopra dei magistrati, così i magistrati stanno al di sopra del popolo, e si può dire veramente che il magistrato è una legge parlante, la legge invece è un magistrato muto.
Sed incidunt saepe tempora, cum ea, quae maxime videntur digna esse iusto homine, eoque quem virum bonum dicimus, commutantur fiuntque contraria, ut reddere depositum, [etiamne furioso?] facere promissum quaeque pertinent ad veritatem et ad fidem; ea migrare interdum et non servare fit iustum. Referri enim decet ad ea, quae posui principio fundamenta iustitiae, primum ut ne cui noceatur, deinde ut communi utilitati serviatur. Ea cum tempore commutantur, commutatur officium et non semper est idem.
Ma si danno spesso circostanze in cui, quelle azioni che sembrano più degne di un uomo giusto, di quello, cioè, che chiamiamo galantuomo, si mutano nel loro contrario, come, per esempio, il restituire un deposito (anche a un pazzo furioso?), o il mantenere una promessa; e così, il trasgredire e il non osservare le leggi della sincerità e della lealtà, diventa talvolta cosa giusta. Conviene, infatti, riportarsi sempre a quelle norme fondamentali della giustizia che ho posto in principio: primo, non far male a nessuno; poi, servire alla utilità comune. Mutano col tempo le circostanze? Muta di pari passo il dovere e non è sempre lo stesso.
Iis igitur adsentior, qui duo genera divinationum esse dixerunt, unum, quod particeps esset artis, alterum, quod arte careret. Est enim ars in iis, qui novas res coniectura persequuntur, veteres observatione didicerunt. Carent autem arte ii qui non ratione aut coniectura observatis ac notatis signis, sed concitatione quadam animi aut soluto liberoque motu futura praesentiunt, quod et somniantibus saepe contingit et non numquam vaticinantibus per furorem, ut Bacis Boeotius, ut Epimenides Cres, ut Sibylla Erythrea.Cuius generis oracla etiam habenda sunt, non ea quae aequatis sortibus ducuntur, sed illa quae instinctu divino adflatuque funduntur; etsi ipsa sors contemnenda non est, si et auctoritatem habet vetustatis, ut eae sunt sortes, quas e terra editas accepimus; quae tamen ductae ut in rem apte cadant fieri credo posse divinitus. Quorum omnium interpretes, ut grammatici poetarum, proxime ad eorum, quos interpretantur, divinationem videntur accedere. Quae est igitur ista calliditas, res vetustate robustas calumniando velle pervertere? "Non reperio causam." Latet fortasse obscuritate involuta naturae; non enim me deus ista scire, sed his tantum modo uti voluit. Utar igitur nec adducar aut in extis totam Etruriam delirare aut eandem gentem in fulgoribus errare aut fallaciter portenta interpretari, cum terrae saepe fremitus, saepe mugitus, saepe motus multa nostrae rei publicae, multa ceteris civitatibus gravia et vera praedixerint. Quid? qui inridetur partus hic mulae nonne, quia fetus exstitit in sterilitate naturae, praedictus est ab haruspicibus incredibilis partus malorum? Quid? Ti. Gracchus Publi filius, qui bis consul et censor fuit, idemque et summus augur et vir sapiens civisque praestans, nonne, ut C. Gracchus, filius eius, scriptum reliquit, duobus anguibus domi comprehensis haruspices convocavit? Qui cum respondissent, si marem emisisset, uxori brevi tempore esse moriendum, si feminam, ipsi, aequius esse censuit se maturam oppetere mortem quam P. Africani filia adulescentem; feminam emisit, ipse paucis post diebus est mortuus.
Io sono dunque d'accordo con quelli che hanno sostenuto l'esistenza di due generi di divinazione, l'uno partecipe dell'arte, l'altro estraneo all'arte. Si attengono all'arte coloro che interpretano per congettura i fatti nuovi, conoscono quelli vecchi per le osservazioni del passato. Sono invece privi d'arte coloro che presagiscono il futuro non con ragionamenti e congetture, in base ai segni osservati e registrati, ma in seguito a non so quale eccitazione psichica, per un moto dell'animo libero e sciolto dal raziocinio: ciò accade spesso in sogno, talvolta a quelli che gridano profezie in stato di esaltazione, come Bacide in Beozia, come Epimenide a Creta, come la Sibilla eritrea. Di questo genere sono da considerare anche i responsi degli oracoli, non quelli che vengono dati mediante sorti "pareggiate", ma quelli che vengono pronunciati per ispirazione e afflato divino. Tuttavia nemmeno le sorti sono da disprezzare, se sono anche autorevoli per la loro antichità, come quelle che, a quanto ci assicurano, sono state estratte dal terreno; se poi, tratte a caso, accade che formino un discorso di senso compiuto, credo che ciò possa attribuirsi a intervento divino. Gli interpreti di tali sorti, come i filologi interpreti dei poeti, sembrano, più di tutti, vicini alla natura di quegli dèi che essi interpretano. Che malizia è questa, dunque, di volere infirmare con cavilli cose che attingono forza dalla loro antichità? "Non trovo una causa di questi fatti," ripetono. Probabilmente la causa è ascosa, sepolta nell'oscurità della Natura: ché la divinità non ha voluto che io sapessi queste cose, ma soltanto che me ne servissi. Dunque me ne servirò, e non mi lascerò indurre a credere che, quanto ai presagi delle viscere, l'Etruria tutta sragioni, né che quel popolo si sbagli riguardo ai fulmini, né che interpreti falsamente i prodigi, poiché tante volte i rumori e i boati sotterranei e i terremoti hanno predetto al nostro Stato e alle altre genti molti fatti gravi e veri. E ancora: questo famoso parto di una muta, che viene deriso, non è stato dichiarato dagli arùspici eccezionale parto di sventure, proprio perché in un organo genitale sterile si era formato un feto? E Tiberio Gracco figlio di Publio, che fu due volte console e censore e àugure di grande autorità e uomo saggio e cittadino esemplare, non chiamò forse gli arùspici perché aveva trovato in casa sua una coppia di serpenti? Ce ne ha lasciato notizia scritta suo figlio Gaio Gracco. Gli arùspici risposero che, se avesse lasciato andar via il serpente maschio, entro breve tempo sarebbe morta sua moglie; se la femmina, sarebbe morto lui, Considerò più giusto morire lui, già arrivato vicino al termine della vita, piuttosto che sua moglie, figlia ancor giovane di Publio Scipione Africano: lasciò andar via il serpente femmina, e pochi giorni dopo morì.
Erat igitur ex iis tribus, quae ad gloriam pertinerent, hoc tertium, ut cum admiratione hominum honore ab iis digni iudicaremur. Admirantur igitur communiter illi quidem omnia, quae magna et praeter opinionem suam animadverterunt, separatim autem in singulis, si perspiciunt nec opinata quaedam bona. Itaque eos viros suspiciunt maximisque efferunt laudibus, in quibus existimant se excellentes quasdam et singulares perspicere virtutes, despiciunt autem eos et contemnunt, in quibus nihil virtutis, nihil animi, nihil nervorum putant.Non enim omnes eos contemnunt, de quibus male existumant. Nam quos improbos, maledicos, fraudulentos putant et ad faciendam iniuriam instructos, eos contemnunt quidem neutiquam sed de iis male existumant. Quam ob rem, ut ante dixi, contemnuntur ii, qui 'nec sibi nec alteri', ut dicitur, in quibus nullus labor, nulla industria, nulla cura est.
Dei tre aspetti riguardanti la gloria, il terzo era costituito dal fatto che noi siamo giudicati dagli uomini degni di onore e, nello stesso tempo, di ammirazione. Gli uomini, dunque, ammirano in generale quelle qualità che ritengo grandi e superiori ad ogni loro pensiero; in particolare, poi, se osservano nei singoli individui delle qualità inattese. Perciò essi guardano con ammirazione, e innalzano con grandissime lodi, quegli uomini nei quali pensano di individuare eccellenti e singolari virtù, mentre guardano con commiserazione e disprezzano quelli che, secondo il loro giudizio, non hanno alcuna virtù, alcun coraggio ed alcuna energia. Ma non disprezzano tutti coloro dei quali non hanno stima; infatti non disprezzano affatto quelli che ritengono disonesti, calunniatori, ingannatori e pronti a far offese, ma ne hanno una cattiva opinione. Perciò, come ho detto prima, vengono disprezzati quelli che non sono - come si dice - "ne per sé né per altri", i quali non lavorano, non sono operosi, non s'interessano di nulla.
Duo enim genera divinandi esse dicebas, unum artificiosum, alterum naturale; artificiosum constare partim ex coniectura, partim ex observatione diuturna; naturale, quod animus adriperet aut exciperet extrinsecus ex divinitate, unde omnes animos haustos aut acceptos aut libatos haberemus. Artificiosa divinationis illa fere genera ponebas: extispicum eorumque qui ex fulgoribus ostentisque praedicerent, tum augurum eorumque qui signis aut ominibus uterentur, omneque genus coniecturale in hoc fere genere ponebas.Illud autem naturale aut concitatione mentis edi et quasi fundi videbatur aut animo per somnum sensibus et curis vacuo provideri. Duxisti autem divinationem omnem a tribus rebus, a deo, a fato, a natura. Sed tamen cum explicare nihil posses, pugnasti commenticiorum exemplorum mirifica copia. De quo primum hoc libet dicere: hoc ego philosophi non esse arbitror, testibus uti qui aut casu veri aut malitia falsi fictique esse possunt; argumentis et rationibus oportet quare quidque ita sit docere, non eventis, iis praesertim quibus mihi liceat non credere.
Dicevi che vi sono due tipi di divinazione, l'uno artificiale, l'altro naturale; che il tipo artificiale consiste in parte nell'interpretazione, in parte nell'osservazione assidua; che il tipo naturale è quello che l'anima afferra o riceve dal di fuori, dalla divinità, dalla quale tutte le nostre anime attingono, ricevono, libano una parte. I generi di divinazione artificiale li consideravi press'a poco questi: le predizioni degli scrutatori di viscere e di quelli che interpretano il futuro dai fulmini e dai prodigi, inoltre quelle degli àuguri e di chi spiega segni eòmina, e insomma collocavi a un dipresso in questa categoria tutte le profezie fatte mediante interpretazione Il genere naturale, invece, opinavi che fosse prodotto e, per così dire, prorompesse o dall'esaltazione della mente o dall'anima svincolata dai sensi e dalle preoccupazioni durante il sonno. Hai poi fatto derivare la divinazione in generale da tre principii: dalla divinità, dal fato, dalla natura. Ma, non riuscendo a spiegare nulla di tutto ciò, ti sei difeso adducendo una mirabile quantità di esempi immaginarii. Quanto a questo modo di procedere, voglio anzitutto dirti che non ritengo degno di un filosofo avvalersi di testimonianze che possono essere o vere per puro caso, o false e inventate in mala fede. Con argomentazioni e con ragionamenti bisogna dimostrare per qual motivo ciascuna cosa è quello che è: non in base a meri eventi, e soprattutto a eventi ai quali mi è lecito non prestar fede.
Videtisne, ut apud Homerum saepissime Nestor de virtutibus suis praedicet? Tertiam iam enim aetatem hominum videbat, nec erat ei verendum ne vera praedicans de se nimis videretur aut insolens aut loquax. Etenim, ut ait Homerus, 'ex eius lingua melle dulcior fluebat oratio,' quam ad suavitatem nullis egebat corporis viribus. Et tamen dux ille Graeciae nusquam optat, ut Aiacis similis habeat decem, sed ut Nestoris; quod si sibi acciderit, non dubitat, quin brevi sit Troia peritura.
Non vedete come Nestore, in Omero, vanti molto spesso le proprie virtù? Vedeva ormai la terza generazione di uomini e non aveva da temere, vantandosi a ragione, di sembrare troppo presuntuoso o troppo loquace: come dice Omero, "dalla sua lingua la parola fluiva più dolce del miele". E non aveva bisogno della forza del corpo per ottenere questa soavità; tuttavia il grande condottiero della Grecia non si augura mai di avere dieci uomini come Aiace, ma come Nestore sì; nel qual caso non ha dubbi: Troia cadrebbe in poco tempo.
Sed ille quas strages edidit! Eas videlicet quas sine ratione ac sine ulla spe bona furor edere potuit inpurae beluae, multorum inflammatus furoribus. Quam ob rem in ista quidem re vehementer Sullam probo, qui tribunis plebis sua lege iniuriae faciendae potestatem ademerit, auxilii ferendi reliquerit, Pompeiumque nostrum <in> ceteris rebus omnibus semper amplissimis summisque ecfero laudibus, de tribunicia potestate taceo. Nec enim reprehendere libct, nec laudare possum.
Ma quello quali stragi compì! Esse furono tali, quali solo la furia di una belva impura, accesa dal furore di molti avrebbe potuto provocare, senza una ragione e senza alcuna onesta speranza. Ed è per questo motivo che io apprezzo vivamente Silla, che con la sua legge tolse ai tribuni della plebe la possibilità di nuocere, lasciando loro quella di portare aiuto alla plebe; ed io sempre esalto con grandi e ampi riconoscimenti il nostro Pompeo per tutto il resto, preferisco tacere per quanto concerne la potestà tribunizia. Infatti non mi farebbe piacere criticarlo, ma nemmeno potrei lodarlo.
Qui quom innocentissumus in iudicium vocatus esset, quo iudicio convolsam penitus scimus esse rem publicam, cum essent eo tempore eloquentissimi viri L. Crassus et M. Antonius consulares, eorum adhibere neutrum voluit. dixit ipse pro sese et pauca C. Cotta, quod sororis erat filius—et is quidem tamen ut orator, quamquam erat admodum adulescens —, et Q. Mucius enucleate ille quidem et polite, ut solebat, nequaquam autem ea vi atque copia, quam genus illud iudici et magnitudo causae postulabat.
Nonostante la sua piena innocenza, venne citato in giudizio - e sappiamo che questo processo sconvolse lo stato in profondità; per quanto gli uomini più eloquenti fossero allora Lucio Crasso e Marco Antonio ambedue consolari, a nessuno dei due egli volle ricorrere. Parlò lui stesso in propria difesa, e poche parole dissero Gaio Cotta, perché era figlio di sua sorella - e costui parlò da vero oratore, sebbene fosse ancora molto giovane -, e Quinto Mucio: quest'ultimo in maniera limpida ed elegante, così com'era solito, ma niente affatto con quell'energia e con quell'abbondanza che avrebbero richiesto il tipo di processo e l'importanza del caso in discussione.
Iam vero quae tanta umquam in ullo homine iuventutis inlecebra fuit, quanta in illo? qui alios ipse amabat turpissime, aliorum amori flagitiosissime serviebat, aliis fructum lubidinum, aliis mortem parentum non modo inpellendo, verum etiam adiuvando pollicebatur. Nunc vero quam subito non solum ex urbe, verum etiam ex agris ingentem numerum perditorum hominum collegerat! Nemo non modo Romae, sed ne ullo in angulo totius Italiae oppressus aere alieno fuit, quem non ad hoc incredibile sceleris foedus asciverit.
Chi mai ha esercitato un simile potere di seduzione sulla gioventù? Amava gli uni nel modo più turpe, serviva gli altri in ignominiosi desideri, prometteva agli uni il frutto delle passioni, agli altri la morte dei genitori: lo faceva non solo con la promessa, ma anche con l'aiuto materiale. E adesso, con che rapidità è riuscito a raccogliere un gran numero di disperati dalla città e addirittura dalla campagna! Chiunque fosse oberato di debiti, a Roma come in ogni angolo d'Italia, lui lo ha fatto entrare in questa inaudita congrega di criminali.
Atque ego exempla ominum nota proferam. L. Paulus consul iterum, cum ei bellum ut cum rege Perse gereret obtigisset, ut ea ipsa die domum ad vesperum rediit, filiolam suam Tertiam, quae tum erat admodum parva, osculans animadvertit tristiculam. "Quid est," inquit, "mea Tertia? quid tristis es?" "Mi pater," inquit, "Persa periit." Tum ille artius puellam complexus: 'Accipio," inquit, "mea filia, omen. Erat autem mortuus catellus eo nomine, L. Flaccum, flaminem Martialem, ego audivi, cum diceret Caeciliam Metelli, cum vellet sororis suae filiam in matrimonium conlocare, exisse in quoddam sacellum ominis capiendi causa, quod fieri more veterum solebat.Cum virgo staret et Caecilia in sella sederet, neque diu ulla vox exstitisset, puellam defatigatam petisse a matertera, ut sibi concederet paulisper ut in eius sella requiesceret; illam autem dixisse: "Vero, mea puella, tibi concedo meas sedes." Quod omen res consecuta est; ipsa enim brevi mortua est, virgo autem nupsit, cui Caecilia nupta fuerat. Haec posse contemni vel etiam rideri praeclare intellego, sed id ipsum est deos non putare, quae ab iis significantur contemnere.
Ed io ti rammenterò ben noti esempi di òmina. Lucio Paolo, console per la seconda volta, essendogli toccato l'incarico di condurre la guerra contro il re Perse, quando in quello stesso giorno, sull'imbrunire, ritornò a casa, nel dare un bacio alla sua bambina Terzia, ancora molto piccola a quel tempo, si accorse che era un po' triste. "Che è successo, Terzia?" le chiese; "perché sei triste?." E lei: "Babbo," disse, "è morto Persa." Egli allora, abbracciandola forte, disse: "Accetto il presagio, figlia mia." Era morto un cagnolino che si chiamava così. Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia, moglie di Metello, volendo far sposare la figlia di sua sorella, si recò in un tempietto per ricevere un presagio, secondo l'uso degli antichi. La nipote stava in piedi, Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza, stanca, chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: "Certo, bambina mia, ti lascio il mio posto." E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo, e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza, è tutt'uno.
Erat in verborum splendore elegans, com positione aptus, facultate copiosus; eaque erat cum summo ingenio tum exercitationibus maxumis consecutus. rem complectebatur memoriter, dividebat acute, nec praetermittebat fere quicquam, quod esset in causa aut ad confirmandum aut ad refellendum. vox canora et suavis, motus et gestus etiam plus artis habebat quam erat oratori satis. hoc igitur florescente Crassus est mortuus, Cotta pulsus, iudicia intermissa bello, nos in forum venimus.
Era elegante nello sfarzo dell'elocuzione, ben concatenato nella costruzione dei periodi, abbondava di risorse espressive; tutto questo l'aveva si ottenuto grazie al suo eccezionale talento, ma anche alla grandissima intensità dell'esercizio. Abbracciava mentalmente la materia con impareggiabile memoria, la suddivideva con acume, e non trascurava praticamente nessuno degli argomenti che la causa potesse fornire a conferma o a confutazione. La voce era sonora e gradevole, nelle movenze e nei gesti c'era un'arte anche più studiata di quella che poteva bastare a un oratore. Quando la sua eloquenza era dunque vicina alla massima fioritura, Crasso morì, Cotta fu cacciato, i giudizi vennero sospesi a motivo della guerra, e io incominciai a frequentare il foro.
