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Est enim in nobis is animus, Quirites, ut non modo nullius audaciae cedamus, sed etiam omnis in probos ultro semper lacessamus. Quodsi omnis impetus domesticorum hostium depulsus a vobis se in me unum convorterit, vobis erit videndum, Quirites, qua condicione posthac eos esse velitis, qui se pro salute vestra obtulerint invidiae periculisque omnibus; mihi quidem ipsi quid est quod iam ad vitae fructum possit adquiri, cum praesertim neque in honore vestro neque in gloria virtutis quicquam videam altius, quo mihi lubeat ascendere? | Non sono abituato a cedere di fronte alla temerarietà di nessuno, Quiriti: al contrario sono io che sfido incessantemente chiunque sia colpevole. E se l'attacco dei nemici interni, che ho stornato da voi, dovesse ricadere su me solo, starà a voi, Quiriti, decidere quale sorte volete riservare a chi si è esposto all'impopolarità e a pericoli di ogni sorta per la vostra salvezza. Quanto a me, quali vantaggi potrei ancora conseguire se nelle cariche pubbliche, che siete voi a concedere, e nella gloria, che dipende dal merito personale, non c'è nulla di più alto cui io possa aspirare? |
Nam illud mirarer, si crederem, quod apud Homerum Calchantem dixisti ex passerum numero belli Troiani annos auguratum; de quoius coniectura sic apud Homerum, ut nos otiosi convertimus, loquitur Agamemnon:"Ferte, viri, et duros animo tolerate labores,auguris ut nostri Calchantis fata queamusscire ratosne habeant an vanos pectoris orsus.Namque omnes memori portentum mente retentant,qui non funestis liquerunt lumina fatis.Argolicis primum ut vestita est classibus Aulisquae Priamo cladem et Troiae pestemque ferebant,nos circum latices gelidos, fumantibus aris,aurigeris divom placantes numina taurissub platano umbrifera, fons unde emanat aquai,vidimus immani specie tortuque draconemterribilem, Iovis ut pulsu penetraret ab ara;qui platani in ramo foliorum tegmine saeptoscorripuit pullos; quos cum consumeret octo,nona super tremulo genetrix clangore volabat;cui ferus immani laniavit viscera morsu.Hunc, ubi tam teneros volucris matremque peremit,qui luci ediderat, genitor Saturnius idemabdidit et duro formavit tegmine saxi.Nos autem timidi stantes mirabile monstrumvidimus in mediis divom vorsarier aris.Tum Calchas haec est fidenti voce locutus:'Quidnam torpentes subito obstipuistis, Achivi?Nobis haec portenta deum dedit ipse creatortarda et sera nimis, sed fama ac laude perenni.Nam quot avis taetro mactatas dente videtis,tot nos ad Troiam belli exanclabimus annos;quae decumo cadet et poena satiabit Achivos.'Edidit haec Calchas; quae iam matura videtis."Quae tandem ista auguratio est ex passeribus annorum potius quam aut mensuum aut dierum? Cur autem de passerculis coniecturam facit, in quibus nullum erat monstrum, de dracone silet, qui, id quod fieri non potuit, lapideus dicitur factus? Postremo quid simile habet passer annis? Nam de angue illo, qui Sullae apparuit immolanti, utrumque memini, et Sullam, cum in expeditionem educturus esset, immolavisse, et anguem ab ara exstitisse, eoque die rem praeclare esse gestam non haruspicis consilio, sed imperatoris. | Di quest'altra cosa, sì, mi meraviglierei, se ci credessi, cioè del fatto che, come hai ricordato, Calcante, secondo Omero, predisse il numero degli anni della guerra di Troia in base al numero dei passeri. Su quella sua profezia così parla Agamennone in Omero (te ne do la traduzione che ho fatto in un momento di riposo):"Non cedete, o guerrieri, e sopportate con coraggio i duri travagli, in modo che possiamo sapere se le profezie del nostro indovino Calcante abbiano una fonte d'ispirazione veridica o siano invece vane. Ché tutti quelli che non hanno abbandonato la luce per un funesto destino serbano bene nella memoria quel portento. Appena Aulide si era ricoperta di navi argoliche, che recavano rovina e sterminio a Priamo e a Troia, noi, mentre vicino a gelide acque ci propiziavamo la volontà degli dèi col sacrificio di tori dalle corna dorate sulle are fumanti, al riparo di un platano ombroso, donde sgorgava una sorgente d'acqua, vedemmo un drago dall'aspetto feroce e dalle spire gigantesche, come se per volere di Giove uscisse da sotto l'ara. Esso ghermì degli uccellini nascosti da fitte foglie, su un ramo del platano; mentre ne divorava otto, il nono - la madre degli altri - volava lì sopra con tremule strida; e anche a lei la belva dilaniò le viscere con un orrendo morso. Quando poi ebbe ucciso gli uccellini così teneri e la loro madre, lo stesso padre Saturnio che lo aveva fatto uscire alla luce, lo nascose alla nostra vista e lo irrigidì ricoprendolo di una dura scorza di pietra della stessa sua forma. Noi, paralizzati dal terrore, avevamo visto l'immane mostro aggirarsi frammezzo alle are degli dèi. Allora Calcante disse con voce fiduciosa: 'Come mai, o achivi, siete rimasti d'un tratto intorpiditi dal terrore? Il creatore stesso degli dèi ci ha mandato questo prodigio, lento ad avverarsi e di esito tardivo fin troppo, ma segno di fama e di gloria perenne. Giacché, per quanti uccelli voi avete visti uccisi dall'orribile dente, per altrettanti anni di guerra noi soffriremo sotto le mura di Troia; nel decimo anno essa cadrà e pagando il fio sazierà gli achivi'. Queste cose disse Calcante; vedete che ormai sono prossime a compiersi."Ma che sorta di augurio è questo, che dal numero dei passeri deduce per l'appunto il numero degli anni piuttosto che quello dei mesi o dei giorni? E perché basa la sua profezia sui passerotti, che non costituivano nulla di prodigioso, mentre non fa parola del drago, il quale, cosa che non poté accadere, divenne, a quanto si legge, di pietra? E infine, che analogia c'è tra un passero e un susseguirsi di anni? Giacché, quanto a quel serpente che apparve a Silla mentre compiva un sacrificio, mi ricordo di tutt'e due le cose: l'una, che Silla, in procinto di iniziare la spedizione militare, fece un sacrificio, e un serpente sbucò da sotto l'altare; l'altra, che in quello stesso giorno fu riportata una brillante vittoria, per l'accortezza non dell'arùspice, ma del comandante. |
M. CICERO S. D. Q. METELLO COS.Litterae Quinti fratis et T. Pomponii, necessarii mei, tantum spei dederant, ut in te non minus auxilii quam in tuo collega mihi constitutum fuerit; itaque ad te litteras statim misi, per quas, ut fortuna postulabat, et gratias tibi egi et de reliquo tempore auxilium petii. Postea mihi non tam meorum litterae quam sermones eorum, qui hac iter faciebant, animum tuum immutatum significabant, quae res fecit, ut tibi litteris obstrepere non auderem.Nunc mihi Quintus frater meus mitissimam tuam orationem, quam in senatu habuisses, perscripsit, qua inductus ad te scribere sum conatus et abs te, quantum tua fert voluntas, peto quaesoque, ut tuos mecum serves potius quam propter arrogantem crudelitatem tuorum me oppugnes. Tu, tuas inimicitias ut rei publicae condonares, te vicisti, alienas ut contra rem publicam confirmes, adduceris? Quod si mihi tua clementia opem tuleris, omnibus in rebus me fore in tua potestate tibi confirmo; si mihi neque magistratus neque senatum neque populum auxiliari propter eam vim, quae me cum re publica vicit, licuerit, vide, ne, cum velis revocare tempus omnium servandorum, cum, qui servetur, non erit, non possis. | CICERONE AL CONSOLE Q. METELLO NEPOTELe lettere di mio fratello Quinto e di Tito Pomponio, amico mio intimo, mi avevano fatto ben sperare che tu nonmeno del tuo collega eravate inclini a offrirmi la vostra assistenza. Ti avevo dunque scritto senza indugio, comel'insieme delle circostanze imponevano, sia per porgerti i miei ringraziamenti sia appunto per domandare unulteriore aiuto per il futuro. In seguito, non tanto le lettere dei miei quanto la viva voce di chi aveva occasione dipassare da queste parti, mi davano assicurazione che i tuoi sentimenti restavano immutati; la qual cosa ha fatto sìche io avessi ritegno a tempestarti di lettere. Ora mio fratello Quinto mi dà notizia di un tuo intervento in senatoestremamente fiacco: spinto da questo, ho provato a scriverti e a te chiedo esplicitamente, per quanto può dipenderedal tuo buon volere, di salvare i tuoi insieme con me piuttosto che attaccare me cedendo alla spietata arroganza deituoi. Hai già riportato una vittoria su te stesso, offrendo allo stato la rinuncia alle tue inimicizie private; ti farestiadesso trascinare a sostenere, contro lo stato, le inimicizie altrui? Se invece, con un tuo tipico atto di generosità,dovessi oggi darmi una mano, ti assicuro la mia devozione per ogni futura evenienza. Se al contrario né aimagistrati né al senato né al popolo sarà data la possibilità di agire in mio favore, in grazia di quel clima di violenzache ha rovinato la repubblica insieme con me, considera bene che - ove tu volessi a un certo punto riafferrarel'occasione di salvarci tutti - tu non sarai poi in grado di farlo perché non ci sarà nessuno da salvare. |
Auspicia vero vestra quam constant! Quae quidem nunc a Romanis auguribus ignorantur (bona hoc tua venia dixerim), a Cilicibus, Pamphyliis, Pisidis, Lyciis tenentur. Nam quid ego hospitem nostrum, clarissumum atque optumum virum, Deiotarum regem, commemorem? Qui nihil umquam nisi auspicato gerit. Qui cum ex itinere quodam proposito et constituto revertisset aquilae admonitus volatu, conclave illud, ubi erat mansurus, si ire perrexisset, proxima nocte corruit.Itaque, ut ex ipso audiebam, persaepe revertit ex itinere, cum iam progressus esset multorum dierum viam. Quoius quidem hoc praeclarissimum est, quod, posteaquam a Caesare tetrarchia et regno pecuniaque multatus est, negat se tamen eorum auspiciorum, quac sibi ad Pompeium proficiscenti secunda evenerint, paenitere; senatus enim auctoritatem et populi Romani libertatem atque imperii dignitatem suis armis esse defensam, sibique eas aves, quibus auctoribus officium et fidem secutus esset, bene consuluisse; antiquiorem enim sibi fuisse possessionibus suis gloriari. Ille mihi videtur igitur vere augurari. Nam nostri quidem magistratus auspiciis utuntur coactis; necesse est enim offa obiecta cadere frustum ex pulli ore, cum pascitur; quod autem scriptum habetis, [aut] tripudium fieri, si ex ea quid in solidum ceciderit, hoc quoque, quod dixi, coactum tripudium solistimum dicitis. Itaque multa auguria, multa auspicia, quod Cato ille sapiens queritur, neglegentia collegii amissa plane et deserta sunt. | Quale valore, poi, hanno i vostri auspicii! 1 quali, invero, attualmente vengono ignorati dagli àuguri romani (non te ne avere a male se lo dico), mentre sono ancora in vigore presso gli abitanti della Cilicia, della Panfilia, della Pisidia, della Licia. Non ho bisogno di rammentare il nostro ospite, il re Deiòtaro, uomo insigne ed eccellente, il quale non fa mai nulla se non dopo aver preso gli auspicii. Una volta egli aveva progettato e iniziato un viaggio. Ammonito dal volo sfavorevole di un'aquila, tornò indietro; ebbene, la stanza nella quale avrebbe sostato se avesse proseguito il suo percorso, crollò la notte seguente. Da lui stesso ho sentito dire che più volte ritornò sui suoi passi dopo aver già compiuto un percorso di molti giorni. E di Deiòtaro è particolarmente splendido ciò che ora dirò. Dopo essere stato punito da Cesare con la perdita della tetrarchia, del regno, di un'ingente somma di denaro, continua a dire che non si lagna di quegli auspicii che gli si rivelarono favorevoli quando partì per unirsi all'esercito di Pompeo: ché le sue armi difesero l'autorità del senato, la libertà del popolo romano, la dignità del suo comando, e perciò gli uccelli per ammonimento dei quali egli seguì la via del dovere e della lealtà gli dettero un buon consiglio: la sua gloria doveva valere di più che i suoi possessi. Lui sì che, a mio parere, ha seguito con spirito di verità l'arte augurale! I nostri magistrati, invece, praticano auspicii forzati: è inevitabile che, offerto il cibo, un pezzetto di esso cada giù dalla bocca del pollo mentre sta mangiando. Ma quanto alla prescrizione dei vostri libri, che è favorevole l'auspicio se dalla bocca dell'uccello cade a terra un pezzo del cibo, voi considerate particolarmente favorevole anche questo auspicio che ho chiamato forzato. Perciò molti augurii, molti auspicii sono stati del tutto obliati o trascurati per negligenza del collegio: di ciò si duole Catone, il nostro saggio antico. |
Sed est mos hominum, ut nolint eundem pluribus rebus excellere. nam ut ex bellica laude aspirare ad Africanum nemo potest, in qua ipsa egregium Viriathi bello reperimus fuisse Laelium: sic ingeni litterarum eloquentiae sapientiae denique etsi utrique primas, priores tamen libenter deferunt Laelio. nec mihi ceterorum iudicio solum videtur, sed etiam ipsorum inter ipsos concessu ita tributum fuisse. | Ma è costume della gente di non voler riconoscere, a una medesima persona, l'eccellenza in più campi. Come infatti nessuno può pretendere di accostarsi all'Africano per gloria di imprese belliche, nelle quali pure sappiamo che Lelio si distinse egregiamente nella guerra contro Viriato; così, per ciò che riguarda l'ingegno, la cultura letteraria, l'eloquenza, e infine la sapienza, sebbene ad ambedue si attribuisca una posizione di primo piano, il primato tra i due lo si assegna volentieri a Lelio. E a me pare che un tal modo di valutare non fosse proprio solo del giudizio degli altri, ma derivasse anche da una loro reciproca concessione. |
Bene etiam colligithaec pueris et mulierculis et servis et servorum simillimis liberis esse grata, gravi vero homini et ea, quae fiunt, iudicio certo ponderanti probari posse nullo modo.Quamquam intellego in nostra civitate inveterasse iam bonis temporibus, ut splendor aedilitatum ab optimis viris postuletur. Itaque et P. Crassus cum cognomine dives tum copiis functus est aedilicio maximo munere, et paulo post L. Crassus cum omnium hominum moderatissimo Q.Mucio magnificentissima aedilitate functus est, deinde C. Claudius App. F., multi post, Luculli, Hortensius, Silanus; omnes autem P. Lentulus me consule vicit superiores; hunc est Scaurus imitatus; magnificentissima vero nostri Pompei munera secundo consulatu; in quibus omnibus quid mihi placeat, vides. | E conclude anche giustamente:Questo fa piacere ai fanciulli. alle donnicciole, agli schiavi e a quegli uomini liberi assai simili agli schiavi; ma dall'uomo serio, che riflette con fermo giudizio su ciò che accade, non possono essere in alcun modo approvate.Capisco, comunque, che nella nostra città ormai radicato, sin da tempo antico, l'esercizio in maniera assai splendida della carica di edile da parte degli uomini più illustri. Perciò Publio Crasso, ricco di nome e di sostanze, adempi al suo compito di edile con il massimo splendore, e poco dopo, con grandissima magnificenza, Lucio Crasso insieme a Quinto Muoio, il più moderato di tutti gli uomini; poi Gaio Claudio, figlio di Appio, e in seguito molti, i Luculli, Ortensio e Silano; ma Publio Lentulo, durante il suo consolato, superò tutti i predecessori. Lo imitò Scauro; ma con la maggiore magnificenza svolse il suo compito il nostro Pompeo, durante il suo secondo consolato; ma in tutte queste cose tu vedi quale sia il mio pensiero. |
Tum Brutus: mihi quidem, inquit, nec iste notus est nec illi; sed haec mea culpa est, numquam enim in manus inciderunt. nunc autem et a te sumam et conquiram ista posthac curiosius. Fuit igitur in Catulo sermo Latinus; quae laus dicendi non mediocris ab oratoribus plerisque neglecta est. nam de sono vocis et suavitate appellandarum litterarum, quoniam filium cognovisti, noli exspectare quid dicam. quamquam filius quidem non fuit in oratorum numero; sed non deerat ei tamen in sententia dicenda cum prudentia tum elegans quoddam et eruditum orationis genus. | E allora Bruto: "Io in verità non conosco né questo libro, né quelli;" disse "ma è colpa mia, perché non mi sono mai capitati tra le mani. Ora me li farò prestare da te, e d'ora in poi ricercherò con più interesse opere del genere"."Catulo parlava dunque un latino puro; un pregio non da poco nell'eloquenza, ma trascurato dalla maggior parte degli oratori. Quanto all'intonazione della voce, e alla sua gradevole pronuncia, tu che hai conosciuto suo figlio," non aspettarti che io te ne parli. Per quanto il figlio non venisse annoverato tra i veri oratori; ma tuttavia non gli mancavano, quando si trovava a dare il suo parere in senato, né il discernimento né un modo di esprimersi elegante e colto. |
Nam et A. Albinus, is qui Graece scripsit historiam, qui consul cum L. Lucullo fuit, et litteratus et disertus fuit; et tenuit cum hoc locum quendam etiam Ser. Fulvius et Numerius Fabius Pictor et iuris et litterarum et antiquitatis bene peritus; Quinctusque Fabius Labeo fuit ornatus isdem fere laudibus. nam Q. Metellus, is cuius quattuor filii consulares fuerunt, in primis est habitus eloquens, qui pro L. Cotta dixit accusante Africano; cuius et aliae sunt orationes et contra Ti.Gracchum exposita est in C. Fanni annalibus. | Così, per esempio, quell'Aulo Albino che scrisse una storia in greco, e fu console con Lucio Lucullo fu uomo di lettere, e facondo; e insieme a lui tennero un posto di una qualche importanza anche Servio Fulvio e Numerio Fabio Pittore un grande esperto di diritto, di letteratura e di antiquaria; e più o meno per le stesse qualità si distinse Quinto Fabio Labeone. Quinto Metello, poi, quello che ebbe quattro figli consolari venne ritenuto uno degli uomini più eloquenti: fu lui che parlò in difesa di Lucio Cotta accusato dall'Africano. Di lui ci sono diverse orazioni ; mentre quella contro Tiberio Gracco è riprodotta negli Annali di Gaio Fannio. |