Atticus:Legationem aliquam nimirum ista oratio postulat, aut eius modi quampiam cessationem liberam atque otiosam.Marcus:Ego vero aetatis potius vacationi confidebam, cum praesertim non recusarem, quominus more patrio sedens in solio consulentibus responderem senectutisque non inertis grato atque honesto fungerer munere. Sic enim mihi liceret et isti rei quam desideras et multo uberioribus atque maioribus operae quantum vellem dare.
Attico:Senza dubbio questo tuo impegno esigerebbe un qualche incarico ufficiale o un'analoga sorta di pausa che ti mettesse a disposizione del tempo libero.Marco:Io pensavo piuttosto ad un esonero per motivi di età, tanto più che non mi rifiuterei, secondo il patrio costume, di starmene seduto in poltrona e dare consigli legali a quelli che mi interpellassero, e di assolvere così il compito gradito e dignitoso di una vecchiaia affatto inerte. Così io potrei dedicarmi in piena libertà sia a questo lavoro, che tu desideri, sia a molti altri di maggiore utilità ed importanza.
At qui opera, id est virtute et industria, benefici et liberales erunt, primum, quo pluribus profuerint, eo plures ad benigne faciendum adiutores habebunt, dein consuetudine beneficentiae paratiores erunt et tamquam exercitatiores ad bene de multis promerendum. Praeclare in epistula quadam Alexandrum filium Philippus accusat, quod largitione benivolentiam Macedonum consectetur: 'Quae te, malum!' inquit, 'ratio in istam spem induxit, ut eos tibi fideles putares fore, quos pecunia corrupisses? An tu id agis, ut Macedones non te regem suum, sed ministrum et praebitorem sperent fore?' Bene 'ministrum et praebitorem', quia sordidum regi, melius etiam, quod largitionem 'corruptelam ' dixit esse; fit enim deterior, qui accipit, atque ad idem semper expectandum paratior.
Coloro che, invece, saranno generosi con l'opera, cioè con la virtù e lo zelo, quante più persone avranno beneficato, tanto più troveranno collaboratori nel far del bene; inoltre per l'abitudine di beneficare saranno più preparati e quasi più esercitati a legare a sé molti coi benefici. Con parole assai elette Filippo, in una lettera, accusa il figlio Alessandro di volersi procurare la benevolenza dei Macedoni con i donativi: "Quale calcolo, diamine, ti indusse a tale speranza, sì da farti credere che ti saranno fedeli quelli che tu hai corrotto col denaro? Oppure agisci in modo che i Macedoni sperino di avere in te non il loro re, ma il loro dispensiere e fornitore?" Disse bene "dispensiere e fornitore", perché è vergognoso per un re; meglio ancora il fatto di aver definito corruzione il donativo: infatti colui che lo accetta diventa peggiore ed anche più pronto ad aspettarsela sempre.
'Tu istuc, M. Calidi, nisi fingeres, sic ageres? praesertim cum ista eloquentia alienorum hominum pericula defendere acerrume soleas, tuum neglegeres? ubi dolor, ubi ardor animi, qui etiam ex infantium ingeniis elicere voces et querelas solet? nulla perturbatio animi, nulla corporis, frons non percussa, non femur; pedis, quod minimum est, nulla supplosio. itaque tantum afuit ut inflammares nostros animos, somnum isto loco vix tenebamus.' sic nos summi oratoris vel sanitate vel vitio pro argumento ad diluendum crimen usi sumus.
"Tu, Marco Calidio, se questa faccenda non fosse tutta una tua invenzione, parleresti così? Proprio tu, che con l'eloquenza che hai sei avvezzo a scongiurare con tanta energia i pericoli di gente che ti è estranea, davanti a uno tuo proprio"' rimarresti indifferente? Dov'è l'emozione? Dove il fuoco dell'animo, che anche a chi non ha la facoltà della parola è solito strappare voci e gemiti dal fondo del cuore? Il tuo animo non era agitato, e neppure il tuo corpo: nessun colpo sulla fronte, né sulla coscia, nemmeno, che è ben piccola cosa, un battito del piede. Perciò tanto c'è mancato a che tu riuscissi a infiammarci l'animo: a codesto punto, riuscivamo a stento a trattenere il sonno." In tal modo, di questa peculiarità di quel sommo oratore, sanità di gusto o difetto che fosse, io mi avvalsi per smontare la sua accusa. "
Erat etiam vir doctus in primis C. Visellius Varro consobrinus meus, qui fuit cum Sicinio aetate coniunctus. is cum post curulem aedilitatem iudex quaestionis esset, est mortuus; in quo fateor volgi iudicium a iudicio meo dissensisse. nam populo non erat satis vendibilis: praeceps quaedam et cum idcirco obscura, quia peracuta, tum rapida et celeritate caecata oratio; sed neque verbis aptiorem cito alium dixerim neque sententiis crebriorem. praeterea perfectus in litteris iurisque civilis iam a patre Aculeone traditam tenuit disciplinam.
Era poi un uomo di grandissima cultura Gaio Visellio Varrone, mio cugino, per età vicino a Sicinio. Morì dopo l'edilità, quando era presidente di un tribunale; confesso che a proposito di lui il giudizio del volgo era in disaccordo col mio. Infatti presso il popolo incontrava poco: la sua eloquenza era in qualche modo precipitosa, e oscura non solo per la troppa sottigliezza, ma anche perché, nel suo impeto torrenziale, era offuscata dalla stessa rapidità; ma non mi sarebbe facile indicare uno che avesse maggiore precisione di espressioni, o maggiore frequenza di formulazioni brillanti; inoltre aveva un'ottima formazione letteraria, e padronanza della scienza del diritto civile, che gli era stata tramandata dal padre Aculeone.
Quintus:Sit ita sane; verum tamen dum Latinae loquentur litterae, quercus huic loco non deerit quae Mariana dicatur, eaque, ut ait Scaevola de fratris mei Mario, canescet saeclis innumerabilibus, nisi forte Athenae tuae sempiternam in arce oleam tenere potuerunt, aut quam Homericus Ulixes Deli se proceram et teneram palmam vidisse dixit, hodie monstrant eandem, multaque alia multis locis diutius commemoratione manent quam natura stare potuerunt.Quare glandifera illa quercus, ex qua olim evolavit nuntia fulva Iovis miranda visa figura, nunc sit haec. Sed cum eam tempestas vetustasve consumpserit, tamen erit his in locis quercus quam Marianam quercum voca<bu>nt.
Quinto:E sia pure così; tuttavia, finché potrà avere spazio la letteratura latina, questo luogo non sarà privo di una quercia che venga denominata "Mariana", ed essa, come dice Scevola del "Mario" di mio fratello, per infiniti secoli diverrà canuta, se è vero che la tua Atene coté conservare sull'Acropoli un olivo immortale, o se ancora oggi viene mostrata quella medesima palma, per il fatto che l'omerico Ulisse disse di averla vista in Delo, slanciata e giovane; e inoltre è noto che molti oggetti nel ricordo sopravvivono in molti luoghi più durevolmente di quanto non sarebbero potuti sussistere per natura. Per questa ragione quella "ghiandifera" quercia, dalla quale un tempo prese il volo, può ora essere esattamente questa. Ma nonostante tempo e vecchiaia l'abbiano consumata, resterà in questi luoghi quella quercia, che chiameranno Mariana.
Etenim nobismet ipsis quaerentibus quid sit de divinatione iudicandum, quod a Carneade multa acute et copiose contra Stoicos disputata sint, verentibusque ne temere vel falsae rei vel non satis cognitae adsentiamur, faciendum videtur ut diligenter etiam atque etiam argumenta cum argumentis comparemus, ut fecimus in iis tribus libris quos de natura deorum scripsimus. Nam cum omnibus in rebus temeritas in adsentiendo errorque turpis est, tum in eo loco maxime, in quo iudicandum est quantum auspiciis rebusque divinis religionique tribuamus; est enim periculum, ne aut neglectis iis impia fraude aut susceptis anili superstitione obligemur.
Io stesso mi sono chiesto quale giudizio si debba dare sulla divinazione, poiché Carneade aveva discusso a lungo contro gli stoici con acutezza e facondia, e ho temuto di dare il mio assenso con troppa facilità a una dottrina falsa o non sufficientemente approfondita. Mi sembra dunque che il meglio sia mettere a confronto più e più volte, con attenzione, gli argomenti a favore e contro, come ho fatto nei tre libri Sulla natura degli dèi. In effetti, se in ogni questione è disonorevole la precipitosità nell'aderire a una tesi e l'uscire dalla retta via, tanto più lo è dove si tratta di giudicare quanta autorità dobbiamo attribuire agli auspicii, ai riti, alla religione. C'è infatti il pericolo di cadere o in un'empia aberrazione, se trascuriamo queste cose, o in una superstizione da vecchierelle, se le accettiamo.
Multum ab his aberat L. Fufius, tamen ex accusatione M.'. Aquili diligentiae fructum ceperat. nam M. Drusum tuum magnum avonculum, gravem oratorem ita dumtaxat cum de re publica diceret, L. autem Lucullum etiam acutum, patremque tuum, Brute, iuris quo que et publici et privati sane peritum, M. Lucullum, M. Octavium Cn. f., qui tantum auctoritate dicendoque valuit ut legem Semproniam frumentariam populi frequentis subfragiis abrogaverit, Cn. Octavium M.f., M. Catonem patrem, Q. etiam Catulum filium abducamus ex acie id est ab iudiciis et in praesidiis rei publicae, cui facile satis facere possint, conlocemus.
Molto lontano da costoro restava Lucio Rufio, il quale tuttavia, grazie all'accusa contro Manio Aquilio, era riuscito a cogliere il frutto del proprio zelo. Quanto invece a Marco Druso, tuo prozio materno, oratore autorevole, ma solo quando parlava di affari pubblici; a Lucio Lucullo, che aveva anche dell'acume; a tuo padre, Bruto, che oltre a tutto ciò possedeva anche una profonda conoscenza del diritto pubblico e privato; a Marco Lucullo e a Marco Ottavio figlio di Gneo, che ebbe il prestigio e l'abilità oratoria per fare abrogare dal popolo, a grande maggioranza di voti, la legge Sempronia sulle distribuzioni di grano; a Gneo Ottavio figlio di Marco, a Marco Catone padre, e anche a Quinto Catulo figlio: questi ritiriamoli dal campo di battaglia, cioè dai processi, e poniamoli nelle fortezze che proteggono lo stato, in modo che possano venire incontro nel modo migliore alle sue necessità.
Marcus:'Ad divos adeunto caste, pietatem adhibento, opes amovento. Qui secus faxit, deus ipse vindex erit.' 'Separatim nemo habessit deos neve novos neve advenas nisi publice adscitos; privatim colunto quos rite a patribus <cultos acceperint>.' '<in urbibus> delubra habento. Lucos in agris habento et Larum sedes.' 'Ritus familiae patrumque servanto.' 'Divos et eos qui caelestes semper habiti sunt colunto et ollos quos endo caelo merita locaverint, Herculem, Liberum, Aesculapium, Castorem, Pollucem, Quirinum, ast olla propter quae datur homini ascensus in caelum, Mentem, Virtutem, Pietatem, Fidem, earumque laudum delubra sunto, nec ulla vitiorum sacra sollemnia obeunto.' 'Feriis iurgia <a>movento, easque in famulis operibus patratis habento, idque ut ita cadat in annuis anfractibus descriptum esto.' 'Certasque fruges certasque bacas sacerdotes publice libanto <hoc> certis sacrificiis ac diebus,
Marco:"Si accostino castamente agli dèi, facciano uso della pietà, allontanino lo sfarzo. Se qualcuno agisse in maniera diversa, dio stesso lo punirà." "Nessuno abbia dèi particolari, né nuovi né forestieri, se non pubblicamente riconosciuti; in privato coltivino i [culti che ricevettero] secondo il rito dei loro padri." "Vi siano templi [nelle città]; vi siano boschi sacri nelle campagne e sedi dei Lari." "Conservino i riti della famiglia e dei padri." "Onorino gli dèi, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino, cosi quelle Virtù, per cui è concesso all'uomo l'ascesa al cielo, Mente, Valore, Pietà filiale, Fede, e di queste virtù vi siano templi, nemmeno un'ombra dei vizi." "Celebrino solenni sacrifici." "Dalle feste tengano lontani i litigi, e le osservino per i servi, una volta terminate i lavori, e sia stabilito in modo che ciò cada negli intervalli dell'anno. Determinati frutti e determinate messi, i sacerdoti le offrano pubblicamente. Questo sia compiuto in sacrifici e giorni fissati;
ad Chaldaeorum monstra veniamus; de quibus Eudoxus, Platonis auditori in astrologia iudicio doctissimorum hominum facile princeps, sic opinatur, id quod scriptum reliquit, Chaldaeis in praedictione et in notatione cuiusque vitae ex natali die minime esse credendum. Nominat etiam Panaetius, qui unus e Stoicis astrologorum praedicta reiecit, Anchialum et Cassandrum, summos astrologos illius aetatis, qua erat ipse, cum in ceteris astrologiae partibus excellerent, hoc praedictionis genere non usos.Scylax Halicarnassius, familiaris Panaeti, excellens in astrologia idemque in regenda sua civitate princeps, totum hoc Chaldaeicum praedicendi genus repudiavit. Sed, ut ratione utamur omissis testibus, sic isti disputant qui haec Chaldaeorum natalicia praedicta defendunt: vim quandam esse aiunt signifero in orbe, qui Graecezodiakondicitur, talem ut eius orbis una quaeque pars alia alio modo moveat immutetque caelum, perinde ut quaeque stellae in his finitumisque partibus sint quoque tempore, eamque vim varie moveri ab iis sideribus quae vocentur errantia; cum autem in eam ipsam partem orbis venerint, in qua sit ortus eius qui nascatur, aut in eam quae coniunctum aliquid habeat aut consentiens, ea triangula illi et quadrata nominant. Etenim cum tempore anni tempestatumque caeli conversiones commutationesque tantae fiant accessu stellarum et recessu, cumque ea vi solis efficiantur quae videmus, non veri simile solum, sed etiam verum esse censent, perinde utcumque temperatus sit aÎr, ita pueros orientis animari atque formari, ex eoque ingenia, mores, animum, corpus, actionem vitae, casus cuiusque eventusque fingi.
veniamo alle mostruose immaginazioni dei Caldei. Eudosso, seguace di Platone, superiore a tutti nell'astronomia per concorde giudizio dei più dotti, ritiene, e lo ha scritto, che non bisogna minimamente credere ai Caldei quanto alla predizione e alla determinazione della vita di ciascuno in base ai segni del giorno della nascita. Anche Panezio, l'unico degli stoici che negò fede alle predizioni astrologiche, ricorda Anchialo e Cassandro, i maggiori astronomi suoi contemporanei, i quali, mentre eccellevano in tutte le altre branche dell'astronomia, non vollero servirsi di questo genere di predizioni. Scilace di Alicarnasso, amico intimo di Panezio, astronomo eccellente e capo eminente della sua città, ripudiò tutto questo genere caldàico di predizione. Ma lasciamo da parte gli autori e ricorriamo al ragionamento. Codesti difensori delle "predizioni natalizie" dei Caldei argomentano così: è insita, dicono, nel cerchio delle costellazioni che in greco si chiama "zodiaco", una forza di tal natura, che ciascuna parte di quel cerchio influenza e trasforma il cielo in un modo diverso, a seconda delle diverse stelle che si trovano in quelle parti e nelle parti finitime in un dato tempo; e quella forza viene variamente modificata da quelle stelle che son chiamate erranti; e quando le costellazioni sono venute in quella parte dello zodiaco coincidente con la nascita di colui che viene alla luce, oppure in una che abbia qualche contiguità o affinità con quella, le figure che allora si formano sono chiamate dagli astrologi triangoli e quadrati. Inoltre, poiché nel corso di un anno e delle varie stagioni avvengono così notevoli rivolgimenti e mutamenti del cielo per l'avvicinarsi e l'allontanarsi delle stelle, e poiché questi fenomeni che vediamo sono causati dall'influsso del sole, gli astrologi ritengono non solo verosimile, ma vero, che, a seconda della composizione dell'aria, i bambini che nascono siano animati e conformati in un certo modo, e che da essa risultino plasmati i caratteri, le qualità morali, l'anima, il corpo, lo svolgersi della vita, i casi e gli eventi di ciascuno.
Quam ob rem si quem forte inveneritis, qui aspernetur oculis pulchritudinem rerum, non odore ullo, non tactu, non sapore capiatur, excludat auribus omnem suavitatem, huic homini ego fortasse et pauci deos propitios, plerique autem iratos putabunt. Ergo haec deserta via et inculta atque interclusa iam frondibus et virgultis relinquatur; detur aliqui aetati; sit adulescentia liberior; non omnia voluptatibus denegentur; non semper superet vera illa et derecta ratio; vincat aliquando cupiditas voluptasque rationem, dum modo illa in hoc genere praescriptio moderatioque teneatur: parcat iuventus pudicitiae suae, ne spoliet alienam, ne effundat patrimonium, ne faenore trucidetur, ne incurrat in alterius domum atque famam, ne probrum castis, labem integris, infamiam bonis inferat, ne quem vi terreat, ne intersit insidiis, scelere careat; postremo, cum paruerit voluptatibus, dederit aliquid temporis ad ludum aetatis atque ad inanes hasce adulescentiae cupiditates, revocet se aliquando ad curam rei domesticae, rei forensis reique publicae, ut ea quae ratione antea non persperxera, satietate abiecisse, experiendo contempsisse videatur.
Per questo motivo, se per caso avete trovato qualcuno che disprezzi con gli occhi la bellezza delle cose, e non sia attratto da alcun odore, da alcun contatto, da alcun sapore, che escluda dalle orecchie ogni dolcezza, io e forse e pochi altri riterremo che a quest'uomo gli dei siano propizi, mentre la maggior parte (della gente) riterrà che (gli) siano ostili. Lasciamo dunque questa via arida e incolta e ostacolata da rami e virgulti. Si lasci qualche piacere a questa età; sia l’adolescenza più libera; non tutte le cose sia negate alle volontà; non sempre vera e retta ragione prevalga; divertimento e gioia vincano talvolta la ragione, purché quella determinazione e moderazione siano praticate in questo genere. La gioventù rispetti la sua onestà, non porti via quella altrui, non dissipi il proprio patrimonio, non sia oppressa con l’usura, non violi la casa e la fama altrui, non rechi offesa agli innocenti, disonore ai virtuosi, infamia ai buoni, non spaventi nessuno con la forza, non partecipi all’inganno, stia lontano dal delitto. Infine avendo obbedito ai piaceri, avendo dato un po’ di svago ai piaceri della giovinezza e a proprio questi vuoti giochi dell’adolescenza, si richiami una buona volta alla cura delle questioni domestiche, del foro e dello stato affinché sembri aver disprezzato con l’esperienza e aver respinto per sazietà quelle cose che prima non aveva colto con la ragione.
Digni autem sunt amicitia quibus in ipsis inest causa cur diligantur. Rarum genus. Et quidem omnia praeclara rara, nec quicquam difficilius quam reperire quod sit omni ex parte in suo genere perfectum. Sed plerique neque in rebus humanis quicquam bonum norunt, nisi quod fructuosum sit, et amicos tamquam pecudes eos potissimum diligunt ex quibus sperant se maximum fructum esse capturos.
Degno di amicizia è chi ha dentro di sé la ragione di essere amato. Specie rara! Davvero, tutto ciò che è bello è raro; niente è più difficile che trovare una cosa perfetta, nel suo genere, sotto ogni aspetto. Ma i più riconoscono come buono, nella vita umana, solo ciò che comporta un profitto e scelgono gli amici come le bestie, preferendo chi offre loro la speranza del massimo guadagno.
Quare talis improborum consensio non modo excusatione amicitiae tegenda non est sed potius supplicio omni vindicanda est, ut ne quis concessum putet amicum vel bellum patriae inferentem sequi; quod quidem, ut res ire coepit, haud scio an aliquando futurum sit. Mihi autem non minori curae est, qualis res publica post mortem meam futura, quam qualis hodie sit.
Non solo non bisogna coprire con il pretesto dell'amicizia un simile complotto di gente corrotta, ma piuttosto punirlo con le sanzioni più gravi, perché nessuno si creda autorizzato a seguire l'amico anche quando attenta allo stato. E, da come vanno le cose, non è detto che un domani non accada. Nel mio caso, poi, il pensiero di come sarà la situazione politica dopo la mia morte desta in me preoccupazioni non meno gravi di quelle per il presente.
Cum autem omnium rerum simulatio vitiosa est (tollit enim iudicium veri idque adulterat), tum amicitiae repugnat maxime; delet enim veritatem, sine qua nomen amicitiae valere non potest. Nam cum amicitiae vis sit in eo, ut unus quasi animus fiat ex pluribus, qui id fieri poterit, si ne in uno quidem quoque unus animus erit idemque semper, sed varius, commutabilis, multiplex?
D'altronde, se la simulazione in ogni circostanza è un male, perché impedisce il giudizio del vero e lo adultera, allora è assolutamente incompatibile con l'amicizia. Cancella infatti la verità senza la quale non ha più senso la parola amicizia. Se infatti l'essenza dell'amicizia consiste, per così dire, nel fondere in una sola anima più anime, come sarà possibile se nemmeno nell'anima del singolo individuo ci sarà sempre unità e identità, ma diversità, mutevolezza e ambiguità?
omnium enim causarum unum est naturale principium, una peroratio; reliquae partes quasi membra suo quaeque loco locata suam et vim et dignitatem tenent. cum autem difficile sit in longa oratione non aliquando aliquid ita dicere, ut sibi ipse non conve niat, quanto difficilius cavere, ne quid dicas, quod non conveniat eius orationi qui ante te dixerit. sed quia et labor multo maior est totam causam quam partem dicere et quia plures ineuntur gratiae, si uno tempore dicas pro pluribus, idcirco hanc consue tudinem lubenter adscivimus.
Infatti tutte le cause hanno per loro natura un solo esordio e una sola perorazione; le altre parti, quasi come le membra di un corpo, hanno la loro efficacia e il loro valore se sono collocate ciascuna al proprio posto. Se poi è difficile, in un lungo discorso, evitare di parlare talvolta in modo tale da contraddirsi, quanto più difficile è fare attenzione a non dire niente che sia in contraddizione col discorso di chi ha parlato prima! Ma siccome ci vuole molta più fatica a sostenere una causa intera piuttosto che solo una parte, e siccome ci si procurano più aderenze, se impiegando lo stesso tempo si riesce a parlare in favore di più clienti, ecco perché abbiamo volentieri adottato una tale consuetudine.
Habet enim certos sui studiosos, qui non tam habitus corporis opimos quam gracilitates consectentur; quos, valetudo modo bona sit, tenuitas ipsa delectat—quamquam in Lysia sunt saepe etiam lacerti, sic ut [et] fieri nihil possit valentius; verum est certe genere toto strigosior —, sed habet tamen suos laudatores, qui hac ipsa eius subtilitate admodum gaudeant.
Ha infatti i suoi particolari fautori, che fanno caso non tanto a un fisico dalle forme piene, quanto a una corporatura smilza: purché la salute sia buona, prediligono proprio la magrezza - per quanto in Lisia vi siano spesso anche muscoli, e tali che niente può esserci di più vigoroso; però nel complesso è senz'altro un po' troppo rinsecchito -, ma ha comunque i suoi ammiratori, che si compiacciono moltissimo proprio di questa sua esilità.
Erat eius aequalis P. Autronius voce peracuta atque magna nec alia re ulla probabilis, et L. Octavius Reatinus, qui cum multas iam causas diceret, adulescens est mortuus—is tamen ad dicendum veniebat magis audacter quam parate —, et C. Staienus, qui se ipse adoptaverat et de Staieno Aelium fecerat, fervido quodam et petulanti et furioso genere dicendi: quod quia multis gratum erat et probabatur, ascendisset ad honores, nisi in facinore manifesto deprehensus poenas legibus et iudicio dedisset.
Erano suoi coetanei Publio Autronio, senza altri pregi se non una voce molto penetrante e robusta, Lucio Ottavio di Rieti, il quale morì giovane, quando aveva già incominciato a trattare molte cause -costui tuttavia si presentava in tribunale confidando più nell'audacia che nella preparazione -, e Gaio Staieno, che si era adottato da solo e da Staieno si era fatto Elio; aveva un'eloquenza bollente, aggressiva, furibonda; dal momento che ciò incontrava il gradimento e l'approvazione di molti, avrebbe fatto carriera nelle ma gistrature, se, colto in flagrante delitto, non fosse stato condannato in un regolare giudizio.
Existunt etiam saepe iniuriae calumnia quadam et nimis callida sed malitiosa iuris interpretatione. Ex quo illud "summum ius summa iniuria" factum est iam tritum sermone proverbium. Quo in genere etiam in re publica multa peccantur, ut ille, qui, cum triginta dierum essent cum hoste indutiae factae, noctu populabatur agros, quod dierum essent pactae, non noctium indutiae. Ne noster quidem probandus, si verum est Q. Fabium Labeonem seu quem alium - nihil enim habeo praeter auditum - arbitrum Nolanis et Neapolitanis de finibus a senatu datum, cum ad locum venisset, cum utrisque separatim locutum, ne cupide quid agerent, ne appetenter, atque ut regredi quam progredi mallent.Id cum utrique fecissent, aliquantum agri in medio relictum est. Itaque illorum finis sic, ut ipsi dixerant, terminavit; in medio relictum quod erat, populo Romano adiudicavit. Decipere hoc quidem est, non iudicare. Quocirca in omni est re fugienda talis sollertia.
Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto. Di qui il comune e ormai trito proverbio: "somma giustizia, somma ingiustizia". A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni, andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti. Non merita lode neppure, -se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire). Il senato l'aveva mandato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare. Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l'assegnò al popolo romano. Questo si chiama ingannare, non giudicare. Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie.
Male etiam, qui peregrinos urbibus uti prohibent eosque exterminant, ut Pennus apud patres nostros, Papius nuper. Nam esse pro cive, qui civis non sit, rectum est non licere, quam legem tulerunt sapientissimi consules Crassus et Scaevola. Usu vero urbis prohibere peregrinos, sane inhumanum est. Illa praeclara, in quibus publicae utilitatis species prae honestate contemnitur. Plena exemplorum est nostra res publica cum saepe, tum maxime bello Punico secundo, quae Cannensi calamitate accepta maiores animos habuit quam unquam rebus secundis; nulla timoris significatio, nulla mentio pacis.Tanta vis est honesti, ut speciem utilitatis obscuret.
Agiscono male anche coloro che vietano agli stranieri di godere dei vantaggi della città e li bandiscono, come fece Panno presso i nostri antenati e Papio recentemente. È giusto, difatti, che non sia lecito che venga attribuito il titolo di cittadino a chi non lo è, in base alla legge proposta da Crasso e Scevola, saggissimi consoli ; ma è del tutto incivile proibire agli stranieri di godere dei vantaggi della città. Belli sono quei casi in cui l'apparenza della utilità pubblica non è tenuta in alcun conto di fronte all'onestà. Il nostro Stato è pieno di frequenti esempi in molte occasioni e specialmente nella seconda guerra punica: dopo la disfatta di Canne mostrò un coraggio maggiore di quanto ne avesse dimostrato nei periodi favorevoli; nessun segno di timore, nessuna parola di pace. La forza dell'onesto è tale da oscurare l'apparenza dell'utilità.
Video duas adhuc esse sententias, unam D. Silani, qui censet eos, qui haec delere conati sunt, morte esse multandos, alteram C. Caesaris, qui mortis poenam removet, ceterorum suppliciorum omnis acerbitates amplectitur. Uterque et pro sua dignitate et pro rerum magnitudine in summa severitate versatur. Alter eos, qui nos omnis [, qui populum Romanum] vita privare conati sunt, qui delere imperium, qui populi Romani nomen extinguere, punctum temporis frui vita et hoc communi spiritu non putat oportere atque hoc genus poenae saepe in inprobos civis in hac re publica esse usurpatum recordatur.Alter intellegit mortem ab dis inmortalibus non esse supplicii causa constitutam, sed aut necessitatem naturae aut laborum ac miseriarum quietem esse. Itaque eam sapientes numquam inviti, fortes saepe etiam lubenter oppetiverunt. Vincula vero, et ea sempiterna, certe ad singularem poenam nefarii sceleris inventa sunt. Municipiis dispertiri iubet. Habere videtur ista res iniquitatem, si imperare velis, difficultatem, si rogare. Decernatur tamen, si placet.
Vedo che, sinora, sono due le proposte avanzate. Decimo Silano sostiene che bisogna condannare a morte chi ha cercato di distruggere lo Stato. Caio Cesare, invece, respinge la pena di morte e propone tutta la durezza di ogni altro castigo. Entrambi, come conviene alla loro carica e alla gravità dei reati in causa, fanno appello al massimo rigore. Il primo ritiene che neppure per un istante devono vivere e respirare la nostra stessa aria individui che hanno cercato di eliminare tutti noi, di cancellare l'impero, di estinguere il nome del popolo romano e ricorda che questo tipo di pena fu spesso comminata, nel nostro Stato, a cittadini colpevoli. Il secondo è dell'opinione che gli dèi immortali hanno creato la morte non perché fosse una punizione, ma una necessità naturale e una cessazione di travagli e miserie. Per questo i saggi l'hanno sempre affrontata senza rimpianto e i valorosi spesso con gioia. Il carcere, invece, in particolare l'ergastolo, è stato istituito come pena eccezionale per i reati più empi. Cesare suggerisce che i colpevoli siano confinati in municipi diversi. Tale proposta comporta tuttavia un'ingiustizia, se la imponiamo ai municipi, e una difficoltà, se chiediamo il loro consenso. Ma qualora ne siate convinti, approvatela.
Qui autem omnia metiuntur emolumentis et commodis neque ea volunt praeponderari honestate, ii solent in deliberando honestum cum eo, quod utile putant, comparare, boni viri non solent. Itaque existimo Panaetium, cum dixerit homines solere in hac comparatione dubitare, hoc ipsum sensisse, quod dixerit solere modo, non etiam oportere. Etenim non modo pluris putare, quod utile videatur quam quod honestum sit, sed etiam haec inter se comparare et in his addubitare turpissimum est.Quid ergo est quod non numquam dubitationem adferre soleat considerandumque videatur? Credo, si quando dubitatio accidit, quale sit id, de quo consideretur.
Coloro che, al contrario, misurano ogni cosa in base al guadagno o al vantaggio personale e non vogliono che l'onestà abbia il sopravvento su ciò, sono soliti, nel prendere una decisione, mettere a confronto l'onesto con ciò che ritengono utile, mentre gli uomini onesti non sono soliti farlo. Perciò ritengo che Panezio, quando ha detto che gli uomini sono soliti esitare in questo confronto, abbia inteso proprio questo che ha detto, cioè che 'sono soliti' solamente, e non anche 'debbono'. Infatti è oltremodo immorale non solo stimare di più ciò che sembra utile di ciò che è onesto, ma anche paragonare questi concetti tra di loro ed avere dei dubbi in proposito. Ma che cos'è, dunque, ciò che talvolta ci suole far dubitare e ci sembra degno di considerazione? Credo, se qualche volta sorge il dubbio, che esso riguardi la natura delle cose su cui si riflette.
Iam vero coniectura omnis, in qua nititur divinatio, ingeniis hominum in multas aut diversas aut etiam contrarias partis saepe diducitur. Ut enim in causis iudicialibus alia coniectura est accusatoris, alia defensoris et tamen utriusque credibilis, sic in omnibus iis rebus quae coniectura investigari videntur anceps reperitur oratio.Quas autem res tum natura, tum casus adfert (nonnumquam etiam errorem creat similitudo), magna stultitia est earum rerum deos facere effectores, causas rerum non quaerere.Tu vates Boeotios credis Lebadiae vidisse ex gallorum gallinaceorum cantu victoriam esse Thebanorum, quia galli victi silere solerent, canere victores. Hoc igitur per gallinas Iuppiter tantae civitati signum dabat? An illae aves, nisi cum vicerunt, canere non solent? "At tum canebant nec vicerant: id enim est", inquies, "ostentum." Magnum vero, quasi pisces, non galli cecinerint! Quod autem est tempus, quo illi non cantent, vel nocturnum vel diurnum? Quodsi victores alacritate et quasi laetitia ad canendum excitantur, potuit accidisse alia quoque laetitia, qua ad cantum moverentur. Democritus quidem optumis verbis causam explicat cur ante lucem galli canant: depulso enim de pectore et in omne corpus diviso et mitificato cibo, cantus edere quiete satiatos; qui quidem silientio noctis, ut ait Ennius,"[...] Favent faucibus russiscantu, plausuque premunt alas."Cum igitur hoc animal tam sit canorum sua sponte, quid in mentem venit Callistheni dicere deos gallis signum dedisse cantandi, cum id vel natura vel casus efficere potuisset?
E in effetti ogni interpretazione, sulla quale la divinazione si basa, spesso dalle diverse mentalità degli uomini è trascinata in direzioni diverse o addirittura opposte. Come nei processi una è l'interpretazione dell'accusatore, un'altra quella del difensore, e nondimeno entrambe sono plausibili, così in tutti gli argomenti che sembra si debbano investigare mediante interpretazioni congetturali si nota la possibilità di discorsi dal significato ambiguo.D'altra parte, di fronte a eventi prodotti talvolta dalla natura, talaltra dal caso (e spesso anche la somiglianza tra effetti della natura e del caso è fonte di errore), rivela una grande stoltezza chi li attribuisce all'azione degli dèi, senza ricercarne le cause. Tu credi che a Lebadia gl'indovini della Beozia abbiano compreso, in base al canto dei galli, che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli son soliti tacere quando sono vinti, cantare quando sono vincitori. Dunque a una città di quella fatta Giove avrebbe dato il segnale della vittoria servendosi di miserabili galline? O forse quegli uccelli non sogliono cantare se non in caso di vittoria? "Ma in quel caso cantavano, eppure non avevano ancora vinto: in questo," tu dirai, "consiste il prodigio." Gran prodigio davvero, come se avessero cantato non i galli, ma i pesci! E qual tempo c'è in cui i galli non cantino, sia di notte sia di giorno? Se, quando sono vincitori, si sentono spinti a cantare per una sorta di gioiosa eccitazione, avrebbe potuto accadere lo stesso anche per un altro motivo di allegrezza, che li incitasse al canto. Democrito spiega con parole molto appropriate la ragione per cui i galli cantano prima dello spuntare dell'alba: una volta che il cibo sia stato smaltito dallo stomaco e distribuito per tutto il corpo e assimilato, essi cantano dopo aver raggiunto un riposo ristoratore. Nel silenzio della notte, come dice Ennio,"cantano di gioia con le rosse gole e starnazzano battendo le ali".Poiché, dunque, questa specie di animali è tanto canora per istinto, come è venuto in mente a Callistene di dire che gli dèi hanno fatto cantare i galli come segno profetico, dal momento che la natura o il caso avrebbero potuto ottenere quello stesso effetto?
Commutato autem genere vitae omni ratione curandum est ut id bono consilio fecisse videamur. Sed quoniam paulo ante dictum est imitandos esse maiores, primum illud exceptum sit ne vitia sint imitanda, deinde si natura non feret, ut quaedam imitari possit (ut superioris filius Africani, qui hunc Paulo natum adoptavit, propter infirmitatem valetudinis non tam potuit patris similis esse, quam ille fuerat sui) si igitur non poterit sive causas defensitare sive populum contionibus tenere sive bella gerere, illa tamen praestare debebit, quae erunt in ipsius potestate, iustitiam, fidem, liberalitatem, modestiam, temperantiam, quo minus ab eo id, quod desit, requiratur.Optima autem hereditas a patribus traditur liberis omnique patrimonio praestantior gloria virtutis rerumque gestarum, cui dedecori esse nefas et vitium iudicandum est.
Ma, una volta cambiato il genere di vita, bisogna in ogni maniera cercare che di noi si dica: "L'ha fatto con sano intelletto". Ho detto poc'anzi che dobbiamo imitare i nostri antenati. Aggiungo due riserve. Prima: non dobbiamo imitarne i difetti. Seconda: può darsi che la nostra natura non ci consenta d'imitarne certe virtù, come il figlio dell'Africano Maggiore, colui che adottò l'altro Africano, figlio di Paolo, non poté, per la malferma salute, somigliare tanto a suo padre, quanto questi era somigliato al padre suo; in tal caso, chi non può, o difendere cause nel foro, o arringare il popolo nelle assemblee, o far guerre, dovrà almeno dar prova di quelle virtù che saranno in suo potere, quali la giustizia, la lealtà, la generosità, la moderazione, la temperanza, cosicché tanto meno si desideri da lui ciò che gli manca. Ma la migliore eredità che i padri possano trasmettere ai figli, eredità più preziosa d'ogni patrimonio, è la gloria della virtù e delle belle imprese: macchiarla, è delitto e sacrilegio.
Praeclare, inquit Brutus, teneo qui istam turbam voluminum effecerit. Et ego, inquam, intellego, Brute, quem dicas; certe enim et boni aliquid adtulimus iuventuti, magnificentius quam fuerat genus dicendi et ornatius; et nocuimus fortasse, quod veteres orationes post nostras non a me quidem—meis enim illas antepono—sed a plerisque legi sunt desitae. Me numera, inquit, in plerisque; quamquam video mihi multa legenda iam te auctore quae antea contemnebam.
"Lo so bene" fece Bruto "chi è responsabile di questa valanga di scritti. ""E io, Bruto," dissi "capisco a chi vuoi alludere; certo, ho recato alla gioventù qualcosa di buono, un tipo di eloquenza più splendido e più ricco di ornamenti che in passato; e forse le ho anche nuociuto, poiché, dopo che sono entrate in circolazione le mie, si è cessato di leggere le orazioni antiche - non certo da parte mia, giacché quei discorsi io li antepongo ai miei, ma da parte dei più." "Annoverami tra i più;" disse "per quanto, dietro tuo stimolo, io ormai mi avveda di dover leggere molte cose che prima disprezzavo. "
Sed ut nec medici nec imperatores nec oratores quamvis artis praecepta perceperint, quicquam magna laude dignum sine usu et exercitatione consequi possunt, sic officii conservandi praecepta traduntur illa quidem, ut facimus ipsi, sed rei magnitudo usum quoque exercitationemque desiderat. Atque ab iis rebus, quae sunt in iure societatis humanae, quemadmodum ducatur honestum, ex quo aptum est officium, satis fere diximus.