Carbonem in summis oratoribus habitum scio; sed cum in ceteris rebus tum in dicendo semper, quo iam nihil est melius, id laudari qualecumque est solet. dico idem de Gracchis, etsi de eis ea sunt a te dicta, quibus ego adsentior. omitto ceteros; venio ad eos in quibus iam perfectam putas esse eloquentiam, quos ego audivi sine controversia magnos oratores, Crassum et Antonium. de horum laudibus tibi prorsus adsentior, sed tamen non isto modo: ut Polycliti doryphorum sibi Lysippus aiebat, sic tu suasionem legis Serviliae tibi magistram fuisse; haec germana ironia est.cur ita sentiam non dicam, ne me tibi adsentari putes. | Carbone, lo so che è stato considerato uno tra i più grandi oratori; ma, nell'eloquenza come in ogni altra cosa, si ha sempre l'abitudine di elogiare, quale che sia, ciò di cui al momento non c'è di meglio. Lo stesso dico dei Gracchi, anche se su di loro hai detto cose che mi trovano consenziente. Tralascio gli altri, e vengo a quelli con i quali tu ritieni che l'eloquenza abbia ormai raggiunto piena maturità Crasso e Antonio, che io stesso ho potuto ascoltare, e che furono, senza contestazione, dei grandi oratori. Sugli elogi che hai fatto di loro, sono certo d'accordo con te; e tuttavia, non in codesto modo: come Lisippo diceva del doriforo di Policleto," hai detto che ti è stato maestro il discorso in favore della legge Servilia;"' questa è ironia bell'e buona. Non dirò perché io la pensi così: non voglio che tu creda che intendo adularti. |
Sed quoniam perpetua quadam felicitate usus ille cessit e vita suo magis quam suorum civium tempore et tum occidit, cum lugere facilius rem publicam posset, si viveret, quam iuvare, vixitque tam diu quam licuit in civitate bene beateque vivere, nostro incommodo detrimentoque, si est ita necesse, doleamus, illius vero mortis opportunitatem benevolentia potius quam misericordia prosequamur, ut, quotienscumque de clarissumo et beatissumo viro cogitemus, illum potius quam nosmet ipsos diligere videamur. | Ma egli è uscito dalla vita dopo aver goduto di una continua buona fortuna, in un momento più opportuno per lui che per i suoi concittadini; si è spento proprio quando più facile gli sarebbe stato - se fosse vissuto - deplorare la sorte dello stato che venire in suo soccorso; ed è vissuto fin tanto che nella nostra città è stato possibile vivere bene e felicemente. Perciò rammarichiamoci, se così è necessario, per la nostra disgrazia e per il nostro danno; ma alla sua morte, giunta in maniera tanto tempestiva, rendiamo onore, piuttosto che con il compianto, con un senso di benevolo appagamento: così, ogni qual volta il nostro pensiero andrà a quell'uomo così illustre e felice, appariremo avere caro lui piuttosto che noi stessi. |
Haec ita intellegi, possumus existimare ex eo decoro, quod poetae sequuntur, de quo alio loco plura dici solent. Sed tum servare illud poetas, quod deceat, dicimus, cum id quod quaque persona dignum est, et fit et dicitur, ut si Aeacus aut Minos diceret:oderint, dum metuant,aut:natis sepulchro ipse est parens,indecorum videretur, quod eos fuisse iustos accepimus; at Atreo dicente plausus excitantur, est enim digna persona oratio; sed poetae quid quemque deceat, ex persona iudicabunt; nobis autem personam imposuit ipsa natura magna cum excellentia praestantiaque animantium reliquarum. | Che tale sia la vera nozione del decoro (conveniente), noi possiamo argomentarlo da quel decoro al quale tendono i poeti. Di questo speciale decoro si suole parlare diffusamente altrove; qui io noterò soltanto che esso è rispettato dai poeti quando appunto i singoli personaggi agiscono e parlano in modo conforme al loro proprio carattere. Così, per esempio, se Eaco o Minosse dicessero:Mi odino, purché mi temanooppure:Ai figliuoli è tomba il corpo del padre,l'espressione parrebbe sconveniente, perché, come sappiamo, quelli furono uomini giusti; ma se lo dice Atreo, scoppiano applausi, perché il suo linguaggio è conforme al suo carattere. Ma i poeti, dal carattere dei singoli personaggi, comprenderanno quali tratti convengano a ciascuno di essi; noi, invece, dobbiamo conservare quel carattere che appunto la natura ci ha imposto e che, per la sua grande nobiltà, ci innalza sopra tutti gli altri esseri viventi. |
Cum summis et clarissimis huius civitatis viris, qui audita re frequentes ad me mane convenerant, litteras a me prius aperiri quam ad senatum deferri placeret, ne, si nihil esset inrentum, temere a me tantus tumultus iniectus civitati videretur, negavi me esse facturum, ut de periculo publico non ad consilium publicum rem integram deferrem. Etenim, Quirites, si ea, quae erant ad me delata, reperta non essent, tamen ego non arbitrabar in tantis rei publicae periculis esse mihi nimiam diligentiam pertimescendam.Senatum frequentem celeriter, ut vidistis, coegi. | Al mattino, i più autorevoli esponenti della nostra città, venuti a conoscenza dell'accaduto, accorrono numerosi a casa mia e mi consigliano di aprire le lettere prima di portarle in Senato: se non avessero rivelato nulla di importante, avremmo evitato di creare inutili agitazioni in città. Mi sono rifiutato: era mio dovere, in una situazione di pericolo pubblico, rimettere la faccenda impregiudicata al Senato. E infatti, Quiriti, anche se non si fosse rivelato esatto quanto mi era stato riferito, ritenevo di non dover temere l'accusa di eccessiva scrupolosità trattandosi di seri pericoli per lo Stato. Ho convocato subito una seduta del Senato che, come avete visto, è stata affollata. |
Equidem, ut ad me revertar, ab his fontibus profluxi ad hominum famam, et meus hic forensis labor vitaeque ratio dimanavit ad existimationem hominum paulo latius commendatione ae iudicio meorum. Nam quod obiectum est de pudicitia, quodque omnium accusatorum non criminibus, sed vocibus male dictisque celebratum est, id numquam tam acerbe feret M. Caelius, ut eum paeniteat non deformem esse natum. Sunt enim ista maledicta pervulgata in omnes, quorum in adulescentia forma et species fuit liberalis.Sed aliud est male dicere, aliud accusare. Accusatio crimen desiderat, rem ut definiat, hominem ut notet, argumento probet, teste confirmet; maledictio autem nihil haet propositi praeter contumeliam quae si petulantius iactatur, convicium, si facetius urbanitas nominatur. | Senza dubbio, per riferirmi a me, sono sgorgato da queste fonti alla fama degli uomini, e questa mia attività forense e ragione di vita ha esteso la stima fra gli uomini poco più largamente della raccomandazione dei miei; infatti, ciò che è stato obiettato riguardo la pudicizia e ciò che è stato divulgato non dalle accuse (Abl. di Causa Eff.) di tutti i detrattori, ma dalle voci e dalle calunnie, ciò mai tanto gravosamente lo sopporterebbe Marco Celio, che egli si penta di non essere nato deforme (n.d.p.). Sono infatti codeste maldicenze divulgate contro tutti(Moto a luogo fig.), dei quali nell’adolescenza (Stato in Luogo Fig.) fu generosa. Ma una cosa è dire male, un’altra cosa accusare. L’accusa muove(Principale) una colpa, affinché definisca il reato, affinché individui l’uomo, lo provi con un argomento, lo confermi con un testimone; la maldicenza, al contrario (Avvers.), nulla ha di proposito eccetto l’offesa che se è pronunciata alquanto stancamente è chiamata villania, se alquanto graziosamente, scaltrezza. |
Hac ratione et Chrysippus et Diogenes et Antipater utitur. Quid est igitur cur dubitandum sit quin sint ea, quae disputavi, verissuma, si ratio mecum facit, si eventa, si populi, si nationes, si Graeci, si barbari, si maiores etiam nostri, si denique hoc semper ita putatum est, si summi phdosophi, si poëtae, si sapientissumi viri, qui res publicas constituerunt, qui urbes condiderunt? An dum bestiae loquantur exspectamus, hominum consentiente auctoritate contenti non sumus? Nec vero quicquam aliud adfertur cur ea quae dico divinandi genera nulla sint, nisi quod difficile dictu videtur quae cuiusque divinationis ratio, quae causa sit.Quid enim habet haruspex, cur pulmo incisus etiam in bonis extis dirimat tempus et proferat diem? Quid augur, cur a dextra corvus, a sinistra cornix faciat ratum? Quid astrologus, cur stella Iovis aut Veneris coniuncta cum luna ad ortus puerorum salutaris sit, Saturni Martisve contraria? Cur autem deus dormientes nos moneat, vigilantes neglegat? Quid deinde causae est, cur Cassandra furens futura prospiciat, Priamus sapiens hoc idem facere non queat? Cur fiat quidque, quaeris. Recte omnino; sed non nunc id agitur; fiat necne fiat, id quaeritur: ut si magnetem lapidem esse dicam qui ferrum ad se adliciat et adtrahat, rationem cur id fiat adferre nequeam, fieri omnino neges. Quod idem facis in divinatione, quam et cernimus ipsi et audimus et legimus et a patribus accepimus. Neque ante philosophiam patefactam, quae nuper inventa est, hac de re communis vita dubitavit, et, posteaquam philosophia processit, nemo aliter philosophus sensit, in quo modo esset auctoritas. Dixi de Pythagora, de Democrito, de Socrate, excepi de antiquis praeter Xenophanem neminem, adiunxi veterem Academiam, Peripateticos, Stoicos; unus dissentit Epicurus. Quid vero hoc turpius, quam quod idem nullam censet gratuitam esse virtutem? | Di questa argomentazione si servono Crisippo, Diogene e Antipatro. Che motivo c'è, dunque, di rimanere incerti sull'assoluta verità di ciò che ho esposto, se dalla mia parte stanno la ragione, l'avverarsi dei presagi, i popoli, le genti, i greci, i barbari, i nostri stessi antenati, se insomma a queste cose si è sempre creduto, se