Ancora. Come i medici, i generali, gli oratori, pur avendo bene appreso le regole teoriche, non possono conseguir nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica. E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, derivi l'onestà, da cui dipende a sua volta il dovere.
Itaque, ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia tyrannis res privatae longo intervallo iudiciis repeterentur, tum primum, quod esset acuta illa gens et controversiae nata, artem et praecepta Siculos Coracem et Tisiam conscripsisse—nam antea neminem solitum via nec arte, sed accurate tamen et descripte plerosque dicere —; scriptasque fuisse et paratas a Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc communes appellantur loci.
Dice pertanto Aristotele," che quando, abbattuti i tiranni in Sicilia,"' si ricominciò dopo lungo tempo a far valere davanti ai tribunali i diritti dei privati," allora per la prima volta - si trattava infatti di gente acuta, e con un gusto innato per le controversie" - i siculi Corace e Tisia scrissero manuali di retorica (in precedenza nessuno parlava in base a un metodo codificato, anche se i più lo facevano con accuratezza e in maniera ordinata); che a opera di Protagora" era stata approntata per iscritto la trattazione di argomenti notevoli, quelli che ora si chiamano luoghi comuni".
Omne animal se ipsum diligit ac, simul et ortum est, id agit, se ut conservet, quod hic ei primus ad omnem vitam tuendam appetitus a natura datur, se ut conservet atque ita sit affectum. Ut optime, secundum naturam affectum esse possit. Hanc initio institutionem confusam habet et incertam, ut tantum modo se tueatur, qualecumque sit, sed nec quid sit nec quid possit nec quid ipsius natura sit intellegit. Cum autem processit paulum et quatenus quicquid se attingat ad seque pertineat perspicere coepit, tum sensim incipit progredi seseque agnoscere et intellegere quam ob causam habeat eum, quem diximus, animi appetitum coeptatque et ea, quae naturae sentit apta, appetere et propulsare contraria.Ergo omni animali illud, quod appetiti positum est in eo, quod naturae est accommodatum. ita finis bonorum existit secundum naturam vivere sic affectum, ut optime is affici possit ad naturamque accommodatissime.
Ogni essere vivente ama se stesso, e, non appena sia nato, fa in modo di salvarsi poiché per prima gli è data dalla natura questa inclinazione a proteggere tutta la vita, per salvarsi e per avere l'inclinazione di poter essere ottimamente disposto secondo natura. All'inizio ha questa disposizione confusa e incerta, a tal punto che si difende soltanto, chiunque sia, ma non capisce che cosa sia né che cosa possa, né che cosa sia di lui stesso per natura. Ma quando è andato un po' avanti e ha iniziato a capire fino a che punto qualcosa lo tocchi e lo riguardi, allora inizia gradatamente a progredire e a riconoscersi e a capire per quale ragione abbia quell'inclinazione dell'animo che abbiamo detto, e comincia ance ciò che sente adatto alla sua natura e a respingere ciò che sente contrario. Dunque per ogni essere vivente ciò che desidera è posto in ciò che è stato adattato alla natura. Così il sommo bene risulta il vivere secondo natura così disposto da poter essere ottimamente disposto e assai conforme alla natura.
Caesar autem rationem adhibens consuetudinem vitiosam et corruptam pura et incorrupta consuetudine emendat. itaque cum ad hanc elegantiam verborum Latinorum—quae, etiam si orator non sis et sis ingenuus civis Romanus, tamen necessaria est—adiungit illa oratoria ornamenta dicendi, tum videtur tamquam tabulas bene pictas conlocare in bono lumine. hanc cum habeat praecipuam laudem in communibus, non video cui debeat cedere. splendidam quandam minimeque veteratoriam rationem dicendi tenet, voce motu for ma etiam magnificam et generosam quodam modo.
Cesare, invece, avvalendosi di un metodo razionale corregge una consuetudine difettosa e corrotta con una consuetudine pura e incorrotta. Perciò, allorché a questa elegante purezza del suo latino - la quale è comunque necessaria, anche se uno non è un oratore ma solo un romano bennato - egli aggiunge gli ornamenti del linguaggio oratorio, sembra quasi collocare in buona luce delle tavole ben dipinte. Possedendo, oltre a quelli che gli sono comuni con altri, anche questo pregio peculiare, non vedo a chi la debba cedere. Ha un metodo oratorio brillante, che non scade mai a mestiere, e al quale inoltre la voce, le movenze, la sua figura conferiscono, in un certo qual modo, magnificenza e nobiltà".
P. etiam Popillius cum civis egregius tum non indisertus fuit; Gaius vero filius eius disertus, Gaiusque Tuditanus cum omni vita atque victu excultus atque expolitus, tum eius elegans est habitum etiam orationis genus. eodemque in genere est habitus is, qui iniuria accepta fregit Ti. Gracchum patientia, civis in rebus optimis constantissimus M. Octavius. at vero M. Aemilius Lepidus, qui est Porcina dictus, isdem temporibus fere quibus Galba, sed paulo minor natu et summus orator est habitus et fuit, apparet ex orationibus, scriptor sane bonus.
Anche Publio Popillio fu un eccellente cittadino, e non gli mancò scioltezza di eloquio; mentre suo figlio Gaio fu veramente facondo. Gaio Tuditano fu raffinato e ricercato in tutta la sua condotta di vita; e anche il suo stile oratorio venne ritenuto elegante. Analoga reputazione ebbe colui che, dopo aver subito un'ingiustizia da parte di Tiberio Gracco, lo fiaccò con la sua tenace opposizione: Marco Ottavio, cittadino della più grande costanza nei migliori principi. Però Marco Emilio Lepido, soprannominato Porcina, all'incirca contemporaneo di Galba, ma un po' più giovane, venne ritenuto oratore sommo, e fu, come si vede dalle sue orazioni, uno scrittore veramente buono.
Causam pro publicanis accurate, ut semper solitus esset, eleganterque dixisse Laelium. cum consules re audita 'amplius' de consili sententia pronuntiavissent, paucis interpositis diebus iterum Laelium multo diligentius meliusque dixisse iterumque eodem modo a consulibus rem esse prolatam. tum Laelium, cum eum socii domum reduxissent egissentque gratias et ne defatigaretur oravissent, locutum esse ita: se, quae fecisset, honoris eorum causa studiose accurateque fecisse, sed se arbitrari causam illam a Ser.Galba, quod is in dicendo ardentior acriorque esset, gravius et vehementius posse defendi. itaque auctoritate C. Laeli publicanos causam detulisse ad Galbam.
In difesa dei pubblicani parlò Lelio, con l'accuratezza e l'eleganza che sempre gli erano consuete. Poiché i consoli, ascoltata la questione, avevano deciso, secondo il parere del loro consiglio, di rimandare la sentenza, pochi giorni dopo Lelio parlò una seconda volta, con cura e abilità molto maggiori; e per una seconda volta il giudizio venne dilazionato dai consoli nello stesso modo. I soci riaccompagnarono Lelio a casa, lo ringraziarono, e lo pregarono di non la sciarsi scoraggiare; a questo punto, egli parlò loro così: quanto aveva fatto, lo aveva fatto con impegno e diligenza in nome della loro buona reputazione, ma riteneva che quella causa poteva venire difesa in maniera più risoluta ed energica da Servio Galba, che nel parlare era più ardente e impetuoso. Così, dietro sollecitazione di Lelio, i pubblicani rimisero la loro causa a Galba.
Cum igitur aliqua species utilitatis obiecta est, commoveri necesse est. Sed si, cum animum attenderis, turpitudinem videas adiunctam ei rei, quae speciem utilitatis attulerit, tum non utilitas relinquenda est, sed intellegendum, ubi turpitudo sit, ibi utilitatem esse non posse. Quod si nihil est tam contra naturam quam turpitudo (recta enim et convenientia et constantia natura desiderat aspernaturque contraria) nihilque tam secundum naturam quam utilitas, certe in eadem re utilitas et turpitudo esse non potest.Itemque, si ad honestatem nati sumus eaque aut sola expetenda est, ut Zenoni visum est, aut certe omni pondere gravior habenda quam reliqua omnia, quod Aristoteli placet, necesse est, quod honestum sit, id esse aut solum aut summum bonum, quod autem bonum, id certe utile, ita, quicquid honestum, id utile.
Quando, dunque, ci si presenta qualche cosa apparentemente utile, inevitabilmente ne siamo impressionati; ma se, riflettendo, si vede la disonestà intrinsecamente legata a ciò che aveva l'apparenza dell'utilità, allora non è l'utile che si deve abbandonare, ma si deve comprendere che non vi può essere utilità là dove c'è la disonestà. Se non vi è niente tanto contro natura quanto la disonestà (la natura, infatti, richiede rettitudine, armonia, coerenza e disprezza il contrario di queste qualità), e niente è tanto conforme a natura quanto l'utile; ne consegue che dove c'è l'utile non può esserci la disonestà. Allo stesso modo, se siamo nati per l'onestà e quella sola deve essere l'oggetto delle nostre aspirazioni - come sembrò a Zenone o almeno deve esser ritenuta più importante di ogni altra cosa - secondo il pensiero di Aristotele -, necessariamente l'onesto o è il solo o è il sommo bene, e sicuramente ciò che è onesto è utile, e così qualsiasi azione onesta è anche utile.
Quibus autem rationibus hanc facultatem assequi possimus, ut hominum studia complectamur eaque teneamus, dicemus, neque ita multo post, sed pauca ante dicenda sunt. Magnam vim esse in fortuna in utramque partem, vel secundas ad res vel adversas, quis ignorat? Nam et cum prospero flatu eius utimur, ad exitus pervehimur optatos et cum reflavit, affligimur. Haec igitur ipsa fortuna ceteros casus rariores habet, primum ab inanimis procellas, tempestates, naufragia, ruinas, incendia, deinde a bestiis ictus, morsus, impetus.Haec ergo, ut dixi, rariora.
Diremo, poi, - e tra non molto - in quali modi possiamo conseguire la capacità di conquistare e mantenere l'interesse degli uomini; ma prima devo dire poche cose. Chi ignora la gran forza della fortuna in un senso e nell'altro, così nelle avversità come nella prosperità? Infatti quando godiamo del suo soffio favorevole, perveniamo alle mete desiderate, e quando ci soffia contro siamo sballottati. Gli altri casi della fortuna, dunque, sono più rari, in primo luogo quelli dipendenti dalle cose inanimate, come procelle, tempeste, naufragi, distruzioni, incendi, poi quelli causati dalle belve, colpi, morsi, assalti.
Atque huic arti finitima est dicendi gravior facultas et gratior et ornatior. Quid enim eloquentia praestabilius vel admiratione audientium vel spe indigentium vel eorum, qui defensi sunt, gratia? Huic quoque ergo a maioribus nostris est in toga dignitatis principatus datus. Diserti igitur hominis et facile laborantis, quodque in patriis est moribus, multorum causas et non gravate et gratuito defendentis beneficia et patrocinia late patent.
A tale scienza è assai affine, ma più grave più gradita e più elegante, la capacità di parlare. Infatti che cosa supera l'eloquenza o nell'ammirazione degli uditori o nella speranza che fa nascere nei bisognosi, o nella gratitudine di coloro che sono stati difesi? Giustamente [anche], dunque, i nostri antenati assegnarono a questa attività il primo posto in dignità tra le occupazioni civili. Ampie possibilità di beneficare e di difendere si aprono all'uomo facondo, che facilmente si addossa la fatica e che, secondo il patrio costume, difende le cause di molti di buon grado e gratuitamente.
Haec ego omnia vixdum etiam coetu vestro dimisso comperi; domum meam maioribus praesidiis munivi atque firmavi, exclusi eos, quos tu ad me salutatum mane miseras, cum illi ipsi venissent, quos ego iam multis ac summis viris ad me id temporis venturos esse praedixeram. Quae cum ita sint, Catilina, perge, quo coepisti, egredere aliquando ex urbe; patent portae; proficiscere. Nimium diu te imperatorem tua illa Manliana castra desiderant. Educ tecum etiam omnes tuos, si minus, quam plurimos; purga urbem.Magno me metu liberabis, dum modo inter me atque te murus intersit. Nobiscum versari iam diutius non potes; non feram, non patiar, non sinam.
Ho saputo tutto non appena avete sciolto la riunione. Allora ho protetto, difeso casa mia con misure più efficaci; non ho fatto entrare chi, al mattino, avevi inviato a salutarmi: avevo del resto preannunciato a molti autorevoli cittadini che, per quell'ora, costoro si sarebbero recati da me. Se le cose stanno così, Catilina, porta a termine quanto hai cominciato! Lascia una buona volta la città! Le porte sono aperte. Vattene! L'accampamento di Manlio, il tuo accampamento, da troppo tempo aspetta te, suo generale. Porta via anche tutti i tuoi; se non tutti, quanti più puoi. Purifica la città! Mi libererai da una grande paura quando ci sarà un muro tra me e te. Non puoi più stare in mezzo a noi! Non intendo sopportarlo, tollerarlo, permetterlo.
Huic Hyperides proxumus et Aeschines fuit et Lycurgus et Dinarchus et is, cuius nulla exstant scripta, Demades aliique plures. haec enim aetas effudit hanc copiam; et, ut opinio mea fert, sucus ille et sanguis incorruptus usque ad hanc aetatem oratorum fuit, in qua naturalis inesset, non fucatus nitor.
Si avvicinano a lui Iperide, Eschine, Licurgo, Dinarco, Demade, del quale non restano scritti, e numerosi altri. Quest'epoca produsse infatti tale abbondanza; e, secondo me, linfa e sangue si conservarono incorrotti fino a questa generazione di oratori, in cui si trova un nitore naturale, non imbellettato.
Sed quid aut plura aut vetera quaerimus? Saepe tibi meum narravi, saepe ex te audivi tuum somnium: me, cum Asiae pro consule praeessem, vidisse in quiete, cum tu, equo advectus ad quandam magni fluminis ripam, provectus subito atque delapsus in flumen nusquam apparuisses, me contremuisse timore perterritum; tum te repente laetum exstitisse eodemque equo adversam ascendisse ripam, nosque inter nos esse complexos. Facilis coniectura huius somnii, mihique a peritis in Asia praedictum est fore eos eventus rerum qui acciderunt.Venio nunc ad tuum. Audivi equidem ex te ipso, sed mihi saepius noster Sallustius narravit, cum in illa fuga nobis gloriosa, patriae calamitosa in villa quadam campi Atinatis maneres magnamque partem noctis vigilasses, ad lucem denique arte [te] et graviter dormitare coepisse; itaque, quamquam iter instaret, tamen silentium fieri iussisse [se] neque esse passum te excitari; cum autem experrectus esses hora secunda fere, te sibi somnium narravisse: visum tibi esse, cum in locis solis maestus errares, C. Marium cum fascibus laureatis quaerere ex te quid tristis esses, cumque te tu patria vi pulsum esse dixisses, prehendisse eum dextram tuam et bono animo te iussisse esse lictorique proxumo tradidisse ut te in monumentum suum deduceret, et dixisse in eo tibi salutem fore. Tum et se exclamasse Sallustius narrat reditum tibi celerem et gloriosum paratum, et te ipsum visum somnio delectari. Nam illud mihi ipsi celeriter nuntiatum est, ut audivisses in monumento Mari de tuo reditu magnificentissumum illud senatus consultum esse factum, referente optumo et clarissumo viro consule, idque frequentissimo theatro incredibili clamore et plausu comprobatum, dixisse te nihil illo Atinati somnio fieri posse divinius.
Ma a che scopo continuare con altri esempi, ed esempi antichi? Spesso io ti ho raccontato un mio sogno, spesso me ne hai raccontato uno tuo. Io, quando ero, come proconsole, governatore della provincia d'Asia, vidi in sogno te che andavi a cavallo verso la riva di un gran fiume, ti slanciavi d'un tratto e, scivolato giù nel fiume, non ricomparivi più, mentre io, atterrito, ero preso da tremore. Poi, all'improvviso, tu riemergevi con aspetto lieto e, su quello stesso cavallo, risalivi l'altra sponda del fiume, e noi ci abbracciavamo. Era facile l'interpretazione di questo sogno, e in Asia gli esperti mi predissero ciò che poi in effetti accadde. Ed eccomi al tuo sogno: l'ho udito da te direttamente, ma ancor più spesso me l'ha narrato il nostro Sallustio. Quando, in quell'esilio glorioso per noi, rovinoso per la patria, tu ti trovavi in una casa di campagna del territorio di Atina e per gran parte della notte eri rimasto sveglio, verso l'alba, finalmente, ti abbandonasti ad un sonno greve e profondo. E sebbene il tempo stringesse, tuttavia Sallustio ordinò che si facesse silenzio e non permise che ti svegliassero. Quando poi ti svegliasti verso le otto del mattino, gli narrasti un sogno: ti era sembrato che, mentre vagavi mestamente in un luogo deserto, Gaio Mario, coi fasci ornati di alloro, ti domandasse perché eri addolorato; e avendogli tu detto che eri stato con la violenza cacciato via dalla patria, egli ti strinse la mano, ti esortò a star di buon animo, ordinò al littore più vicino a lui di condurti al tempio da lui fatto costruire e ti disse che in quello avresti trovato la salvezza. Sallustio narra di avere allora esclamato che il destino ti riserbava un ritorno prossimo e glorioso, mentre tu stesso apparivi rasserenato da quel sogno. Anche a me fu ben presto riferito che tu, quando apprendesti che nel tempio edificato da Mario era stata presa quella splendida decisione del senato sul tuo richiamo dall'esilio su proposta del console di allora, uomo eccellente e ragguardevolissimo, e che il decreto era stato accolto con incredibili grida di gioia e applausi dal popolo assiepato nel teatro, dicesti che nulla avrebbe potuto accadere di più presàgo di quel sogno che avevi avuto presso Atina.
Quocirca (dicendum est enim saepius), cum iudicaris, diligere oportet, non, cum dilexeris, iudicare. Sed cum multis in rebus neglegentia plectimur, tum maxime in amicis et diligendis et colendis; praeposteris enim utimur consiliis et acta agimus, quod vetamur vetere proverbio. Nam implicati ultro et citro vel usu diuturno vel etiam officiis repente in medio cursu amicitias exorta aliqua offensione disrumpimus.
Ecco perché, e non bisogna stancarsi di ripeterlo, prima devi giudicare, poi voler bene, e non il contrario.Scontiamo la nostra negligenza in molte circostanze, ma soprattutto quando scegliamo e coltiviamo le amicizie. Questo perché prendiamo le decisioni quando ormai è troppo tardi e, benché ce lo vieti un antico proverbio, tentiamo di cambiar l'ineluttabile. Ci facciamo strettamente vincolare agli altri o da una lunga relazione o anche dagli obblighi; poi, all'improvviso, sorge un ostacolo e sfasciamo l'amicizia, nel bel mezzo della navigazione.
Haec artius adstringi ratio non potest. Nam si quis velit idem referre atque ita dicere: 'Si omne futurum ex aeternitate verum est, ut ita certe eveniat, quem ad modum sit futurum, omnia necesse est conligatione naturali conserte contexteque fieri', nihil dicat. Multum enim differt, utrum causa naturalis ex aeternitate futura vera efficiat, an etiam sine aeternitate naturali, futura quae sint, ea vera esse possint intellegi. Itaque dicebat Carneades ne Apollinem quidem futura posse dicere nisi ea, quorum causas natura ita contineret, ut ea fieri necesse esset.
Il ragionamento non potrebbe risultare più serrato e stringente. Se qualcuno volesse infatti respingere tale tesi e affermare: "Se tutti gli avvenimenti futuri sono veri dall'eternità, al punto che si verificano senz'altro nel modo in cui devono realizzarsi, è necessario che tutto accada secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso", non direbbe nulla. C'è una netta differenza tra il fatto che una causa naturale renda vere dall'eternità le cose a venire e il fatto che possano essere concepite come vere le cose future anche senza un'eternità naturale. Pertanto, sosteneva Carneade, neppure Apollo può predire l'avvenire, eccetto quegli eventi la cui natura reca in sé cause tali, per cui essi debbano verificarsi necessariamente.
Age nunc ad externa redeamus. Matrem Phalaridis scribit Ponticus Heraclides, doctus vir, auditor et discipulus Platonis, visam esse videre in somnis simulacra deorum, quae ipsa domi consecravisset; ex iis Mercurium e patera, quam dextera manu teneret, sanguinem visum esse fundere; qui cum terram attigisset, refervescere videretur sic, ut tota domus sanguine redundaret. Quod matris somnium immanis filii crudelitas comprobavit. Quid ego, quae magi Cyro illi principi interpretati sint, ex Dinonis Persicis fibris proferam? Nam cum dormienti ei sol ad pedes visus esset, ter eum scribit frustra adpetivisse manibus, cum se convolvens sol elaberetur et abiret; ei magos dixisse, quod genus sapientium et doctorum habebatur in Persis, ex triplici adpetitione solis triginta annos Cyrum regnaturum esse portendi.Quod ita contigit; nam ad septuagesimum pervenit, cum quadraginta natus annos regnare coepisset.Est profecto quiddam etiam in barbaris gentibus praesentiens atque divinans, siquidem ad mortem proficiscens Cafianus Indus, cum inscenderet in rogum ardentem, "O praeclarum discessum," inquit, "e vita, cum, ut Herculi contigit, mortali corpore cremato, in lucem animus excesserit! " Cumque Alexander eum rogaret, si quid vellet, ut diceret, " Optume, " inquit; " propediem te videbo. " Quod ita contigit; nam Babylone paucis post diebus Alexander est mortuus. Discedo parumper a somniis, ad quae mox revertar. Qua nocte templum Ephesiae Dianae deflagravit, eadem, constat ex Olympiade natum esse Alexandrum, atque, ubi lucere coepisset, clamitasse magos pestem ac perniciem Asiae proxuma nocte natam.
Suvvia, torniamo ora a fatti di paesi stranieri. Eraclìde Pontico, uomo dotto, uditore e scolaro di Platone, scrive che alla madre di Falàride sembrò di vedere in sogno le immagini degli dèi che essa stessa aveva consacrato nella sua casa. Una di queste, l'immagine di Mercurio, sembrava versasse del sangue dalla coppa che teneva con la mano destra; appena aveva toccato terra, il sangue ribolliva, sì che tutta la casa era un lago di sangue. Questo sogno della madre fu confermato dall'efferata crudeltà del figlio. C'è bisogno che io citi dai Libri persiani di Dinone la profezia che i maghi rivelarono a Ciro, quel famoso antico re? Scrive Dinone che, in sogno, parve a Ciro che il sole gli si posasse ai piedi; tre volte Ciro cercò di toccarlo con le mani, ma invano: il sole, girando su se stesso, gli sfuggiva e si allontanava. I maghi - venerati in Persia come una stirpe di sapienti e di dotti - da questo triplice tentativo di afferrare il sole trassero la profezia che Ciro avrebbe regnato per trent'anni. E così avvenne: giunse fino all'età di settant'anni, e il suo regno incominciò quando ne aveva quaranta.C'è senza dubbio anche nei popoli barbari una capacità di presentimento e di divinazione. L'indiano Callano, recandosi alla morte, nell'atto di salire sul rogo ardente, esclamò: "Oh, splendida separazione dalla vita! Come accadde a Ercole, dopo che sarà incenerito questo corpo mortale, la mia anima ascenderà al regno della luce." E siccome Alessandro gli chiese di dire se desiderava qualcosa prima di morire, egli rispose: "Grazie: fra poco ti rivedrò." E così avvenne: pochi giorni dopo Alessandro morì a Babilonia. Mi sto allontanando per un poco dai sogni, ai quali presto ritornerò. Si sa che, nella stessa notte in cui fu distrutto dalle fiamme il tempio di Diana Efesia, Olimpiade diede alla luce Alessandro, e appena si fece giorno i maghi si misero a gridare che nella notte allora trascorsa era nata la rovina, la sciagura per l'Asia.
Nec verum est quod dicitur a quibusdam propter necessitatem vitae, quod ea, quae natura desideraret, consequi sine aliis atque efficere non possemus, idcirco initam esse cum hominibus communitatem et societatem; quodsi omnia nobis, quae ad victum cultumque pertinent, quasi virgula divina, ut aiunt, suppeditarentur, tum optimo quisque ingenio negotiis omnibus omissis totum se in cognitione et scientia collocaret. Non est ita. Nam et solitudinem fugeret et socium studii quaereret, tum docere, tum discere vellet, tum audire, tum dicere.Ergo omne officium, quod ad coniunctionem hominum et ad societatem tuendam valet, anteponendum est illi officio, quod cognitione et scientia continetur.
Onde avviene che il sentimento della fratellanza umana sia superiore all'amore del sapere. E non è vero quel che dicono certi filosofi: "La società umana ha avuto origine dalle necessità della vita, perché noi, senza l'aiuto degli altri, non potremmo né ottenere né provvedere quel che la natura richiede. E se, come suol dirsi, una bacchetta magica ci procurasse tutte quelle cose che servono ai bisogni e agli agi della vita, ogni uomo di più felice ingegno lascerebbe da parte ogni altro affare per dedicarsi tutto alla speculazione e alla scienza". Ma no, non è così: costui fuggirebbe la solitudine e si cercherebbe un compagno di studi; vorrebbe insegnare e imparare, vorrebbe ascoltare e parlare. Ogni dovere, dunque, che valga a preservare la società e la fratellanza degli uomini si deve anteporre a quel dovere che è inerente all'attività del pensiero.
Solonis quidem sapientis est elogium, quo se negat velle suam mortem dolore amicorum et lamentis vacare. Volt, credo, se esse carum suis; sed haud scio an melius Ennius:Nemo me lacrumis decoret neque funera fletu faxit.
Pitagora vieta che si diserti dal proprio posto di guardia nella vita senza un ordine del comandante, cioè del dio. C'è un distico di Solone il sapiente in cui dice di non volere una morte priva del dolore e del pianto degli amici; vuole, credo, esser caro ai suoi. Ma forse si esprime meglio Ennio:Nessuno mi onori con le lacrimee celebri le mie esequie con il pianto.Ritiene che non si debba piangere la morte perché è seguita dall'immortalità.
Sed quid ego alios? Ad me ipsum iam revertar. Primum habui semper sodalis. Sodalitates autem me quaestore constitutae sunt sacris Idaeis Magnae Matris acceptis. Epulabar igitur cum sodalibus omnino modice, sed erat quidam fervor aetatis; qua progrediente omnia fiunt in dies mitiora. Neque enim ipsorum conviviorum delectationem voluptatibus corporis magis quam coetu amicorum et sermonibus metiebar. Bene enim maiores accubitionem epularem amicorum, quia vitae coniunctionem haberet, convivium nominaverunt, melius quam Graeci, qui hoc idem tum compotationem, tum concenationem vocant, ut, quod in eo genere minimum est, id maxime probare videantur.
Ma perché parlare degli altri? Ritorno subito a me. In primo luogo ho sempre avuto compagni di sodalizio; i sodalizi si costituirono durante la mia questura quando fu introdotto il culto ideo della Gran Madre. Banchettavo, dunque, con i miei compagni con moderazione, è vero, ma si faceva sentire un certo ardore giovanile; col passare degli anni, poi, di giorno in giorno tutto si calma. E infatti misuravo il diletto di questi conviti non tanto dal piacere dei sensi quanto dalla compagnia e dal conversare tra amici. Bene i nostri antenati chiamarono "con-vivio" lo stare insieme degli amici a banchetto poiché comporta una comunione di vita, meglio dei Greci che lo definiscono ora "bere in compagnia" ora "mangiare in compagnia", mostrando così di apprezzare di più ciò che, in questi casi, vale molto di meno.
Atticus:Equidem, qui nunc potissimum huc venerim, satiari non queo, magnificasque villas et pavimenta marmorea et laqueata tecta contemno. Ductus vero aquarum, quos isti Nilos et Euripos vocant, quis non cum haec videat inriserit? Itaque ut tu paulo ante de lege et de iure disserens ad naturam referebas omnia, sic in his ipsis rebus, quae ad requietem animi delectationemque quaeruntur, natura dominatur. Quare antea mirabar - nihil enim his in locis nisi saxa et montis cogitabam, itaque ut facerem et narrationibus inducebar tuis et versibus -, sed mirabar ut dixi, te tam valde hoc loco delectari.Nunc contra miror te cum Roma absis usquam potius esse.
Attico:Quanto a me, che sono venuto qui proprio in questa stagione, non sono stanco di saziarmene, ed al confronto mi sembrano un nulla le magnificenze delle ville ed i pavimenti di marmo ed i soffitti a cassettoni, come pure quei canali d'acqua che questa gente chiama Nili ed Euripi. Chi non sorriderebbe soddisfatto dopo aver visto questo paesaggio? Come tu poco fa discutendo di legge e di diritto riconducevi tutto alla natura, così anche in queste cose, che sono apprezzate per la distensione e la gioia dell'animo, quella che domina è la natura. Per questo io prima mi stupivo, pensando che in questi luoghi non vi fossero altro che rocce e montagne, ed a ciò mi spingevano le tue orazioni ed i tuoi versi. Mi stupivo, come ho detto, che tu provassi tanto godimento in questi luoghi; ora invece mi stupisco che durante le tue assenze da Roma tu possa stare in qualche altra località.
Neque enim illud verbum temere consuetudo adprobavisset, si ea res nulla esset omnino:"praesagibat animus frustra me ire, cum exirem domo."Sagire enim sentire acute est; ex quo sagae anus, quia multa scire volunt, et sagaces dicti canes. Is igitur qui ante sagit quam oblata res est, dicitur praesagire, id est futura ante sentire.Inest igitur in animis praesagatio extrinsecus iniecta atque inclusa divinitus. Ea si exarsit acrius, furor appellatur, cum a corpore animus abstractus divino instinctu concitatur:H, "Sed quid oculis rabere visa es derepente ardentibus?ubi illa paululo ante sapiens virginalis modestia?"C. "Mater, optumatum multo mulier melior mulierum,missa sum superstitiosis hariolationibus,meque Apollo fatis fandis dementem invitam ciet.Virgines vereor aequalis; patris mei meum factum pudet,optumi viri; mea mater, tui me miseret; mei piget.Optumam progeniem Priamo peperisti extra me: hoc dolet: men obesse, illos prodesse, me obstare, illos obsequi!"O poema tenerum et moratum atque molle! Sed hoc minus ad rem; illud, quod volumus, expressum est, ut vaticinari furor vera soleat:"Adest, adest fax obvoluta sanguine atque incendio.multos annos latuit; cives, ferte opem et restinguite!"Deus inclusus corpore humano iam, non Cassandra loquitur."lamque mari magno classis citatexitur; exitium examen rapit;adveniet, fera velivolantibusnavibus complebit manus litora."
Né l'uso avrebbe consacrato a caso quella parola "presagire", se a essa non corrispondesse proprio alcuna realtà:"Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente."Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro.C'è dunque nelle anime una capacità di presagire infusa dall'esterno e penetrata per opera della divinità. Se questa capacità s'infiamma con più veemenza, si chiama "follìa profetica", quando l'anima svincolatasi dal corpo è eccitata da un impulso divino:(Ecuba) "Ma come mai, d'un tratto, sei apparsa in preda al furore, con gli occhi fiammeggianti? Dov'è più quella saggia, virginale modestia di poco prima?"(Cassandra): "Madre mia, di gran lunga la migliore donna delle nobili donne troiane, io sono assalita da deliri profetici, e Apollo mi istiga a dire, folle, contro la mia volontà, il futuro. Mi vergogno dinanzi alle fanciulle mie coetanee; ho rossore di ciò che faccio perché disonoro mio padre, uomo eccelso; di te, madre mia, ho compassione; di me stessa mi dolgo. Tu hai partorito a Priamo figli eccellenti, tranne me: è questo che mi addolora: che io sia di danno, essi di aiuto, io riottosa, essi obbedienti!"Oh, brano di poesia dolce, espressivo, delicato! Ma esso non riguarda da vicino il nostro argomento; quello che c'interessa il poeta l'ha espresso in quest'altro passo: come la follìa, di solito, predìca il vero:"Eccola, eccola la torcia avvolta nel sangue e nelle fiamme! Per molti anni rimase occulta. Cittadini, recate soccorso e spegnetela!"Non è più Cassandra che parla, ma il dio che è penetrato in un corpo umano."E già nel vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di sciagure; arriverà, feroce, un esercito su navi volanti con le vele, riempirà le nostre spiagge."
Versatus est in omni fere genere causarum; mature in locum principum oratorum venit. accusavit C. Carbonem eloquentissimum hominem admodum adulescens; summam ingeni non laudem modo sed etiam admirationem est consecutus.
Si cimentò in cause d'ogni genere; raggiunse presto una posizione di primo piano tra gli oratori. Quando era ancora assai giovane accusò Gaio Carbone, uomo eloquentissimo; ottenne per il suo talento non solo i maggiori elogi, ma anche la più grande ammirazione.
Admodum autem tenenda sunt sua cuique, non vitiosa, sed tamen propria, quo facilius, decorum illud, quod quaerimus, retineatur. Sic enim est faciendum, ut contra universam naturam nihil contendamus, ea tamen conservata propriam nostram sequamur, ut etiamsi sint alia graviora atque meliora, tamen nos studia nostra nostrae naturae regula metiamur; neque enim attinet naturae repugnare nec quicquam sequi, quod assequi non queas. ex quo magis emergit quale sit decorum illud, ideo quia nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura.
Ogni uomo deve accuratamente coltivare le sue qualità naturali (le buone, s'intende, non le cattive), per poter più facilmente conservare quel decoro di cui andiamo parlando. E il modo da tenere è questo: non dobbiamo far nulla contro l'universale natura umana e, nel pieno rispetto di essa, dobbiamo seguir la nostra particolare, in modo che, anche se altri abbiano altre attitudini maggiori e migliori, noi misuriamo le nostre alla stregua della nostra natura: non giova, invero, contrastare alla propria natura o inseguire qualcosa che non si può raggiungere. Da ciò emerge più evidente la vera essenza del decoro, appunto perché nulla è decoroso a dispetto, come suol dirsi, di Minerva, cioè, nel caso nostro, della natura.
Erat in L. Crasso, in L. Philippo multus lepos, maior etiam magisque de industria in C. Caesare, L. filio; at isdem temporibus in M. Scauro et in M. Druso adulescente singularis severitas, in C. Laelio multa hilaritas, in eius familiari Scipione ambitio maior, vita tristior. de Graecis autem dulcem et facetum festivique sermonis atque in omni oratione simulatorem, quemeironaGraeci nominarunt, Socratem accepimus, contra Pythagoram et Periclem summam auctoritatem consecutos sine ulla hilaritate.Callidum Hannibalem ex Poenorum, ex nostris ducibus Q. Maximum accepimus, facile celare, tacere, dissimulare, insidiari, praeripere hostium consilia. In quo genere Graeci Themistoclem et Pheraeum Iasonem ceteris anteponunt, in primisque versutum et callidum factum Solonis, qui, quo et tutior eius vita esset et plus aliquanto rei publicae prodesset, furere se simulavit.
In Lucio Crasso e in Lucio Filippo c'era molto spirito, ma ne possedeva ancor più, e di più ricercato, Gaio Cesare, il figlio di Lucio; ma in quei medesimi tempi Mauro Scauro e il giovane Mario Druso possedevano una straordinaria austerità; Gaio Lelio, invece, molta giocondità, mentre maggiore era l'ambizione e più serio il comportamento del suo amico Scipione. Fra i Greci, poi, sappiamo che Socrate era affabile e gioviale e piacevole conversatore, e, in ogni discorso, maestro in quella particolare finzione che i Greci chiamanoeironaper contro, Pitagora e Pericle conseguirono somma autorità, pur senz'ombra di buon umore. Astuto fu (com'è noto), tra i capitani cartaginesi Annibale, tra i nostri Quinto Massimo esperti entrambi nell'arte di celare, tacere, dissimulare, tendere insidie, prevenire e sventare i disegni del nemico. Per questo rispetto i Greci antepongono Temistocle e Giàsone di Fere a tutti gli altri; ed esaltano in particolar modo lo scaltro e ingegnoso espediente di Solone, il quale, per meglio tutelar la sua vita e per più giovare alla sua patria, si finse pazzo.
Nec vero clarorum virorum post mortem honores permanerent, si nihil eorum ipsorum animi efficerent, quo diutius memoriam sui teneremus. Mihi quidem numquam persuaderi potuit animos, dum in corporibus essent mortalibus, vivere, cum excessissent ex eis, emori, nec vero tum animum esse insipientem, cum ex insipienti corpore evasisset, sed cum omni admixtione corporis liberatus purus et integer esse coepisset, tum esse sapientem. Atque etiam cum hominis natura morte dissolvitur, ceterarum rerum perspicuum est quo quaeque discedat; abeunt enim illuc omnia, unde orta sunt, animus autem solus nec cum adest nec cum discedit, apparet.Iam vero videtis nihil esse morti tam simile quam somnum.
Gli uomini illustri non continuerebbero a ricevere onori dopo la morte se non fossero le loro anime a rinnovare in noi il loro ricordo. Quanto a me, non sono mai riuscito a convincermi che le anime, finché si trovano nei corpi mortali, vivano, ma, una volta uscite, muoiano, né che l'anima perda il senno quando si stacca dal corpo che senno non ha, ma sono convinto che quando l'anima, liberatasi da ogni contatto fisico, incomincia a essere pura e incorrotta, allora acquisisca il senno. Inoltre, una volta che l'organismo umano si disfa con la morte, si vede bene dove si disperdono gli altri elementi: vanno tutti a finire là da dove sono sorti; soltanto l'anima non appare né quando c'è, né quando se n'è andata.