vi hanno creduto i più grandi filosofi, i poeti, i saggissimi uomini che istituirono gli stati e fondarono le città? Forse, non bastandoci la concorde autorità degli uomini, aspettiamo che parlino le bestie? Del resto, chi sostiene che i generi di divinazione di cui parlo non hanno alcun valore, obietta soltanto questo: che appare difficile dire quale sia il procedimento razionale, quale la causa di ciascuna divinazione. Che motivo può addurre l'arùspice per cui un polmone che presenta una fenditura, anche se le viscere sono in complesso di buon augurio, debba far sospendere il tempo di un'azione e farla rinviare a un altro giorno? Che motivo ha l'àugure di sentenziare che un corvo che gràcida da destra, una cornacchia da sinistra, sono di buon augurio? Che motivo ha l'astrologo di dire che l'astro di Giove o di Venere in congiunzione con la luna è di buon auspicio per la nascita dei bambini, mentre gli astri di Saturno o di Marte sono infausti? E ancora, perché la divinità ci ammonisce mentre dormiamo, non si cura di noi quando siamo svegli? Che ragione c'è per cui Cassandra veda il futuro in stato di folle esaltazione, e non sia in grado di far ciò Priamo trovandosi perfettamente in senno? Tu chiedi perché ciascuna di queste cose avvenga. Curiosità del tutto legittima; ma qui non di questo si tratta: si discute se quei fatti avvengano o no. Sarebbe come se, dicendo io che la calamita è una pietra che alletta e attrae a sé il ferro ma non sapendo dire perché ciò avvenga, tu negassi senz'altro il fatto. È ciò che fai riguardo alla divinazione, che constatiamo di persona, di cui sentiamo parlare e leggiamo, la cui dottrina ci è giunta dai nostri antenati. E già prima dell'inizio della filosofia, che risale a tempi recenti, l'opinione comune non ebbe alcun dubbio quanto a ciò; e quando si fece avanti la filosofia, nessun filosofo dotato di un minimo di autorità la pensò altrimenti. Ho menzionato Pitagora, Democrito, Socrate; tra i più antichi non ho dovuto far eccezioni per nessuno tranne per Senofane. Ho aggiunto l'Accademia antica, i peripatetici, gli stoici. Dissente solo Epicuro; ma che cosa c'è di più turpe del fatto che il medesimo Epicuro sostiene che non esiste alcuna virtù disinteressata? |
Magistratibus igitur opus est, sine quorum prudentia ac diligentia esse civitas non potest, quorumque discriptione omnis rei publicae moderatio continetur. Neque solum iis praescribendus est imperandi, sed etiam civibus obtemperandi modus. Nam et qui bene imperat, paruerit aliquando necesse est, et qui modeste paret, videtur qui aliquando imperet dignus esse. Itaque oportet et eum qui paret sperare, se aliquo tempore imperaturum, et illum qui imperat cogitare, brevi tempore sibi esse parendum.Nec vero solum ut obtemperent oboediantque magistratibus, sed etiam ut eos colant diligantque praescribimus, ut Charondas in suis facit legibus, noster vero Plato Titanum e genere <esse> statuit eos qui ut illi caelestibus, sic hi adversentur magistratibus. Quae cum ita sint ad ipsas iam leges veniamus si placet.Atticus:Mihi vero et istud et ordo iste rerum placet. | C'è dunque necessità di magistrati, perché senza la loro saggezza e diligenza non potrebbe sussistere uno Stato, e sulla loro distribuzione si fonda tutta la gestione dello Stato. E occorrerà stabilire non soltanto per essi un limite al loro potere, ma anche per i cittadini un limite all'obbedienza. Infatti chi ben comanda, dovrà un giorno o l'altro obbedire, e chi obbedisce con giudizio, può sembrare degno di assumere un giorno il potere. È necessario pertanto che chi obbedisce abbia la speranza di poter un giorno comandare, e colui che comanda rifletta che tra breve dovrà obbedire. Ma non solo prescriviamo che i cittadini siano sottomessi e obbediscano ai magistrati, ma anche che li onorino e li amino, come fece Caronda nella sua costituzione; d'altra parte il nostro Platone affermò che appartengono alla stirpe dei Titani coloro i quali resistano ai magistrati, così come già quelli resistettero agli dèi celesti. Stando così le cose, veniamo ora, se volete, alle leggi vere e proprie.Attico:Sono perfettamente d'accordo su questo criterio e sulla successione degli argomenti. |
P. Scipionem, Marce fili, eum, qui primus Africanus appellatus est, dicere solitum scripsit Cato, qui fuit eius fere aequalis, numquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esset. Magnifica vero vox et magno viro ac sapiente digna; quae declarat illum et in otio de negotiis cogitare et in solitudine secum loqui solitum, ut neque cessaret umquam et interdum conloquio alterius non egeret. Ita duae res, quae languorem adferunt ceteris, illum acuebant, otium et solitudo.Vellem nobis hoc idem vere dicere liceret, sed si minus imitatione tantam ingenii praestantiam consequi possumus, voluntate certe proxime accedimus. Nam et a re publica forensibusque negotiis armis impiis vique prohibiti otium persequimur et ob eam causam urbe relicta rura peragrantes saepe soli sumus. | Catone, che fu quasi suo coetaneo, o figlio Marco, scrisse che Scipione, quello che per primo fu chiamato Africano, era solito dire che non era mai meno in ozio di quanto era in ozio, né meno solo di quanto era solo. Davvero un'affermazione magnifica e degna di un uomo grande e sapiente; che rivela che quello era solito pensare agli affari pubblici quando era in ozio e parlarne quando era solo, cosicché non smetteva mai e non gli mancava mai il dialogo con un altro. Così due cose, l'ozio e la solitudine, che portano agli altri debolezza, stimolavano quello. Vorrei che a noi fosse possibile dire davvero questa stessa cosa, ma se non possiamo conseguire del tutto con l'imitazione tanta eccellenza d'ingegno, con la volontà certo ci avviciniamo moltissimo. Infatti tenuto lontano dalla vita politica e dagli affari forensi dalla violenza delle armi sacrileghe, sono costretto a vivere in ozio e per questo motivo, lasciata la città, vagando per i campi spesso sono solo. |
Praetermittendae autem defensionis deserendique officii plures solent esse causae. Nam aut inimicitias aut laborem aut sumptus suscipere nolunt aut etiam neglegentia, pigritia, inertia aut suis studiis quibusdam occupationibusve sic impediuntur, ut eos, quos tutari debeant, desertos esse patiantur. Itaque videndum est, ne non satis sit id, quod apud Platonem est in philosophos dictum, quod in veri investigatione versentur quodque ea, quae plerique vehementer expetant, de quibus inter se digladiari soleant, contemnant et pro nihilo putent, propterea iustos esse.Nam alterum [iustitiae genus] assequuntur, ut inferenda ne cui noceant iniuria, in alterum incidunt; discendi enim studio impediti, quos tueri debent, deserunt. Itaque eos ne ad rem publicam quidem accessuros putant nisi coactos. Aequius autem erat id voluntate fieri; nam hoc ipsum ita iustum est, quod recte fit, si est voluntarium. | Parecchie sono le ragioni che inducono gli uomini a trascurare l'altrui difesa, mancando così al proprio dovere: o non vogliono procurarsi inimicizie, fatiche, spese, oppure la negligenza, la pigrizia, l'inerzia, o anche certe loro particolari inclinazioni e occupazioni li trattengono in maniera che essi lasciano nell'abbandono quelli che invece essi avrebbero il dovere di proteggere. Temo pertanto che non soddisfi appieno ciò che Platone dice a proposito dei filosofi, cioè che essi sono giusti appunto perché, immersi nella ricerca del vero, tengono in poco e in nessun conto quelle cose che i più agognano con desiderio irrefrenabile, quelle cose per cui vogliono combattere tra loro persino con le armi. Infatti, se da un lato essi rispettano parzialmente la giustizia, in quanto non recano né danno né offesa ad alcuno, dall'altro essi la contrastano; infatti impediti dall'amore del sapere, abbandonano proprio quelli che essi hanno il dovere di proteggere. Proprio per tale motivo i seguaci di Platone ritengono che i filosofi non debbano neppure accostarsi alla vita pubblica, se non costretti. Molto meglio sarebbe, invece, che vi si accostassero spontaneamente; perché anche un'azione retta non è giusta se non è spontanea. |
Quod autem pietatem adhiberi, opes amoveri iubet, significat probitatem gratam esse deo, sumptum esse removendum. Quom enim paupertatem cum divitiis etiam inter homines esse aequalem velimus, cur eam sumptu ad sacra addito deorum aditu arceamus? Praesertim cum ipsi deo nihil minus gratum futurum sit, quam non omnibus patere ad se placandum et colendum viam. Quod autem non iudex sed deus ipse vindex constituitur, praesentis poenae metu religio confirmari videtur.Suosque deos aut novos aut alienigenas coli confusionem habet religionum et ignotas caerimonias nos<tris> sacerdotibus. | Il fatto poi che essa imponga di usare la pietà e di eliminare il fasto, significa che l'onestà è gradita a dio, e che il lusso deve essere tenuto lontano. Quindi, anche tra gli uomini vogliamo che povertà e ricchezza si equivalgano; e perché allora vorremmo tener lontana la prima dall'accostamento agli dèi, aggiungendo lusso al culto? tanto più che nulla sarebbe meno gradito al dio di questo, che la via per placarlo e onorarlo non fosse aperta a tutti. E che non un giudice, ma il dio stesso si è costituito vindice, è dovuto al fatto che il sentimento religioso sembra essere rafforzato dal timore di una punizione immediata. Venerare poi gli dèi personali, o nuovi o forestieri, comporterebbe la confusione dei culti e dei riti sconosciuti ai nostri sacerdoti. |