O virum magnum dignumque, qui in re publica nostra natus esset! Sic par est, agere cum civibus, non, ut bis iam vidimus, hastam in foro ponere et bona civium voci subicere praeconis. At ille Graecus, id quod fuit sapientis et praestantis viri, omnibus consulendum putavit, eaque est summa ratio et sapientia boni civis, commoda civium non divellere atque omnis aequitate eadem continere. Habitent gratis in alieno. Quid ita? Ut, cum ego emerim, aedificarim, tuear, impendam, tu me invito fruare meo? Quid est aliud aliis sua eripere, aliis dare aliena?
O uomo grande e degno di esser nato nel nostro Stato! Questo è il modo equo di agire coi cittadini, non, come abbiamo già visto per due volte, piantare l'asta nel foro e mettere all'incanto i beni dei cittadini. Ma quel Greco ritenne che si dovesse provvedere a tutti, e questa fu una decisione degna di un uomo saggio e superiore; in questo consiste la massima avvedutezza e saggezza di un buon cittadino, nel non eliminare i vantaggi dei cittadini e nel trattare tutti con la stessa equità. Abitino gratis nella proprietà altrui. E perché questo? Dopo che - io ho comprato, edificato, curato e speso, tu godrai del mio senza che io lo voglia? Che altro è se non strappare agli uni i propri averi e dare agli altri quelli altrui?
Sed illud maximum: octo hominum milia tenebat Hannibal, non quos in acie cepisset, aut qui periculo mortis diffugissent, sed qui relicti in castris fuissent a Paulo et a Varrone consulibus. Eos senatus non censuit redimendos, cum id parva pecunia fieri posset, ut esset insitum militibus nostris aut vincere aut emori. Qua quidem re audita fractum animum Hannibalis scribit idem, quod senatus populusque Romanus rebus afflictis tam excelso animo fuisset.Sic honestatis comparatione ea, quae videntur utilia, vincuntur.
Ma questo è il lato più importante. Annibale teneva prigionieri ottomila uomini, che non erano stati catturati in battaglia né erano fuggiti di fronte al pericolo di morte, ma erano stati lasciati nell'accampamento dai consoli Paolo e Varrone. Il senato stabilì che non si doveva pagare il riscatto, benché lo si potesse fare con un'esigua somma di denaro, perché fosse ben radicato nell'animo dei nostri soldati il concetto che bisognava vincere o morire. Lo stesso storico scrive che, udito il fatto, l'animo di Annibale ne restò molto turbato, perché il senato e il popolo romano avevano dimostrato una tale grandezza d'animo nelle avversità. Così, al paragone con l'onestà, le azioni che sembrano utili finiscono con l'essere superate.
Altera sententia est, quae definit amicitiam paribus officiis ac voluntatibus. Hoc quidem est nimis exigue et exiliter ad calculos vocare amicitiam, ut par sit ratio acceptorum et datorum. Divitior mihi et affluentior videtur esse vera amicitia nec observare restricte, ne plus reddat quam acceperit; neque enim verendum est, ne quid excidat, aut ne quid in terram defluat, aut ne plus aequo quid in amicitiam congeratur.
La seconda opinione è quella che riduce l'amicizia alla reciprocità di servigi e di buone disposizioni: questo però significherebbe ridurre a calcolo l'amicizia, in modo troppo meschino e arido, in modo tale che il conto di ciò che è ricevuto e di ciò che è dato sia pari. Mi sembra che la vera amicizia sia più ricca e più generosa e non osservi rigorosamente a non dare più di quanto abbia ricevuto.
Quid enim loci natura adferre potest, ut in porticu Pompeii potius quam in campo ambulemus? tecum quam cum alio? Idibus potius quam Kalendis? Ut igitur ad quasdam res natura loci pertinet aliquid, ad quasdam autem nihil, sic astrorum adfectio valeat, si vis, ad quasdam res, ad omnis certe non valebit. At enim, quoniam in naturis hominum dissimilitudines sunt, ut alios dulcia, alios subamara delectent, alii libidinosi, alii iracundi aut crudeles aut superbi sint, alii a talibus vitiis abhorreant,--quoniam igitur, inquit, tantum natura a natura distat, quid mirum est has dissimilitudines ex differentibus causis esse factas?
Distingui ulteriormente: quale influsso può avere la natura del luogo, se passeggio nel Portico di Pompeo piuttosto che nel Campo Marzio? In tua compagnia anziché con un altro? Alle idi piuttosto che alle calende? Quindi, come la natura del luogo ha una qualche incidenza per certi aspetti, ma nessuna per altri, così l'influsso degli astri può aver valore, se vuoi, in alcuni casi, ma certamente non in tutti. Ed è ovvio, perché nell'indole degli uomini ci sono differenze, tant'è vero che agli uni piace il dolce, ad altri un pizzico d'amaro, alcuni sono schiavi della passione, altri iracondi o crudeli o superbi, ma ci sono persone che rifuggono da difetti del genere: considerando dunque, afferma Crisippo, che tanto dista un'indole dall'altra, ci sarebbe forse da stupirsi, se queste differenze fossero provocate da cause diverse?
Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint. Continet enim rem publicam, consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere, discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium, neque multorum ne esset infinitum, neque ut ea ipsa quae suscepta publice essent quisquam extra conlegium nosset.
Quanto segue, non riguarda soltanto la religione, ma anche la costituzione civile, col precetto che non si possa attendere ai culti privati senza la presenza di coloro i quali presiedono pubblicamente al culto; tale norma significa infatti che lo Stato ed il popolo hanno sempre bisogno del consiglio e dell'autorità degli ottimati. La distinzione dei sacerdoti non trascura alcun genere di culto legittimo. Gli uni infatti sono stabiliti per placare gli dèi, per presiedere le cerimonie solenni, gli altri per interpretare i responsi dei vati, e non già di molti, che non si finirebbe più; questo perchè nessun estraneo al collegio possa venire a conoscenza delle profezie riconosciute dai pubblici poteri.
Chrysippus autem cum et necessitatem inprobaret et nihil vellet sine praepositis causis evenire, causarum genera distinguit, ut et necessitatem effugiat et retineat fatum. 'Causarum enim', inquit, 'aliae sunt perfectae et principales, aliae adiuvantes et proximae. Quam ob rem, cum dicimus omnia fato fieri causis antecedentibus, non hoc intellegi volumus: causis perfectis et principalibus, sed causis adiuvantibus et proximis'. Itaque illi rationi, quam paulo ante conclusi, sic occurrit: si omnia fato fiant, sequi illud quidem, ut omnia causis fiant antepositis, verum non principalibus causis et perfectis, sed adiuvantibus et proximis.Quae si ipsae non sunt in nostra potestate, non sequitur, ut ne adpetitus quidem sit in nostra potestate. At hoc sequeretur, si omnia perfectis et principalibus causis fieri diceremus, ut, cum eae causae non essent in nostra potestate, ne ille quidem esset in nostra potestate.
Crisippo, però, respingendo il concetto di necessità e pretendendo che nulla possa accadere senza cause preordinate, distingue i diversi tipi di cause, per sfuggire alla necessità e mantenere, al tempo stesso, il concetto di fato. "Tra le cause", sostiene, "alcune sono compiute e principali, altre mediate e immediate. Per cui, quando diciamo che tutto avviene per cause precedenti, non vogliamo intendere per cause compiute e principali, bensì per cause mediate [precedenti] e immediate". Pertanto, al ragionamento che poco fa ho portato a conclusione, Crisippo così si oppone: se tutto accade per volere del fato, ne consegue che tutto avviene per cause precedenti, ovvero per cause non tanto principali e compiute, quanto piuttosto mediate e immediate. Se tali cause non sono in nostro potere, non ne deriva che neppure la tendenza non sia in nostro potere. Una conseguenza del genere deriverebbe, se affermassimo che tutto accade per cause compiute e principali, di modo che, non essendo tali cause in nostro potere, neppure la tendenza lo sarebbe.
[...] Omnium bellorum causae ex rei publicae contentione natae sunt. De proximo bello civili non libet dicere; ignoro causam, detestor exitum.
[...] Le cause di tutte le guerre nacquero dalla lotta alla repubblica. Non ho voglia di parlare della precedente guerra civile: ignoro la causa, ne maledico l'esito.
Atticus:Reddes igitur nobis, ut in religionis lege fecisti admonitu et rogatu meo, sic de magistratibus, ut disputes, quibus de causis maxime placeat ista discriptio.Marcus:Faciam Attice ut vis, et locum istum totum, ut a doctissimis Graeciae quaesitum et disputatum est, explicabo, et ut institui nostra iura attingam.Atticus:Istud maxime exspecto disserendi genus.Marcus:Atqui pleraque sunt dicta in illis libris, quod faciendum fuit quom de optuma re publica quaereretur.Sed huius loci de magistratibus sunt propria quaedam, a Theophrasto primum, deinde a Dio<ge>ne Stoico quaesita subtilius.
Attico:Ed allora, come già hai fatto a proposito della legge sul culto, dietro mio consiglio e richiesta, vorrai spiegarci così anche riguardo ai magistrati, per quali ragioni specifiche si debba fare questa distinzione.Marco:Farò come vuoi, Attico, e esporrò per intero tutto questo argomento come fu studiato e discusso dai più dotti Greci e, come ho già programmato, mi occuperò delle nostre leggi.Attico:Mi aspetto proprio un tal genere di esposizione.Marco:Eppure il più già è stato esposto in quei libri, cosa che pur doveva essere fatta, quando si indagava sulla forma migliore di Stato; ma alcune questioni su questo argomento dei magistrati furono studiate con molta sottigliezza prima da Teofrasto, poi dallo stoico Diogene.
Atticus:Ego vero tibi istam iustam causam puto, cur huc libentius venias atque hunc locum diligas. Quin ipse, vere dicam, sum illi villae amicior modo factus atque huic omni solo, in quo tu ortus et procreatus es. Movemur enim nescio quo pacto locis ipsis, in quibus eorum quos diligimus aut admiramur adsunt vestigia. Me quidem ipsae illae nostrae Athenae non tam operibus magnificis exquisitisque antiquorum artibus delectant, quam recordatione summorum virorum, ubi quisque habitare, ubi sedere, ubi disputare sit solitus, studioseque eorum etiam sepulcra contemplor.Quare istum ubi tu es natus plus amabo posthac locum.Marcus:Gaudeo igitur me incunabula paene mea tibi ostendisse.
Attico:Io prendo per buono questo motivo, perché tu vieni qui più volentieri e prediligi questi posti; anzi, a dirti la verità, anch'io ora sono diventato più affezionato a quella villa e a tutta questa terra, in cui tu sei stato procreato e sei venuto alla luce. Noi infatti, non so perché, siamo commossi da quei luoghi, i quali conservano le tracce di coloro che amiamo o ammiriamo. Quella nostra stessa Atene ci allieta non tanto per le opere magnifiche e deliziose degli antichi quanto per il ricordo di grandissimi personaggi, e del luogo dove ciascuno era solito abitare, soffermarsi, discutere; con grande affetto io ne contemplo anche i sepolcri. Perciò d'ora in poi amerò ancora di più questo luogo dove sei nato.Marco:Sono lieto di averti mostrato quella che è quasi la mia culla.
Saepe etiam et in proeliis Fauni auditi et in rebus turbidis veridicae voces ex occulto missae esse dicuntur; cuius generis duo sint ex multis exempla, sed maxuma. Nam non multo ante urbem captam exaudita vox est a luco Vestae, qui a Palati radice in novam viam devexus est, ut muri et portae reficerentur; futurum esse, nisi provisum esset, ut Roma caperetur. Quod neglectum cum caveri poterat, post acceptam illam maximam cladem expiatum est; ara enim Aio Loquenti, quam saeptam videmus, exadversus eum locum consecrata est.Atque etiam scriptum a multis est, cum terrae motus factus esset ut sue plena procuratio fieret, vocem ab aede Iunonis ex arce exstitisse; quocirca Iunonem iram appellatam Monetam. Haec igitur et a dis significata et a nostris maioribus iudicata contemnimus?Neque solum deorum voces Pythagorei observitaverunt, sed etiam hominum, quae vocant omina. Quae maiores nostri quia valere censebant, idcirco omnibus rebus agendis "quod bonum, faustum, felix fortunatumque esset" praefabantur, rebusque divinis, quae publice fierent, ut "faverent linguis" imperabatur, inque feriis imperandis ut "litibus et iurgiis se abstinerent". Itemque in lustranda colonia ab eo qui eam deduceret, et cum imperator exercitum, censor populum lustraret, bonis nominibus qui hostias ducerent eligebantur. Quod idem in dilectu consules observant, ut primus miles fiat bono nomine. Quae quidem a te scis et consule et imperatore summa cum religione esse servata. Praerogativam etiam maiores omen iustorum comitiorum esse voluerunt.
Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e, nel corso di tumulti, parole che predicevano il vero, provenienti chissà da dove. Tra i molti esempi di questo genere, bastino due soli, ma di gran rilievo. Non molto prima che la città fosse presa dai Galli, si udì una voce proveniente dal bosco sacro a Vesta, che dai piedi del Palatino scende verso la Via Nuova: la voce ammoniva che si ricostruissero le mura e le porte; se non si provvedeva, Roma sarebbe stata presa dai nemici. Di questo ammonimento, che fu trascurato allora, quando si era in tempo a evitare il danno, fu fatta espiazione dopo quella terribile disfatta: dirimpetto a quel luogo, fu consacrato ad Aio Loquente un altare, che tuttora vediamo protetto da un recinto. L'altro esempio: molti hanno scritto che, dopo un terremoto, una voce proveniente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chiamata Moneta. Questi fatti, dunque, annunciati dagli dèi e sanzionati dai nostri antenati, li disprezziamo?Ma i pitagorici consideravano assiduamente non solo le voci degli dèi, ma anche quelle degli uomini, chiamate òmina. E siccome i nostri antenati ritenevano che esse avessero valore profetico, ogni volta che dovevano compiere un atto importante incominciavano col dire: "Sia questa cosa buona, fausta, felice e fortunata"; e nelle pubbliche cerimonie religiose si ordinava che i presenti "facessero silenzio", e, nel proclamare le ferie, che "si astenessero da liti e risse". Così pure, nel fondare con un rito di purificazione una colonia, colui che la fondava sceglieva, perché conducessero le vittime al sacrificio, persone dai nomi di buon augurio; e così faceva il comandante quando purificava l'esercito, il censore quando purificava il popolo. Alla stessa norma si attengono i consoli nella leva: che il primo soldato arruolato abbia un nome di buon augurio. Tu sai bene che, quando sei stato console e comandante militare, hai osservato queste norme con grande scrupolo. Anche riguardo alla centuria che votava per prima nei comizi, i nostri antenati ritennero che per il suo nome essa costituisse un buon auspicio di elezioni conformi alla legge.
Sed perge, Pomponi, de Caesare et redde quae restant. Solum quidem, inquit ille, et quasi fundamentum oratoris vides locutionem emendatam et Latinam, cuius penes quos laus adhuc fuit, non fuit rationis aut scientiae sed quasi bonae consuetudinis. mitto C. Laelium P. Scipionem: aetatis illius ista fuit laus tamquam innocentiae sic Latine loquendi—nec omnium tamen; nam illorum aequales Caecilium et Pacuvium male locutos videmus —: sed omnes tum fere, qui nec extra urbem hanc vixerant neque eos aliqua barbaries domestica infuscaverat, recte loquebantur.sed hanc certe rem deteriorem vetustas fecit et Romae et in Graecia. confluxerunt enim et Athenas et in hanc urbem multi inquinate loquentes ex diversis locis. quo magis expurgandus est sermo et adhibenda tamquam obrussa ratio, quae mutari non potest, nec utendum pravissima consuetudinis regula.
Ma continua, Pomponio, e dacci ciò che ancora ci devi. " "Tu vedi quale sia la base, e per dir così il fondamento dell'oratore: un'elocuzione corretta, e un buon latino; finora, quanti hanno posseduto questo pregio, l'hanno avuto in forza non di un metodo razionale o di un sapere teorico, ma di una sorta di buona consuetudine. Lascio da parte Gaio Lelio e Publio Scipione; il pregio di parlare un buon latino era caratteristico di quell'epoca altrettanto che quello dell'integrità morale - anche se non era di tutti: infatti vediamo che i loro contemporanei Cecilio e Pacuvio parlavano male -; ma allora parla vano in maniera corretta praticamente tutti quelli che non erano vissuti fuori di questa nostra città, e che entro le mura domestiche non erano stati macchiati da usi barbarici. Ma in questo campo, a Roma come in Grecia, la situazione si è sicuramente deteriorata con l'andar del tempo. In Atene, e nella nostra città, si è infatti riversata, da luoghi diversi, molta gente dal parlare inquinato. Una ragione di più per purgare la lingua: andrà usato, quasi fosse una pietra di paragone un criterio razionale, e pertanto immutabile; non si dovrà invece ricorrere alla pessima regola della consuetudine.
Tum Brutus: orationes quidem eius mihi vehementer probantur. compluris autem legi; atque etiam commentarios quosdam scripsit rerum suarum. Valde quidem, inquam, probandos; nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta. sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volent illa calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et inlustri brevitate dulcius.sed ad eos, si placet, qui vita excesserunt, revertamur.
Allora Bruto: "Le sue orazioni mi piaccio no davvero molto; e ne ho lette parecchie; ha anche scritto dei memoriali sulle sue imprese". "E sono proprio molto pregevoli" dissi. "Sono infatti nudi, con una naturalezza schietta e piena di grazia: spogliati, come di una veste, di ogni ornamentazione stilistica. Ma, volendo mettere a disposizione di altri i materiali cui potesse attingere chi intendesse scrivere storia, ha fatto forse cosa gradita agli sciocchi, che vorranno arricciarli col calamistro; ma le persone ragionevoli, le ha scoraggiate dallo scrivere di ciò: infatti nella storia non c'è niente di più gradevole di una concisione pura e luminosa. Ma, se vi va, torniamo ai defunti.
Galbam laudas. si ut illius aetatis principem, adsentior—sic enim accepimus —; sin ut oratorem, cedo quaeso orationes—sunt enim—et dic hunc, quem tu plus quam te amas, Brutum velle te illo modo dicere. probas Lepidi orationes. paulum hic tibi adsentior, modo ita laudes ut antiquas; quod item de Africano, de Laelio, cuius tu oratione negas fieri quicquam posse dulcius, addis etiam nescio quid augustius. nomine nos capis summi viri vitaeque elegantissumae verissimis laudibus.remove haec: ne ista dulcis oratio ita sit abiecta ut eam aspicere nemo velit.
Elogi Galba." Se come il più ragguardevole di quel tempo, sono d'accordo - così infatti è tradizione -; se invece come un vero oratore, scusa, prendi le sue orazioni - infatti ce ne sono - e dì' che vorresti che così parlasse questo qui, Bruto, che ti è più caro di te stesso. Apprezzi le orazioni di Lepido.! Qui sono un po' d'accordo con te, purché tu le elogi in quanto antiche; lo stesso vale per l'Africano e per Lelio, del cui stile, dici, non vi può esser niente di più gradevole, e aggiungi anche, non so bene, di più "augusto". Ci conquisti col nome di un grandissimo personaggio e con l'incontestabile prestigio di uno stile di vita quanto mai distinto. Metti da parte tutto questo: chissà che codesta gradevole eloquenza non sia così scialba, che nessuno abbia voglia di gettarle un'occhiata.