Atque haec quidem vatium ratio est, nec dissimilis sane somniorum. Nam quae vigilantibus accidunt vatibus, eadem nobis dormientibus. Viget enim animus in somnis liber ab sensibus omnique impeditone curarum, iacente et mortuo paene corpore. Qui quia vixit ab omni aeternitate versatusque est cum innumerabilibus animis, omnia quae in natura rerum sunt videt, si modo temperatis escis modicisque potionibus ita est adfectus, ut sopito corpore ipse vigilet.Haec somniantis est divinatio.Hic magna quaedam exoritur, neque ea naturalis, sed artificiosa somniorum [Antiphonis] interpretatio eodemque modo et oraculorum et vaticinationum: sunt enim explanatores, ut grammatici poëtarum. Nam ut aurum et argentum, aes, ferrum frustra natura divina genuisset, nisi eadem docuisset quem ad modum ad eorum venas perveniretur, nec fruges terrae bacasve arborum cum utilitate ulla generi bumano dedisset, nisi hearum cultus et conditiones tradidisset, materiave quicquam iuvaret, nisi confectionis eius fabricam haberemus, sic cum omni utilitate quam di hominibus dederunt ars aliqua coniuncta est per quam illa utilitas percipi possit. Item igitur somniis, vaticinationibus, oraclis, quod erant multa obscura, multa ambigua, explanationes adhibitae sunt interpretum.Quo modo autem aut vates aut somniantes ea videant, quae nusquam etiam tunc sint, magna quaestio est. Sed esplorata si sint ea quae ante quaeri debeant, sint haec quae quaerimus faciliora. Continet enim totam hanc quaestionem ea ratio, quae est de natura deorum, quae a te secundo libro est esplicata dilucide. Quam si obtinemus, stabit illud quod hunc locum continet de quo agimus: esse deos, et eorum providentia mundum administrari, eosdemque consulere rebus humanis, nec solum universis, verum etiam singulis. Haec si tenemus, quae mihi quidem non videntur posse convelli, profecto hominibus a dis futura significari necesse est. | E questo è il modo di profetare dei vati, non dissimile, invero, da quello dei sogni. Ciò che accade ai vari da svegli, accade a noi quando dormiamo. Nel sonno l'anima è in pieno vigore, libera dai sensi e da ogni preoccupazione che la frastorni, poiché il corpo giace come se fosse morto. E poiché l'anima esiste da sempre e ha avuto rapporti con altre innumerevoli anime, vede tutto ciò che esiste nell'universo, purché, grazie a un cibo leggero e a bevande modiche, si trovi nella condizione di essere essa desta mentre il corpo è immerso nel sonno. Questo è il genere di divinazione di chi sogna.E qui si fa valere un'importante interpretazione dei sogni [dovuta ad Antifonte], e anche degli oracoli e dei vaticinii: un'interpretazione basata non sulla natura, ma sull'arte: ché vi sono interpreti di queste profezie, come i filologi sono interpreti dei poeti. Giacché, come la natura divina avrebbe creato invano l'oro e l'argento, il rame, il ferro, senza poi insegnare il modo di arrivare ai loro giacimenti, e senza alcuna utilità avrebbe dato al genere umano le messi della terra e i frutti degli alberi, se non ne avesse insegnato la coltivazione e la conservazione, e a nulla servirebbe il legname, se non sapessimo l'arte di fabbricare con esso tante cose, allo stesso modo con ogni beneficio che gli dèi hanno dato agli uomini è stata congiunta un'arte grazie alla quale quel beneficio potesse essere goduto. Dunque anche ai sogni, ai vaticinii, agli oracoli, poiché presentavano molte oscurità e ambiguità, furono fornite le spiegazioni degli interpreti.In qual modo, poi, i vati o quelli che sognano vedano le cose che ancora non esistono in alcun luogo, è oggetto di un'ardua discussione. Ma se indaghiamo ciò che dovrà essere discusso preliminarmente, la soluzione diverrà più facile. Tutto questo problema, difatti, fa parte di quel più vasto argomento riguardante la natura degli dèi, che tu hai spiegato con gran chiarezza nel libro secondo della tua opera. Se ci atterremo a quei princìpi, rimarrà accertato ciò di cui fa parte la questione che stiamo indagando adesso. Si trattava di questo: gli dèi esistono; il mondo è governato dalla loro provvidenza; essi si curano delle cose umane, non solo nel loro insieme, ma anche per ciò che riguarda i singoli individui. Se teniamo fermi questi punti, che a me non sembrano confutabili, senz'altro è necessario che gli dèi facciano sapere il futuro agli uomini. |
Aptissima omnino sunt, Scipio et Laeli, arma senectutis artes exercitationesque virtutum, quae in omni aetate cultae, cum diu multumque vixeris, mirificos ecferunt fructus, non solum quia numquam deserunt, ne extremo quidem tempore aetatis (quamquam id quidem maximum est), verum etiam quia conscientia bene actae vitae multorumque bene factorum recordatio iucundissima est. | Le armi in assoluto più idonee alla vecchiaia, cari Scipione e Lelio, sono la conoscenza e la pratica delle virtù che, coltivate in ogni età, dopo una vita lunga e intensa, producono frutti meravigliosi non solo perché non vengono mai meno, neppure al limite estremo della vita - cosa di per sé importantissima -, ma anche perché la coscienza di una vita spesa bene e il ricordo di molte buone azioni sono una grandissima soddisfazione. |
TULLIUS TERENTIAE SUAE, TULLIOLAE SUAE, CICERONI SUO SALUTEM DICIT.Et litteris multorum et sermone omnium perfertur ad me incredibilem tuam virtutem et fortitudinem esse teque nec animi neque corporis laboribus defatigari. Me miserum! te ista virtute, fide, probitate, humanitate in tantas aerumnas propter me incidisse, Tulliolamque nostram, ex quo patre tantas voluptates capiebat, ex eo tantos percipere luctus! Nam quid ego de Cicerone dicam? qui cum primum sapere coepit, acerbissimos dolores miseriasque percepit.Quae si, tu ut scribis, fato facta putarem, ferrem paullo facilius, sed omnia sunt mea culpa commissa, qui ab iis me amari putabam, qui invidebant, eos non sequebar, qui petebant. Quod si nostris consiliis usi essemus neque apud nos tantum valuisset sermo aut stultorum amicorum aut improborum, beatissimi viveremus: nunc, quoniam sperare nos amici iubent, dabo operam, ne mea valetudo tuo labori desit. Res quanta sit, intelligo, quantoque fuerit facilius manere domi quam redire; sed tamen, si omnes tribunos pl. habemus, si Lentulum tam studiosum, quam videtur, si vero etiam Pompeium et Caesarem, non est desperandum. De familia, quomodo placuisse scribis amicis, faciemus. De loco, nunc quidem iam abiit pestilentia, sed, quamdiu fuit, me non attigit. Plancius, homo officiosissimus, me cupit esse secum et adhuc retinet. Ego volebam loco magis deserto esse in Epiro, quo neque Piso veniret nec milites, sed adhuc Plancius me retinet: sperat posse fieri, ut mecum in Italiam decedat; quem ego diem si videro et si in vestrum complexum venero ac si et vos et me ipsum recuperaro, satis magnum mihi fructum videbor percepisse et vestrae pietatis et meae. Pisonis humanitas, virtus, amor in omnes nos tantus est, ut nihil supra possit: utinam ea res ei voluptati sit! gloriae quidem video fore. De Q. fratre nihil ego te accusavi, sed vos, cum praesertim tam pauci sitis, volui esse quam coniunctissimos. Quibus me voluisti agere gratias, egi et me a te certiorem factum esse scripsi. Quod ad me, mea Terentia, scribis te vicum vendituram, quid, obsecro te—me miserum!—, quid futurum est? et, si nos premet eadem fortuna, quid puero misero fiet? Non queo reliqua scribere—tanta vis lacrimarum est—, neque te in eundem fletum adducam; tantum scribo: si erunt in officio amici, pecunia non deerit; si non erunt, tu efficere tua pecunia non poteris. Per fortunas miseras nostras, vide, ne puerum perditum perdamus; cui si aliquid erit, ne egeat, mediocri virtute opus est et mediocri fortuna, ut cetera consequatur. Fac valeas et ad me tabellarios mittas, ut sciam, quid agatur et vos quid agatis. Mihi omnino iam brevis exspectatio est. Tulliolae et Ciceroni salutem dic. Valete. D. a d. VI. Kal. Decembr. Dyrrhachio. Dyrrhachium veni, quod et libera civitas est et in me officiosa et proxima Italiae; sed, si offendet me loci celebritas, alio me conferam, ad te scribam. | TULLIO A TERENZIA, A TULLIOLA E AL FIGLIO CICERONEDalle lettere di molti e dalla viva voce di tutti mi giunge notizia che sei di una forza d'animo e d'una energiaincre dibili e che non ti lasci stancare ne dalle fatiche fisiche ne da quelle morali. O mia disgrazia! Con queste tuevirtù, con la tua fedeltà, la tua rettitudine, la tua umanità vederti piombata in cosi grandi angosce per colpa mia; evedere la nostra Tulliola ricavare motivo di pianto da un padre, da cui era abituata a ricevere tante soddisfazioni! Eche dovrei dire del nostro figliolo? Appena raggiunta l'età della ragione ha subito le più crudeli