Atticus:Quid? Ad cetera quae scripsisti plura quam quisquam e nostris, quod tibi tandem tempus vacuum fuit concessum?Marcus:Subsiciva quaedam tempora incurrunt, quae ego perire non patior, ut si qui dies ad rusticandum dati sint, ad eorum numerum adcommodentur quae scribimus. Historia vero nec institui potest nisi praeparato otio, nec exiguo tempore absolvi, et ego animi pendere soleo, cum semel quid orsus, [si] traducor alio, neque tam facile interrupta contexo quam absolvo instituta.
Attico:Perché mai? Per tutto ciò che tu hai scritto in quantità maggiore in confronto a chiunque di noi, quale tempo libero ti fu concesso?Marco:A me capitano certi ritagli di tempo, che io non permetto che vada sprecato, in modo che se mi rimane libero qualche giorno per andare in campagna, lo sfrutto nello stendere ciò che ho abbozzato. Ma un'opera storica non si può incominciare senza un tempo libero ben determinato, né può essere portata a termine in breve tempo; inoltre normalmente io mi trovo a disagio se devo spostarmi ogni volta che abbia messo mano a qualche cosa, né così facilmente riprendo i lavori interrotti come invece riesco a condurre a termine senza interruzioni quelli già sviluppati.
Equidem angor animo non consili, non ingeni, non auctoritatis armis egere rem publicam, quae didiceram tractare quibusque me adsuefeceram quaeque erant propria cum praestantis in re publica viri tum bene moratae et bene constitutae civitatis. quod si fuit in re publica tempus ullum, cum extorquere arma posset e manibus iratorum civium boni civis auctoritas et oratio, tum profecto fuit, cum patrocinium pacis exclusum est aut errore hominum aut timore.
E io sono angosciato dal pensiero che lo stato non senta il bisogno delle armi della saggezza, dell'ingegno e dell'autorità, che avevo imparato a maneggiare, alle quali mi ero assuefatto, e che erano patrimonio di un uomo ragguardevole nella vita pubblica altrettanto che di una collettività ben regolata nei costumi e bene ordinata. Se mai vi fu nella nostra vicenda politica un momento in cui l'autorità e l'eloquenza di un buon cittadino potevano strappare le armi dalle mani di compatrioti caduti preda dell'ira, questo fu senza dubbio quando il patrocinio della pace venne impedito dall'abbaglio o dal timore di certuni.
Ut enim quisque sibi plurimum confidit et ut quisque maxime virtute et sapientia sic munitus est, ut nullo egeat suaque omnia in se ipso posita iudicet, ita in amicitiis expetendis colendisque maxime excellit. Quid enim? Africanus indigens mei? Minime hercule! ac ne ego quidem illius; sed ego admiratione quadam virtutis eius, ille vicissim opinione fortasse non nulla, quam de meis moribus habebat, me dilexit; auxit benevolentiam consuetudo. Sed quamquam utilitates multae et magnae consecutae sunt, non sunt tamen ab earum spe causae diligendi profectae.
Infatti quanto più uno ha fiducia in sé, quanto più è armato di virtù e di saggezza, in modo da non avere bisogno di nessuno e da considerare ogni suo bene un fatto interiore, tanto più eccelle nel cercare e nel coltivare le amicizie. Cosa? L'Africano aveva bisogno di me? Figuriamoci! E nemmeno io avevo bisogno di lui! Ma gli ho voluto bene perché ammiravo molto il suo valore, e lui, a sua volta, perché aveva una certa considerazione della mia persona. La confidenza accrebbe il nostro affetto. È vero, ne conseguirono molti e grandi vantaggi, ma la speranza di ottenerli non fu il presupposto del nostro attaccamento.
Sed ex tota hac laude Reguli unum illud est admiratione dignum, quod captivos retinendos censuit. Nam quod rediit, nobis nunc mirabile videtur, illis quidem temporibus aliter facere non potuit. Itaque ista laus non est hominis, sed temporum. Nullum enim vinculum ad astringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt. Id indicant leges in duodecim tabulis, indicant sacratae, indicant foedera, quibus etiam cum hoste devincitur fides, indicant notiones animadversionesque censorum, qui nulla de re diligentius quam de iure iurando iudicabant.
Ma in tutto questo glorioso comportamento di Regolo un atto è specialmente degno di ammirazione, il fatto che egli propose di trattenere i prigionieri. L'esser tornato, difatti, sembra a noi straordinario adesso, ma in quei tempi non avrebbe potuto comportarsi diversamente; di conseguenza questa è una lode che va rivolta non all'uomo, ma ai tempi: i nostri antenati vollero che nessun vincolo fosse più saldo del giuramento per impegnare a rispettare la parola data. Lo indicano le leggi delle dodici tavole, le leggi esecratorie, lo indicano i trattati, con i quali s'impegna la parola anche con i nemici, lo indicano le ammonizioni e i rimproveri dei censori, che non giudicavano con maggiore scrupolo alcuna colpa come quelle riguardanti il giuramento.
Sed quoniam a quattuor fontibus honestatis primo libro officia duximus, in eisdem versemur, cum docebimus, ea, quae videantur esse utilia neque sint, quam sint virtutis inimica. Ac de prudentia quidem, quam vult imitari malitia, itemque de iustitia, quae semper est utilis, disputatum est. Reliquae sunt duae partes honestatis quarum altera in animi excellentis magnitudine et praestantia cernitur, altera in conformatione et moderatione continentiae et temperantiae.
Ma poiché nel primo libro abbiamo derivato i doveri dalle quattro fonti dell'onesto, dobbiamo attenerci ad essi nel dimostrare quanto siano nemiche della virtù quelle azioni che sembrano utili ma non lo sono. Si è parlato pure della prudenza, che la malizia vorrebbe imitare, e ugualmente della giustizia, che è sempre utile. Restano due specie di onestà, delle quali la prima si manifesta nella grandezza e nella nobiltà di un animo sommo, la seconda nella disposizione giusta e moderata della continenza e della temperanza.
C. Curionem te, inquit Brutus, et C. Licinium Calvum arbitror dicere. Recte, inquam, arbitraris; quorum quidem alter [quod verisimile dixisset] ita facile soluteque verbis volvebat satis interdum acutas, crebras quidem certe sententias, ut nihil posset ornatius esse, nihil expeditius. atque hic parum a magistris institutus naturam habuit admirabilem ad dicendum; industriam non sum expertus, studium certe fuit. qui si me audire voluisset, ut coeperat, honores quam opes consequi maluisset.Quidnam est, inquit, istuc? et quem ad modum distinguis?
"Penso" fece Bruto "che tu voglia dire Gaio Curione e Gaio Licínio Calvo." "Pensi bene;" dissi; "al primo, le idee talora notevolmente fini, e comunque senz'altro abbondanti, fluivano di bocca in parole di tale facilità e scioltezza, che niente poteva esserci di più elegante e di più spedito. Con una ben scarsa formazione di scuola, aveva uno straordinario talento naturale per l'eloquenza; della sua attività non ho esperienza diretta; impegno e passione ne ebbe senz'altro. Se avesse voluto darmi ascolto, come aveva incominciato a fare, avrebbe mirato agli onori delle magistrature piuttosto che alla potenza." "Che vuol dire questo?" fece. "E come fai questa distinzione?".
Efficiendum autem est, ut appetitus rationi oboediant eamque neque praecurrant nec propter pigritiam aut ignaviam deserant sintque tranquilli atque omni animi perturbatione careant; ex quo elucebit omnis constantia omnisque moderatio. nam qui appetitus longius evagantur et tamquam exultantes sive cupiendo sive fugiendo non satis a ratione retinentur, ii sine dubio finem et modum transeunt. relinquunt enim et abiciunt oboedientiam nec rationi parent, cui sunt subiecti lege naturae; a quibus non modo animi perturbantur, sed etiam corpora.licet ora ipsa cernere iratorum aut eorum, qui aut libidine aliqua aut metu commoti sunt aut voluptate nimia gestiunt; quorum omnium vultus, voces, motus statusque mutantur.
Anzitutto bisogna fare in modo che gl'istinti obbediscano alla ragione: senza precederla né lasciarla da parte per pigrizia o per viltà, ma se ne stiano tranquilli, liberi e franchi da ogni turbamento. Per tal modo risplenderanno in tutta la loro luce la fermezza e la temperanza. Difatti, quegli istinti che vanno fuor di strada e, come cavalli imbizzarriti per eccesso di bramosia o di paura, non son tenuti abbastanza a freno dalla ragione, oltrepassano senza dubbio il limite e la misura: abbandonano e rifiutano l'obbedienza, ribellandosi alla ragione, a cui son pure sottoposti per legge di natura; sì che questi sfrenati istinti turbano non solo l'animo, ma anche il corpo. Basta osservare l'aspetto degli uomini adirati, o di quelli che sono sconvolti da qualche passione o da qualche timore, o di quelli che si esaltano per l'eccessiva gioia: tutto in loro si muta, il volto, la voce, l'andare, il modo di stare fermi.
Potest autem ulli imperio, quod gloria debet fultum esse et benevolentia sociorum, utile esse odium et infamia? Ego etiam cum Catone meo saepe dissensi. Nimis mihi praefracte videbatur aerarium vectigaliaque defendere, omnia publicanis negare, multa sociis, cum in hos benefici esse deberemus, cum illis sic agere, ut cum colonis nostris soleremus, eoque magis, quod illa ordinum coniunctio ad salutem rei publicae pertinebat. Male etiam Curio, cum causam Transpadanorum aequam esse dicebat, semper autem addebat "vincat utilitas".Potius doceret non esse aequam, quia non esset utilis rei publicae, quam cum utilem diceret non esse, aequam fateretur.
È possibile che ad un impero, che deve fondarsi sulla gloria e sulla simpatia degli alleati, siano utili l'odio e l'infamia? Io mi sono trovato spesso in disaccordo anche col mio amico Catone; mi sembrava che sostenesse con troppa intransigenza gli interessi dell'erario e del bilancio, e che negasse tutto ai pubblicani, molto agli alleati, mentre verso questi dovevano essere benefici, verso quelli comportarci come eravamo soliti fare con i nostri coloni, tanto più perché quella concordia di classi interessava la salute dello Stato. Si comportava male anche Curione, quando diceva che la causa dei Transpadani era giusta, ma aggiungeva sempre: "Vinca l'utilità". Piuttosto egli avrebbe dovuto dimostrare che non era giusta, perché non era utile allo Stato, anziché riconoscere che era giusta, mentre diceva che non era utile.
Tullius Terentiae suae sal.Si vales, bene est, ego valeo. Valetudinem tuam velim cures diligentissime; nam mihi et scriptum et nuntiatum est te in febrim subito incidisse. Quod celeriter me fecisti de Caesaris litteris certiorem, fecisti mihi gratum. Item posthac, si quid opus erit, si quid acciderit novi, facies, ut sciam. Cura, ut valeas. Vale. D. IIII Non. Iun.
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia.Se tu stai bene, me ne compiaccio, sto bene. Vorrei che tu curassi la tua salute nel modo più scrupoloso. Infatti sono stato avvertito per lettera che tu all'improvviso ti sei buscata la febbre. Per il fatto che mi hai informato delle lettere di Cesare, mi hai fatto cosa gradita. Allo stesso modo comportati d'ora in poi, se ci sarà bisogno di qualcosa: se ci sarà qualche novità, troverai il modo di informarmi. Stammi bene. Consegnata il 2 giugno.
Causa igitur largitionis est, si aut necesse est aut utile. In his autem ipsis mediocritatis regula optima est. L. Quidem Philippus, Q. F., magno vir ingenio inprimisque clarus, gloriari solebat se sine ullo munere adeptum esse omnia, quae haberentur amplissima. Dicebat idem Cotta, Curio. Nobis quoque licet in hoc quodam modo gloriari; nam pro amplitudine honorum, quos cunctis suffragiis adepti sumus nostro quidem anno, quod contigit eorum nemini, quos modo nominavi, sane exiguus sumptus aedilitatis fuit.
Il motivo dell'elargizione è la necessità o l'utilità. Anche nei riguardi di esse la regola migliore è quella del giusto mezzo. Lucio Filippo, figlio di Quinto, uomo di grande ingegno e famoso sopra tutti, soleva vantarsi di aver conseguito tutte quelle cariche che sono ritenute le più importanti senza alcuna elargizione; lo stesso affermava Cotta e cosi Curione. Anch'io potrei vantarmi in qualche modo di questo; infatti in rapporti all'importanza delle cariche che ottenni con pieno suffragio, proprio nell'anno consentito dalla legge per me (il che non toccò a nessuno di quelli che ho or ora citato), fu abbastanza esigua la spesa per l'edilità.
Sed iam ad te venio,"o sancte Apollo, qui umbilicum certum terrarum obsides,unde superstitiosa primum saeva evasit vox fera."Tuis enim oraclis Chrysippus totum volumen implevit partim falsis, ut ego opinor, partim casu veris, ut fit in omni oratione saepissime, partim flexiloquis et obscuris, ut interpres egeat interprete et sors ipsa ad sortes reverenda sit, partim ambiguis et quae ad dialecticum deferenda sint. Nam cum illa sors edita est opulentissumo regi Asiae:"Croesus Halyn penetrans magnam pervertet opum vim"hostium vim se perversurum putavit, pervertit autem suam: utrum igitur eorum accidisset, verum oraclum fuisset.Cur autem hoc credam umquam editum Croeso? Aut Herodotum cur veraciorem ducam Ennio? Num minus ille potuit de Croeso quam de Pyrrho fingere Ennius? Quis enim est, qui credat Apollinis ex oraclo Pyrrho esse responsum:"aiio te, Aeacida, Romanos vincere posse"?Primum latine Apollo numquam locutus est; deinde ista sors inaudita Graecis est; praeterea Pyrrhi temporibus iam Apollo versus facere desierat; postremo, quamquam semper fuit, ut apud Ennium est,"stolidum genus Aeacidarum- bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes -",tamen hanc amphiboliam versus intellegere potuisset, "vincere te Romanos" nihilo magis in se quam in Romanos valere; nam illa amphibolia, quae Croesum decepit, vel Chrysippum potuisset fallere, haec vero ne Epicurum quidem.
Ma eccomi giunto a te,"O venerando Apollo, che occupi il vero ombelico del mondo, donde primamente uscì la profetica voce orrida, terribile."Dei tuoi oracoli Crisippo ha riempito un intero libro: alcuni falsi, a mio parere, altri avveratisi per caso, come spessissimo avviene in qualsiasi discorso, altri tortuosi e oscuri (cosicché l'interprete ha, a sua volta, bisogno di un interprete, e la sorte stessa va indagata ricorrendo alle sorti), altri ancora a doppio senso e bisognosi dell'indagine di un dialettico. Quando fu dato quel famoso responso al più ricco dei re d'Asia:"Creso attraversando l'Halys manderà in rovina una grande potenza"egli credette che avrebbe mandato in rovina la potenza dei nemici, mandò invece in rovina la propria: si fosse verificata l'una o l'altra delle due possibilità, l'oracolo sarebbe egualmente apparso vero. Perché, d'altra parte, dovrei credere che Creso abbia mai ricevuto realmente questo responso? O perché dovrei considerare Erodoto più verace di Ennio? Erodoto non poté forse essere stato meno fantasioso a proposito di Creso di quanto lo fu Ennio a proposito di Pirro? Chi è disposto a credere che Pirro ricevé dall'oracolo di Apollo il responso:"Dico te, Eacide, poter vincere i romani"?Innanzi tutto, Apollo non parlò mai in latino; poi, di questo responso gli autori greci non sanno nulla; inoltre, al tempo di Pirro Apollo aveva già smesso di far versi; e infine, sebbene sia sempre stata, come Ennio dice,"Stolta la stirpe degli Eacidi - son potenti in guerra più che nella saggezza -",tuttavia Pirro avrebbe potuto capire che il doppio senso contenuto in quel verso, "te vincere i romani", non era per nulla più favorevole a lui che ai romani. Ché quel doppio senso che ingannò Creso avrebbe potuto ingannare anche un Crisippo, ma questo, relativo a Pirro, non avrebbe ingannato neanche Epicuro.
Quibus de rebus et alias saepe et paulo accuratius nuper, cum essem cum Q. fratre in Tusculano, disputatum est. Nam cum ambulandi causa in Lyceum venissemus (id enim superiori gymnasio nomen est), "Perlegi," ille inquit, "tuum paulo ante tertium de natura deorum, in quo disputatio Cottae quamquam labefactavit sententiam meam, non funditus tamen sustulit." "Optime vero," inquam; "etenim ipse Cotta sic disputata ut Stoicorum magis argumenta confutet quam hominum deleat religionem." Tum Quintus: "Dicitur quidem istuc," inquit, "a Cotta, et vero saepius, credo, ne communia iura migrare videatur; sed studio contra Stoicos disserendi deos mihi videtur funditus tollere.Eius orationi non sane desidero quid respondeam; satis enim defensa religio est in secundo libro a Lucilio, cuius disputatio tibi ipsi, ut in extremo tertio scribis, ad veritatem est visa propensior. Sed, quod praetermissum est in illis libris (credo, quia commodius arbitratus es separatim id quaeri deque eo disseri), id est de divinatione, quae est earum rerum quae fortuitae putantur praedictio atque praesensio, id, si placet, videamus quam habeat vim et quale sit. Ego enim sic existimo, si sint ea genera divinandi vera de quibus accepimus quaeque colimus, esse deos, vicissimque, si di sint, esse qui divinent."
Di questi problemi ho discusso spesso, ma con particolare impegno recentemente, quando mi trovavo con mio fratello Quinto nella mia villa di Tusculo. Eravamo saliti al Liceo per passeggiare (così son solito chiamare il piano superiore del ginnasio). Egli mi disse: "Ho letto per intero, poco tempo addietro, il terzo libro del tuo Sulla natura degli dèi, nel quale la polemica che tu fai pronunciare a Cotta ha scosso la mia opinione, non l'ha tuttavia completamente annientata." "Giustissimo," risposi; "in verità Cotta svolge la sua discussione in modo da confutare gli argomenti degli stoici, senza per questo distruggere la religione degli uomini." E Quinto: "Cotta lo dichiara, anzi lo ripete più volte, allo scopo, credo, di non esser preso per un trasgressore dei principii comuni a tutti; ma a me sembra che, per troppo zelo di polemizzare contro gli stoici, finisca col negare completamente gli dèi. Beninteso, non sento il bisogno di replicare al suo discorso: la religione è già stata difesa a sufficienza nel secondo libro da Lucilio Balbo, la cui trattazione tu stesso consideri più vicina alla verità, come dichiari alla fine del terzo libro. Ma c'è un argomento che è stato tralasciato in quei tre libri, perché, suppongo, hai ritenuto che fosse più opportuno indagarlo e discuterne a parte: la divinazione, cioè la predizione e il presentimento di quelle cose che si considerano effetto del caso. Se sei d'accordo, vediamo quale potere essa abbia e quale natura. Io sono di questa opinione: se sono veritieri quei generi di divinazione che ci sono stati tramandati e che pratichiamo, allora gli dèi esistono; e se, a loro volta, gli dèi esistono, vi sono persone capaci di predire il futuro."