sofferenze e miserie.Se io le credessi, come scrivi tu, causate dal destino avverso, le sopporterei un po' meglio; ma la responsabilità ditutto è integralmente mia, che pensavo di essere amato da chi mi odiava e che non prestavo attenzione a chi invecesi volgeva a me. Se avessi fatto buon uso della ragione e non avessi dato tanto retta alle chiacchiere di amici ostupidi o disonesti vivrei adesso sereno. Ma ore che degli amici ci ingiungono di sperare per il meglio, mi darò dafare perché la mia salute possa rispondere alle pene che ti dai per me. Mi rendo conto delle dimensioni della cosa equanto fosse più facile restare in patria piuttosto che tornarvi! Se pero abbiamo dalla nostra tutti i tribuni dellaplebe; se l'interessamento di Lentulo - nella sue posizione di console designato - non è solo apparente; se vi siaggiungono anche Pompeo e Cesare, non bisogna disperare.Circa la servitù si farà come tu mi scrivi che hanno deciso gli amici. Da queste parti l'epidemia adesso e oramaipassata, ma per quanto e durata ne sono rimasto illeso. Plancio, che e uomo di una cortesia squisita, insiste per avermi con sé e ancora mi trattiene. Io volevo stare in un posto più isolato, in Epiro, dove non potessero arrivare néPisone - per l'anno prossimo governatore della Macedonia - né i suoi soldati; ma Plancio ancora mi trattiene:spera che si possa combinare in modo da partire insieme con me per l'Italia. Se mai vedrò un tal giorno e se mairiuscirò ad abbracciarvi e a recuperare a un tempo il mio e il vostro decoro, mi sembrerà d'aver colto il frutto piùcospicuo del vostro affetto per me e del mio per voi.L'affabilità, l'umanità, i sentimenti del nostro genero Pisone nei contronti di voi tutti sono tanto grandi che nientepuò superarli. Volesse il cielo che ne ricavasse soddisfazione! Perché quanto a gloria vedo che non glienemancherà. Non ti ho fatto alcun rilievo a proposito di mio fratello Quinto, ma vi avrei voluti tutti stretti l'unoall'altro il più possibile, specie ora che siete tanto pochi. Ho ringraziato quelli che tu volevi che ringraziassi e hoscritto che tu me ne avevi informato.Terenzia cara, mi dici che hai intenzione di vendere un'intera proprietà: ma ti supplico, dal fondo della miadisperazione, di considerarne le conseguenze... E se il destino dovesse continuare a perseguitarci, che sarà delnostro disgraziato ragazzo? Non resisto a scrivere oltre: sono sopraffatto dalla commozione e non vorrei farepiangere anche te. Mi limito a questo: se potremo contare su amici fedeli, denaro non ne mancherà; se gli amiciverranno me no, col tuo denaro non ce la farai mai. In nome delle nostre deplorevoli condizioni, guarda che nonroviniamo del tutto un ragazzo gia in rovina: se potrà contare su qualcosa che lo sottragga al bisogno immediato, aottenere il resto gli occorrerà solo un minimo di coraggio e un minimo di buona sorte. Cerca di star bene e mantienii contatti necessari per farmi sapere quel che succede e quel che fate voi. Ma oramai ho ben poco da aspettarmi. Unpensiero a Tulliola e Cicerone. Addio.Durazzo, 26 novembre.Sono venuto a Durazzo sia perché è una città libera e in cui conto delle aderenze, sia perché è il punto più vicinoall'Italia; ma se, trattandosi di un posto di gran passaggio, dovesse verificarsi qualche inconveniente, mi trasferiròaltrove e te ne terrò informata per lettera. |
"At non numquam ea, quae praedicta sunt, minus eveniunt." Quae tandem id ars non habet? Earum dico artium, quae coniectura continentur et sunt opinabiles. An medicina ars non putanda est? Quam tamen multa fallunt. Quid? Gubernatores nonne falluntur? An Achivorum exercitus et tot navium rectores non ita profecti sunt ab Ilio, ut "profectione laeti piscium lasciviam intuerentur," ut ait Pacuvius, "nec tuendi satietas capere posset"?"Interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,tenebrae conduplicantur noctisque et nimbum occaecat nigror."Num igitur tot clarissimorum ducum regumque naufragium sustulit artem gubernandi? Aut num imperatorum scientia nihil est, quia summus imperator nuper fugit amisso exercitu? Aut num propterea nulla est rei publicae gerendae ratio atque prudente, quia multa Cn.Pompeium, quaedam M. Catonem, non nulla etiam te ipsum fefellerunt? Similis est haruspicum responsio omnisque opinabilis divinatio; coniectura enim nititur, ultra quam progredi non potest. Ea fallit fortasse non numquam, sed tamen ad veritatem saepissime dirigit; est enim ab omni aeternitate repetita, in qua, cum paene innumerabiliter res eodem modo evenirent isdem signis antegressis, ars est effecta eadem saepe animadvertendo ac notando. | "Ma," si obietta, "talvolta cose che sono state predette non accadono." Rispondo: "Quale arte è immune da questa eventualità?" Mi riferisco, s'intende, a quelle arti che si basano su congetture e sono opinabili. Forse non si deve considerare come un'arte la medicina? Eppure in molti casi cade in errore. E quelli che guidano le navi, non sbagliano mai? Non accadde forse che le truppe achee, con tanti comandanti di navi, ripartissero da Ilio "guardando, lieti per la partenza, i pesci guizzanti in mare," come dice Pacuvio, "né venissero presi da sazietà di godersi lo spettacolo?".Ma "frattanto, quando il sole già sta per calare, il mare incomincia ad agitarsi, il buio si raddoppia, il nero della notte e quello dei nembi acciecano lo sguardo..."Dunque il naufragio di tanti famosissimi condottieri e sovrani ha tolto ogni credito all'arte di pilotare le navi? Oppure l'arte militare non val niente, per il fatto che poco tempo fa un comandante supremo è fuggito lasciando l'esercito sconfitto? O la capacità e l'avvedutezza nel governare lo Stato non esistono, perché in molti errori incorse Gneo Pompeo, in parecchi Marco Catone, in qualcuno anche tu? Uguale è il caso dei responsi degli arùspici, e ogni genere di divinazione è opinabile: si basano su congetture, oltre le quali non è possibile spingersi. Può darsi che talvolta la congettura sia ingannevole, ma spessissimo conduce alla verità: il suo inizio, difatti, si perde nella notte dei tempi, e siccome innumerevoli volte, dopo che si erano manifestati gli stessi presagi, accadevano quasi sempre gli stessi eventi, si è costituita l'arte divinatoria con l'osservare e col registrare più volte le stesse cose. |
Hunc igitur Cethegum consecutus est aetate Cato, qui annis ix post eum fuit consul. eum nos ut perveterem habemus, qui L. Marcio M'. Manilio consulibus mortuus est, annis lxxxvi ipsis ante me consulem. nec vero habeo quemquam antiquiorem, cuius quidem scripta proferenda putem, nisi quem Appi Caeci oratio haec ipsa de Pyrrho et nonnullae mortuorum laudationes forte delectant. | A questo Cetego tenne dunque dietro, in ordine di tempo, Catone, che fu console nove anni dopo di lui. Noi lo consideriamo molto antico, eppure morì sotto il consolato di Lucio Marcio e Manio Manilio, ottantasei anni prima che io fossi console. E in verità non saprei nominare nessuno più antico, i cui scritti io ritenga degni di venir citati; salvo che non trovino ammiratori proprio l'orazione di Applo Cieco su Pirro, e certi elogi funebri. |
Quis est autem, quem non moveat clarissumis monumentis testata consignataque antiquitas? Calchantem augurem scribit Homerus longe optumum, eumque ducem classium fuisse ad Ilium, - auspiciorum, credo, scientia, non locorum. Amphilochus et Mopsus Argivorum reges fuerunt, sed iidem augures, iique urbis in ora marituma Ciliciae Graecas condiderunt; atque etiam ante hos Amphiaraus et Tiresias non humiles et obscuri neque eorum similes, ut apud Ennium est,"qui sui quaestus causa fictas suscitant sententias"sed clari et praestantes viri, qui avibus et signis admoniti futura dicebant; quorum de altero etiam apud inferos Homerus ait solum sapere, ceteros umbrarum vagari modo; Amphiaraum autem sic bonoravit fama Graeciae, deus ut haberetur, atque ut ab eius solo, in quo est humatus, oracla peterentur.Quid? Asiae rex Priamus nonne et Helenum filium et Cassandram filiam divinantes habebat, alterum auguriis, alteram mentis incitatione et permotione divina? Quo in genere Marcios quosdam fratres, nobili loco natos, apud maiores nostros fuisse scriptum videmus. Quid? Polyidum Corinthium nonne Homerus et aliis multa et filio ad Troiam proficiscenti mortem praedixisse commemorat? Omnino apud veteres, qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant; ut enim sapere sic divinare regale ducebant: [ut] testis est nostra civitas, in qua et reges augures et postea privati eodem sacerdotio praediti rem publicam religionum auctoritate rexerunt. | Chi, d'altra parte, non rimane impressionato dall'antichità dei fatti testimoniati e garantiti da documenti di gran valore? Omero dice che Calcante fu l'àugure di gran lunga migliore di tutti, e che guidò le navi greche fino a Ilio, grazie alla sua conoscenza degli auspicii, credo bene, non a quella dei luoghi. Anfiloco e Mopso furono re degli argivi, ma anche àuguri, e fondarono città greche sulla costa della Cilicia. E ciò fecero prima di loro Anfiarao e Tiresia, non gente bassa e ignota, non simili a quelli di cui parla Ennio,"che per bisogno di guadagnare inventano false profezie",ma uomini famosi e valenti, che interpretando il volo degli uccelli e i segni premonitori dicevano il futuro. Del secondo di essi Omero dice che anche negl'inferi è l'unico ad aver senno, gli altri errano al pari di ombre; quanto poi ad Anfiarao, la fama acquistatasi presso i greci gli procurò tanto onore, che fu considerato un dio e gli si chiedevano oracoli che emanassero dal suo suolo, là dove era stato sotterrato. E Priamo, il re dell'Asia, non aveva due figli capaci di divinazione, Eleno e Cassandra, il primo mediante gli augurii, l'altra per esaltazione e follìa divina? Profeti di questo secondo genere furono presso di noi in tempi antichi (ne abbiamo menzione scritta) certi fratelli Marcii, di famiglia nobile. E Poliido corinzio, non predisse la morte - lo narra Omero - al figlio che partiva per la guerra di Troia, e molte altre cose ad altri? In generale, nei tempi antichi i sovrani erano anche maestri di arte augurale: consideravano come una dote regale la divinazione al pari della sapienza nel governare. Ne è testimone la nostra città, nella quale dapprima furono àuguri i re, poi alcuni privati cittadini, muniti di questa stessa carica sacerdotale, governarono la repubblica con l'autorità promanante dalle credenze religiose. |
Ita nobismet ipsis accidit ut, quamquam essent multo magis alia lugenda, tamen hoc doleremus quod, quo tempore aetas nostra perfuncta rebus amplissimis tamquam in portum confugere deberet non inertiae neque desidiae, sed oti moderati atque honesti, cumque ipsa oratio iam nostra canesceret haberetque suam quandam maturitatem et quasi senectutem, tum arma sunt ea sumpta, quibus illi ipsi, qui didicerant eis uti gloriose, quem ad modum salutariter uterentur non reperiebant. | Così a me stesso è accaduto che, per quanto vi fossero ben altre sventure di cui lagnarsi, tuttavia soprattutto di una cosa ho dovuto affliggermi: nel periodo in cui un uomo della mia età, dopo avere ottenuto i più grandi successi, avrebbe dovuto rifugiarsi, per così dire, in un porto non di inerzia né di inoperosità, ma di una tranquillità moderata e onorevole, e quando la mia eloquenza ormai incominciava a incanutire, e aveva raggiunto una certa sua maturità, e quasi vecchiaia, allora venne dato di piglio alle armi: quelle armi che proprio coloro i quali avevano appreso a far di esse un uso glorioso, non trovavano il modo di impiegare in maniera salutare. |
Et nescio an reliquis in rebus omnibus idem eveniat: nihil est enim simul et inventum et perfectum; nec dubitari debet quin fuerint ante Homerum poetae, quod ex eis carminibus intellegi potest, quae apud illum et in Phaeacum et in procorum epulis canuntur. quid, nostri veteres versus ubi sunt?quos olim Fauni vatesque canebant,cum neque Musarum scopulosnec dicti studiosus quisquam erat ante huncait ipse de se nec mentitur in gloriando: sic enim sese res habet.nam et Odyssia Latina est sic [in] tamquam opus aliquod Daedali et Livianae fabulae non satis dignae quae iterum legantur. | E lo stesso forse avviene in tutte le altre cose; non vi è infatti niente che venga insieme scoperto e portato a perfezione; e non si deve dubitare che vi siano stati poeti prima di Omero: lo si può desumere da quei carmi che, nei suoi poemi, vengono cantati durante i banchetti dei feaci e dei pro ci."' E i nostri antichi versi, dove sono? Quelli che una volta cantavano i Fauni e i vati, quando né le rupi delle Muse ... né alcuno prima di me fu appassionato intenditore di lettere. Così dice di sé, e non mente nel vantarsi: giacché è proprio così. L'Odissea latina è come un'opera di Dedalo, e i lavori teatrali di Livio non meritano di venir letti più di una volta. |
Rem publicam, Quirites, vitamque omnium vestrum bona, fortunas, coniuges liberosque vestros atque hoc domicilium clarissumi imperii, fortunatissimam pulcherrimamque urbem, hodierno die deorum inmortalium summo erga vos amore, laboribus, consiliis, periculis meis e flamma atque ferro ac paene ex faucibus fati ereptam et vobis conservatam ac restitutam videtis. | È lo Stato, Quiriti, è la vita di voi tutti, sono i beni, le proprietà, le vostre mogli e i vostri figli, è la capitale di un impero al culmine della gloria, è Roma, città che gode della massima fortuna e prosperità, è tutto questo che, oggi, vedete strappato al fuoco e al ferro, quasi alle fauci di un destino funesto, che vedete salvo e a voi restituito grazie alla suprema benevolenza che gli dèi immortali vi concedono e grazie ai miei sforzi, alle mie iniziative, ai pericoli che ho affrontato. |
Sed maximum est in amicitia parem esse inferiori. Saepe enim excellentiae quaedam sunt, qualis erat Scipionis in nostro, ut ita dicam, grege. Numquam se ille Philo, numquam Rupilio, numquam Mummio anteposuit, numquam inferioris ordinis amicis, Q. vero Maximum fratrem, egregium virum omnino, sibi nequaquam parem, quod is anteibat aetate, tamquam superiorem colebat suosque omnes per se posse esse ampliores volebat. | Ma il presupposto fondamentale dell'amicizia è mettersi al livello di chi è inferiore. Spesso ci sono uomini di levatura superiore, come Scipione nel nostro gruppo. Eppure non fece pesare mai la sua posizione a Filo, mai a Rupilio, mai a Mummio, mai agli amici di rango inferiore. Anzi, onorava come un superiore, perché più vecchio di lui, suo fratello Quinto Massimo, uomo sì di grandi capacità, ma non del suo livello, e voleva offrire a ogni amico la possibilità di innalzare la propria posizione. |
Q. Metellus Numidicus et eius conlega M. Silanus dicebant de re publica quod esset illis viris et consulari dignitati satis. M. Aurelius Scaurus non saepe dicebat, sed polite; Latine vero in primis est eleganter locutus. quae laus eadem in A. Albino bene loquendi fuit; nam flamen Albinus etiam in numero est habitus disertorum; Q. etiam Caepio, vir acer et fortis, cui fortuna belli crimini, invidia populi calamitati fuit. | Quinto Metello Numidico e il suo collega Marco Silano nelle deliberazioni politiche parlavano in maniera confacente a tali personaggi e alla dignità consolare. Marco Aurelio Scauro non parlava spesso, ma lo faceva in modo forbito; si distingueva per l'eleganza e la purezza della sua dizione. Lo stesso pregio di un bel parlare ebbe Aulo Albino, quanto ad Albino il flamine, venne annoverato tra gli oratori facondi; e così anche Quinto Cepione, uomo energico e coraggioso, cui l'avversa fortuna in guerra fu motivo di accusa, e l'avversione del popolo di rovina. |
Fiunt certae divinationum coniecturae a peritis. Midae illi Phrygi, cum puer esset, dormienti formicae in os tritici grana congesserunt. Divitissumum fore praedictum est; quod evenit. At Platoni cum in cunis parvulo dormienti apes in labellis consedissent, responsum est singolari illum suavitate orationis fore: ita futura eloquente provisa in infante est. Quid? amores ac deliciae tuae, Roscius, num aut ipse aut pro eo Lanuvium totum mentiebatur? Qui cum esset in cunabulis educareturque in Solonio, qui est campus agri Lanuvini, noctu lumine apposito experrecta nutrix animadvertit puerum dormientem circumplicatum serpentis amplexu.Quo aspectu exterrita clamorem sustulit. Pater autem Rosci ad haruspices rettulit, qui responderunt nihil illo pucro clarius, nihil nobilius fore. Atque hanc speciem Pasiteles caelavit argento et noster expressit Archias versibus.Quid igitur expectamus? An dum in foro nobiscum di immortales, dum in viis versentur, dum domi? Qui quidem ipsi se nobis non offerunt, vim autem suam longe lateque diffundunt, quam tum terrae cavernis includunt, tum hominum naturis implicant. Nam terrae vis Pythiam Delphis incitabat, naturae Sibyllam. Quid enim? Non videmus quam sint varia terrarum genera? Ex quibus et mortifera quaedam pars est, ut et Ampsancti in Hirpinis et in Asia Plutonia quae vidimus, et sunt partes agrorum aliae pestilentes, aliae salubres, aliae quae acuta ingenia gignant, aliae quae retusa: quac omnia fiunt et ex caeli varietate et ex disparili adspiratione terrarum.Fit etiam saepe specie quadam, saepe vocum gravitate et cantibus, ut pellantur animi vehementius, saepe etiam cura et timore, qualis est illa"flexanima tamquam lymphata aut Bacchi sacriscommota in tumulis Teucrum commemorans suum." | Gli esperti sono capaci di prevedere spesso con certezza il futuro. A quel famoso Mida frigio, ancora bambino, delle formiche ammucchiarono in bocca, mentre dormiva, chicchi di grano. Fu predetto che sarebbe divenuto ricchissimo; e la predizione si avverò. Ma a Platone, da piccolo, delle api si posarono sulle labbra mentre dormiva in culla. Gli indovini dettero il responso che egli sarebbe stato dotato di straordinaria dolcezza di eloquio: così la sua eloquenza futura fu prevista quando era ancora un neonato. E Roscio, da te tanto amato e ammirato, mentiva egli stesso o mentiva per lui tutta Lanuvio? Era ancora in culla ed era allevato nel Solonio, che è una località campestre presso Lanuvio. Di notte, la sua nutrice si svegliò (una lampada accanto faceva