Atticus:Age iam ista video fateorque esse magna. Sed est in conlegio vestro inter Marcellum et Appium optimos augures magna dissensio - nam eorum ego in libros incidi -, cum alteri placeat auspicia ista ad utilitatem esse rei publicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinari videatur posse. Hac tu de re quaero quid sentias.Marcus:Egone? Divinationem, quam Graeci mavtikev appellant, esse sentio, et huius hanc ipsam partem quae est in avibus ceterisque signis <quod> disciplinae nostrae.Si enim deos esse concedimus, eorumque mente mundum regi, et eosdem hominum consulere generi, et posse nobis signa rerum futurarum ostendere, non video cur esse divinationem negem.
Attico:Sì, osservo e ammetto che tutto ciò è importante; ma esiste un grave dissenso nel vostro collegio tra gli àuguri migliori, Marcello ed Appio - infatti anch'io mi sono imbattuto nei loro libri -, sostenendo l'uno che gli auspici furono studiati per vantaggio dello Stato, mentre all'altro sembra che con la vostra scienza si possa quasi aver la conoscenza del futuro. Ti prego di esprimere il tuo pensiero su tale questione.Marco:Io? Personalmente ritengo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano "mantica", ed in particolare quella sua parte che riguarda i presagi degli uccelli e quegli altri segni che fanno parte della nostra scienza. Se ammettiamo infatti che esistano gli dèi, e che il mondo sia governato dal loro intelletto, e che essi stessi provvedano al genere umano e abbiano il potere di mostrarci i presagi degli eventi futuri, non vedo perché dovrei negare l'esistenza della divinazione.
Nullum igitur habes, Caesar, adhuc in Q. Ligario signum alienae a te voluntatis; cuius ego causam animadverte, quaeso, qua fide defendam; prodo meam. O clementiam admirabilem atque omnium laude, praedicatione, litteris monumentisque decorandam! M. Cicero apud te defendit alium in ea voluntate non fuisse in qua se ipsum confitetur fuisse, nec tuas tacitas cogitationes extimescit, nec quid tibi de alio audienti de se occurrat, reformidat. Vide quam non reformidem, quanta lux liberalitatis et sapientiae tuae mihi apud te dicenti oboriatur.Quantum potero, voce contendam, ut hoc populus Romanus exaudiat.
Nessun segno, dunque, tu puoi cogliere sinora, o Cesare, nella condotta di Quinto Ligario, che riveli in lui un animo a te contrario; osserva, ti prego, con quanta fiducia io sto sostenendo la sua causa mettendo a repentaglio la mia. 0 clemenza degna d'essere ammirata e segnalata dai ripetuti elogi di tutti, negli scritti e nei monumenti! Marco Cicerone sostiene alla tua presenza che un altro non ha nutrito verso di te quei sentimenti ch 'egli stesso riconosce di avere nutriti, non paventa i tuoi pensieri segreti, né teme che cosa ti venga in mente di pensare di lui, mentre lo senti parlare in difesa di un altro.
Hac igitur fortuna frui licet senibus, nec aetas impedit, quo minus et ceterarum rerum et in primis agri colendi studia teneamus usque ad ultimum tempus senectutis. M. quidem Valerium Corvinum accepimus ad centesimum annum perduxise, cum esset acta iam aetate in agris eosque coleret; cuius inter primum et sextum consulatum sex et quadraginta anni interfuerunt. Ita, quantum spatium aetatis maiores ad senectutis initium esse voluerunt, tantus illi cursus honorum fuit; atque huius extrema aetas hoc beatior quam media, quod auctoritatis habebat plus, laboris minus; apex est autem senectutis auctoritas.
Questa è dunque la fortuna di cui possono godere i vecchi; l'età non ci impedisce di conservare sino all'ultima ora della vecchiaia il gusto di svolgere altre attività e soprattutto l'agricoltura. Sappiamo che Marco Valerio Corvino continuò a occuparsene sino a cento anni vivendo nei campi e coltivandoli in età già avanzata; tra il suo primo e il suo sesto consolato trascorsero quarantasei anni; così, tutto lo spazio di tempo fissato dai nostri antenati per raggiungere l'inizio della vecchiaia fu da lui impiegato nella carriera politica; e l'ultimo periodo della sua esistenza fu più felice di quello di mezzo perché maggiore era la sua autorità, ma minori gli impegni gravosi. Il coronamento della vecchiaia è proprio l'autorità.
Sunt autem quaedam officia etiam adversus eos servanda, a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et puniendi modus; atque haud scio an satis sit eum, qui lacessierit iniuriae suae paenitere, ut et ipse ne quid tale posthac et ceteri sint ad iniuriam tardiores. Atque in re publica maxime conservanda sunt iura belli. Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore.
Vi sono poi certi doveri che bisogna osservare anche nei confronti di coloro che ci hanno offeso. C'è una misura anche nella vendetta e nel castigo; anzi, io non so se non basti che il provocatore si penta della sua offesa, perché egli non ricada mai più in simile colpa, e gli altri siano meno pronti all'offesa. Ma soprattutto nei rapporti fra Stato e Stato si debbono osservare le leggi di guerra. In verità, ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell'uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può avvalere della prima.
Quamquam quid loquor? te ut ulla res frangat, tu ut umquam te corrigas, tu ut ullam fugam meditere, tu ut ullum exilium cogites? Utinam tibi istam mentem di inmortales duint! tametsi video, si mea voce perterritus ire in exilium animum induxeris quanta tempestas invidiae nobis, si minus in praesens tempus recenti memoria scelerum tuorum, at in posteritatem impendeat. Sed est tanti, dum modo ista sit privata calamitas et a rei publicae periculis seiungatur.Sed tu ut vitiis tuis commoveare, ut legum poenas pertimescas, ut temporibus rei publicae cedas, non est postulandum. Neque enim is es, Catilina, ut te aut pudor umquam a turpitudine aut metus a periculo aut ratio a furore revocarit.
Ma a che servono le mie parole? A piegarti, in qualche modo? A farti ricredere? A indurti a preparare la fuga, a pensare all'esilio? Potessero gli dèi immortali ispirarti tali propositi! Ma non mi illudo: se tu decidessi di andare in esilio spaventato dal mio discorso, una tremenda tempesta di impopolarità si abbatterebbe su di me, se non subito, essendo vivo il ricordo dei tuoi crimini, certamente in futuro! Ma è il prezzo da pagare, purché tale calamità ricada su me solo e non comporti pericoli per lo Stato. Non è il caso di chiederti di provar rimorso per i tuoi vizi, di temere le pene previste dalla legge, di avere dei ripensamenti di fronte alle difficoltà in cui versa lo Stato. Non sei infatti il tipo, Catilina, da astenerti dall'infamia per pudore, dal pericolo per paura, dalla follia per ragionevolezza.
Quid autem stultius quam, cum plurimum copiis, facultatibus, opibus possint, cetera parare, quae parantur pecunia, equos, famulos, vestem egregiam, vasa pretiosa, amicos non parare, optimam et pulcherrimam vitae, ut ita dicam, supellectilem? etenim cetera cum parant, cui parent, nesciunt, nec cuius causa laborent (eius enim est istorum quidque, qui vicit viribus), amicitiarum sua cuique permanet stabilis et certa possessio; ut, etiamsi illa maneant, quae sunt quasi dona Fortunae, tamen vita inculta et deserta ab amicis non possit esse iucunda.Sed haec hactenus.
Ma la vera follia, quando dispongono di ricchezze, possibilità e prestigio, è che si procurano tutto ciò che il denaro può offrire - cavalli, servi, vestiti di lusso, vasi preziosi -, ma non gli amici, il migliore, per così dire il più prezioso corredo della vita. Quando acquistano tutti quei beni, non sanno né per chi li comprano, né per chi si danno tanto da fare. Sono oggetti, infatti, che appartengono al più forte, mentre il possesso dell'amicizia è in ogni uomo stabile e sicuro. Di conseguenza, anche se conservassero quei beni, che sono come doni della Fortuna, una vita di solitudine, priva di amicizie non potrebbe dar la felicità. Ma sull'argomento ho detto abbastanza.
Omnino est amans sui virtus; optime enim se ipsa novit, quamque amabilis sit, intellegit. Ego autem non de virtute nunc loquor sed de virtutis opinione. Virtute enim ipsa non tam multi praediti esse quam videri volunt. Hos delectat assentatio, his fictus ad ipsorum voluntatem sermo cum adhibetur, orationem illam vanam testimonium esse laudum suarum putant. Nulla est igitur haec amicitia, cum alter verum audire non vult, alter ad mentiendum paratus est.Nec parasitorum in comoediis assentatio faceta nobis videretur, nisi essent milites gloriosi.Magnas vero agere gratias Thais mihi?Satis erat respondere: 'magnas'; 'ingentes' inquit. Semper auget assentator id, quod is cuius ad voluntatem dicitur vult esse magnum.
Certo, la virtù ama se stessa: si conosce alla perfezione e sa quanto sia amabile. Però, non mi sto riferendo alla virtù, ma all'apparenza di virtù. La maggior parte degli uomini, infatti, preferisce l'apparenza di virtù al reale possesso della stessa. E sono loro a compiacersi dell'adulazione: quando ci si rivolge a queste persone con parole dette ad arte per rispondere alle loro aspettative, vedono in quel vano discorso un'attestazione dei loro meriti. Perciò non esiste amicizia tra due uomini quando uno non vuole sentire il vero e l'altro è pronto a mentire. L'adulazione dei parassiti non risulterebbe comica, nelle commedie, se non ci fossero i soldati fanfaroni:Davvero Taide mi manda mille grazie?Bastava rispondere: «Sì, mille grazie.» Invece dice: «Milioni di grazie!». L'adulatore aumenta sempre, per compiacere, quei «molto» che l'altro vuol sentirsi dire.
Utrum igitur utilius vel Fabricio, qui talis in hac urbe qualis Aristides Athenis fuit, vel senatui nostro qui numquam utilitatem a dignitate seiunxit, armis cum hoste certare an venenis? Si gloriae causa imperium expetundum est, scelus absit, in quo non potest esse gloria; sin ipsae opes expetuntur quoquo modo, non poterunt utiles esse cum infamia. Non igitur utilis illa L. Philippi Q. f. sententia, quas civitates L. Sulla pecunia accepta ex senatus consulto liberavisset, ut eae rursus vectigales essent, neque iis pecuniam, quam pro libertate dederant, redderemus.Ei senatus est assensus. Turpe imperio! Piratarum enim melior fides quam senatus. 'At aucta vectigalia, utile igitur.' Quousque audebunt dicere quicquam utile, quod non honestum?
Sarebbe stato più utile, dunque, sia per Fabrizio, che in questa città fu come Aristide in Atene, sia per il nostro senato, che non disgiunse mai l'utilità della dignità, combattere il nemico con le armi o col veleno? Se si deve mirare alla supremazia per la gloria, si bandisca il delitto, in cui non può esistere gloria; se si mira alla potenza in qualunque modo, non potrà giovare, se sarà unita all'infamia. Non fu, dunque, utile il provvedimento di Lucio Filippo, figlio di Quinto, in base al quale le città che Lucio Silla, per decreto del senato, aveva esentato dal tributo dietro pagamento di una somma di denaro, diventavano di nuovo tributarie, senza che venisse restituito loro il denaro versato per l'esenzione. Il senato diede il suo consenso: vergogna per il nostro governo! Vale più la parola dei pirati di quella del senato. "Ma si aumentarono le entrate; quindi il provvedimento fu utile". Fino a quando oseranno dire che qualche cosa è utile, senza essere onesta?
Ex quo genere comparationis illud est Catonis senis: a quo cum quaereretur, quid maxime in re familiari expediret, respondit: "Bene pascere"; quid secundum: "Satis bene pascere"; quid tertium: "Male pascere"; quid quartum "Arare"; et cum ille, qui quaesierat, dixisset: "Quid faenerari?", tum Cato: "Quid hominem," inquit, "occidere?" Ex quo et multis aliis intellegi debet utilitatum comparationes fieri solere recteque hoc adiunctum esse exquirendorum officiorum genus.
A questo genere di raffronto appartiene quel detto di Catone il vecchio: essendogli stato chiesto che cosa giovasse massimamente al patrimonio, rispose: "Allevare bene il bestiame"; e che cosa, in secondo luogo: "Allevarlo sufficientemente bene"; e che cosa, in terzo luogo: "Allevarlo male"; che cosa, in quarto luogo: "Arare". E avendogli detto l'interrogante: "E che, del dare ad usura?" allora Catone rispose: "E che dell'uccidere un uomo?". Da questo e da molti altri esempi si deve capire che i paragoni tra le cose utili si fanno comunemente, e che opportunamente è stato aggiunto questo quarto tipo di indagine sui doveri.
T. Flamininum, qui cum Q. Metello consul fuit, pueri vidimus: existumabatur bene Latine, sed litteras nesciebat. Catulus erat ille quidem minime indoctus, ut a te paulo est ante dictum, sed tamen suavitas vocis et lenis appellatio litterarum bene loquendi famam confecerat. Cotta, qui se valde dilatandis litteris a similitudine Graecae locutionis abstraxerat sonabatque contrarium Catulo, subagreste quiddam planeque subrusticum, alia quidem quasi inculta et silvestri via ad eandem laudem pervenerat.Sisenna autem quasi emendator sermonis usitati cum esse vellet, ne a C. Rusio quidem accusatore deterreri potuit quominus inusitatis verbis uteretur.
Quando eravamo ragazzi, abbiamo visto Tito Flaminino, che fu console insieme a Quinto Metello; aveva fama di parlare un bel latino, ma era ignaro di lettere. Catulo, lui non era per niente privo di cultura, come è stato detto da te poco fa, ma tuttavia erano state la voce gradevole e la dolce pronuncia a procurargli la fama di parlare bene. Cotta aveva voluto discostarsi dalla somiglianza con la parlata greca allargando parecchio la pronuncia, e aveva un accento opposto a quel lo di Catulo, con un qualcosa dì campagnolo e di francamente contadinesco: era arrivato per un'altra via, come incolta e silvestre, a godere della stessa reputazione. Sisenna, poi, voleva essere quasi il riformatore della lingua usuale, e nemmeno dall'accusatore Gaio Rusio si lasciò scoraggiare dall'impiegare parole inusitate."
Est mihi tanti, Quirites, huius invidiae falsae atque iniquae tempestatem subire, dum modo a vobis huius horribilis belli ac nefarii periculum depellatur. Dicatur sane eiectus esse a me, dum modo eat in exilium. Sed, mihi credite, non est iturus. Numquam ego ab dis inmortalibus optabo, Quirites, invidiae meae levandae causa, ut L. Catilinam ducere exercitum hostium atque in armis volitare audiatis, sed triduo tamen audietis; multoque magis illud timeo, ne mihi sit invidiosum aliquando, quod illum emiserim potius quam quod eiecerim.Sed cum sint homines, qui illum, cum profectus sit, eiectum esse dicant, idem, si interfectus esset, quid dicerent?
Eppure, Quiriti, credo che valga la pena di subire la tempesta di un'impopolarità falsa e ingiusta, purché sia allontanato da voi il pericolo di una guerra orribile e sacrilega. Si dica pure che sono stato io a scacciarlo, purché vada in esilio. Ma, credetemi, non ci andrà. Quiriti, non chiederò mai agli dèi immortali, per liberarmi dall'impopolarità, che voi veniate a sapere che Lucio Catilina è alla testa dell'esercito nemico e si aggira armato. Eppure nell'arco di tre giorni vi giungerà questa notizia. Una cosa, tuttavia, temo molto di più: di incontrare un giorno lo sfavore pubblico perché ho permesso che partisse, non perché l'ho esiliato. Ma se c'è gente capace di dire che io l'ho bandito, mentre è partito liberamente, cosa direbbe se fosse stato ucciso?
Ita enim senectus honesta est, si se ipsa defendit, si ius suum retinet, si nemini emancipata est, si usque ad ultimum spiritum dominatur in suos. Ut enim adulescentem in quo est senile aliquid, sic senem in quo est aliquid adulescentis probo; quod qui sequitur, corpore senex esse poterit, animo numquam erit. Septimus mihi liber Originum est in manibus; omnia antiquitatis monumenta colligo; causarum inlustrium quascumque defendi nunc cum maxime conficio orationes; ius augurium, pontificium, civile tracto; multum etiam Graecis litteris utor, Pythagoreorumque more exercendae memoriae gratia, quid quoque die dixerim, audierim, egerim, commemoro vesperi.Hae sunt exercitationes ingeni, haec curricula mentis, in his desudans atque elaborans corporis vires non magno opere desidero. Adsum amicis, venio in senatum frequens ultroque adfero res multum et diu cogitatas, easque tueor animi, non corporis viribus. Quas si exsequi nequirem, tamen me lectulus meus oblectaret ea ipsa cogitantem, quae iam agere non possem; sed ut possim, facit acta vita. Semper enim in his studiis laboribusque viventi non intellegitur quando obrepat senectus. Ita sensim sine sensu aetas senescit nec subito frangitur, sed diuturnitate exstinguitur.
La vecchiaia è infatti rispettata soltanto se sa difendersi da sola, se mantiene inalterati i propri diritti, se non si rende schiava di nessuno, se sino all'ultimo respiro esercita il dominio sui suoi. Come infatti approvo il giovane in cui ci sia qualcosa di senile, così il vecchio in cui ci sia qualcosa di giovanile; chi si attiene a tale norma potrà essere vecchio di corpo, ma non lo sarà mai di spirito. Sto lavorando al settimo libro delle Origini, sto raccogliendo tutti i documenti storici e proprio ora do l'ultimo ritocco alle orazioni di tutte le cause famose che ho difeso, mi occupo di diritto augurale, pontificale e civile, dedico molto tempo anche alle lettere greche e, come i Pitagorici, per esercitare la memoria, ricordo di sera ciò che ho detto, ascoltato, fatto ogni giorno. Questi sono gli esercizi dell'intelligenza, questa la palestra della mente, in questi sudo e mi sforzo senza sentire una grande mancanza del vigore fisico. Assisto gli amici, vado spesso in senato, di mia iniziativa vi porto idee meditate a fondo e a lungo e le difendo con le forze dell'animo, non del corpo. Se non riuscissi ad adempiere a tutto ciò, troverei ugualmente conforto nel mio caro divano dove farei rivivere con il pensiero quelle attività per me non più accessibili; ma a renderle accessibili contribuisce la mia vita passata: chi infatti dedica tutta l'esistenza a studi e a fatiche di questo genere, non avverte l'insinuarsi della vecchiaia. Così, a poco a poco e senza farsene accorgere, la vita invecchia, non si interrompe di colpo, ma si spegne col tempo.