luce), e vide che il bambino addormentato era avvolto entro le spire di un serpente. Atterrita da quella vista, lanciò un grido. Il padre di Roscio riferì la cosa agli arùspici, i quali risposero che nulla al mondo sarebbe stato più insigne, più famoso di quel bambino. E questa scena Pasitele la cesellò in argento e il nostro Archia la narrò in poesia.Che cosa aspettiamo, dunque? Che gli dèi immortali s'intrattengano con noi nel fòro, per la strada, in casa? Certo, essi non si presentano a noi direttamente, ma diffondono per lungo e per largo il loro influsso; e ora lo immettono negli antri sotterranei, ora lo infondono in anime umane. La forza della terra ispirava la Pizia a Delfi, la forza della sua stessa indole incitava la Sibilla. E non vediamo dunque quanto varii siano i tipi di terra? Ve ne sono di mortiferi, come Ampsancto in Irpinia e i Plutonia che io ho visto in Asia; vi sono plaghe, alcune pestifere, altre salubri; in alcune nascono uomini di ingegno acuto, in altre ottuso; tutto ciò dipende sia dalla diversità dei climi, sia dalle differenti esalazioni dei terreni.Avviene anche che spesso per qualche apparizione, spesso per voci profonde o canti, l'animo umano subisca una particolare eccitazione; spesso anche per ansia e timore, come quella"con l'animo sconvolto, come invasata o scossa dal furore dei riti bacchici, su per i colli, invocando il suo Teucro". |
Constituendi autem sunt qui sint in amicitia fines et quasi termini diligendi. De quibus tres video sententias ferri, quarum nullam probo, unam, ut eodem modo erga amicum adfecti simus, quo erga nosmet ipsos, alteram, ut nostra in amicos benevolentia illorum erga nos benevolentiae pariter aequaliterque respondeat, tertiam, ut, quanti quisque se ipse facit, tanti fiat ab amicis. | Inoltre dobbiamo stabilire quali siano i confini nell'amicizia e, per così dire, i limiti precisi dell'affetto. Riguardo a ciò vedo che si propongono tre opinioni, nessuna delle quali approvo: una è che proviamo affetto verso i nostri amici nello stesso modo in cui noi ne proviamo per noi stessi; la seconda è che il nostro affetto per gli amici corrisponda ugualmente e uniformemente all'affetto di quelli nei nostri confronti; la terza è che ciascuno sia stimato dagli amici tanto quanto stimi se stesso. |
Accedat huc suavitas quaedam oportet sermonum atque morum, haudquaquam mediocre condimentum amicitiae. Tristitia autem et in omni re severitas habet illa quidem gravitatem, sed amicitia remissior esse debet et liberior et dulcior et ad omnem comitatem facilitatemque proclivior. | Conviene aggiungere, infine, la dolcezza di parola e di modi, condimento per nulla trascurabile dell'amicizia. Il cattivo umore e la continua serietà comportano sì un tono di sostenutezza, ma l'amicizia deve essere più rilassata, più libera, più dolce, più incline a ogni forma di amabilità e di cortesia. |
TULLIUS TERENTIAE SUAE S. D.In maximis meis doloribus excruciat me valetudo Tulliae nostrae, de qua nihil est quod ad te plura scribam; tibi enim aeque magnae curae esse certo scio. Quod me proprius vultis accedere, video ita esse faciendum: etiam ante fecissem, sed me multa impediverunt, quae ne nunc quidem expedita sunt. Sed a Pomponio exspecto litteras, quas ad me quam primum perferendas cures velim. Da operam, ut valeas. | CICERONE A TERENZIACon tutto quello che adesso mi sta tormentando, grande è la mia angoscia per la salute della nostra Tullia. Nonho qui bisogno di spendere con te tante parole: sono più che sicuro che la tua preoccupazione è pari alla mia. Voivolete che mi sposti più vicino a voi e mi rendo conto che va fatto così. L'avrei fatto anche prima, ma diversecircostanze me l'hanno impedito, e non è che neanche oggi le difficoltà siano state rimosse. Però aspetto unacomunicazione da Pomponio e anzi gradirei che ne sollecitassi la spedizione. Non trascurare la tua salute. |
Maxime autem perturbantur officia in amicitiis, quibus et non tribuere, quod recte possis et tribuere quod non sit aequum, contra officium est. Sed huius generis totius breve et non difficile praeceptum est. Quae enim videntur utilia, honores, divitiae, voluptates, cetera generis eiusdem, haec amicitiae numquam anteponenda sunt. At neque contra rem publicam neque contra ius iurandum ac fidem amici causa vir bonus faciet, ne si iudex quidem erit de ipso amico; ponit enim personam amici, cum induit iudicis.Tantum dabit amicitiae, ut veram amici causam esse malit, ut orandae litis tempus, quoad per leges liceat, accomodet. | In modo particolare, poi, c'è confusione tra i doveri nelle amicizie, perché è contrario al dovere non concedere agli amici quello che si potrebbe dare giustamente e concedere loro quanto non sarebbe giusto. Ma per tutta questa specie di casi c'è una regola breve e semplice: ciò che sembra utile, onori, ricchezze, piaceri ed altre cose simili, non deve essere mai anteposto all'amicizia. Ma un uomo onesto non compirà mai, per un amico, un'azione contraria allo Stato o a un giuramento o alla parola data, neanche se dovrà giudicare lo stesso amico, perché nell'indossare i panni di giudice deporrà quelli di amico. Concederà solo all'amicizia di preferire che la causa dell'amico sia giusta, di accordargli, entro i limiti della legge, il tempo occorrente per difendere la sua causa. |
Optare hoc quidem est, non disputare. Nam neque extrinsecus inpulsam atomum loco moveri et declinare dicis, neque in illo inani, per quod feratur atomus, quicquam fuisse causae, cur ea non e regione ferretur, nec in ipsa atomo mutationis aliquid factum est quam ob rem naturalem motum sui ponderis non teneret. Ita cum attulisset nullam causam, quae istam declinationem efficeret, tamen aliquid sibi dicere videtur, cum id dicat, quod omnium mentes aspernentur ac respuant. | A tuo dire, né l'atomo si sposta dal proprio asse e devia perché colpito dall'esterno, né c'è nel vuoto, in cui l'atomo si muove, una qualche causa per cui l'atomo stesso non debba procedere perpendicolarmente, né nell'atomo stesso è intervenuto mutamento di sorta, per cui non possa mantenere il movimento naturale dovuto al peso. Così, senza aver addotto alcuna causa capace di produrre tale deviazione, Epicuro presume di aver fornito una spiegazione di rilievo, quando invece sostiene una tesi che il buon senso di ognuno rifiuta e respinge. |
Videmus haec signa numquam fere ementientia nec tamen cur ita fiat videmus."Vos quoque signa videtis, aquai dulcis alumnae,cum clamore paratis inanis fundere vocesabsurdoque sono fontis et stagna cietis."Quis est, qui ranunculos hoc videre suspicari possit? Sed inest in ranunculis vis et natura quaedam significans aliquid, per se ipsa satis certa, cognitioni autem hominum obscurior."Mollipedesque boves, spectantes lumina caeli,naribus umiferum duxere ex aëre sucum."Non quaero cur, quoniam quid eveniat intellego."lam vero semper viridis semperque gravatalentiscus, triplici solita grandescere fetu,ter fruges fundens tria tempora monstrat arandi."Ne hoc quidem quaero, cur haec arbor una ter fioreat aut cur arandi maturitatem ad signum floris accommodet; hoc sum contentus, quod, etiamsi cur quidque fiat ignorem, quid fiat intellego.Pro omni igitur divinatione idem quod pro rebus iis quas commemoravi respondebo. | Vediamo che questi indizi non mentono quasi mai, eppure non vediamo perché ciò accada."Anche voi, nutrite di acqua dolce, vedete i segni della tempesta, quando vi apprestate a lanciare vani richiami a gran voce, e con stridule grida turbate le fonti e gli stagni."Chi potrebbe immaginare che le ranocchie prevedano la tempesta? Ma è insito nelle ranocchie un potere di presagire qualcosa: un potere difficilmente negabile in quanto tale, anche se non ben comprensibile alla ragione umana."E i bovi che incedono lenti, con lo sguardo rivolto al cielo luminoso, aspirano dalle narici l'umido vapore dell'aria."Non domando il perché, dal momento che constato che il presagio si avvera."Inoltre, sempre verde e sempre carico di bacche, il lentisco, che suole arricchirsi di un triplice frutto, tre volte effondendo la sua messe preannuncia i tre tempi dell'aratura."Nemmeno questo chiedo, perché quel solo albero fiorisca tre volte o perché con la fioritura indichi che è tempo di arare; mi accontento di sapere che cosa accada, pur ignorando perché accada. In difesa di ogni genere di divinazione, dunque, darò la stessa risposta che ho dato per quei presagi che ho menzionato. |
Ipsa enim natura circumscriptione quadam verborum comprehendit concluditque sententiam, quae cum aptis constricta verbis est, cadit etiam plerumque numerose. nam et aures ipsae quid plenum, quid inane sit iudicant et spiritu quasi necessitate aliqua verborum comprensio terminatur; in quo non modo defici, sed etiam laborare turpe est. | Infatti la natura stessa abbraccia e circoscrive con un certo giro di parole il pensiero; e quando questo è costretto entro parole ben concatenate, assume per lo più anche una cadenza ritmica. Giacché è l'orecchio stesso a distinguere i pieni e i vuoti, e l'estensione del periodo è limitata, per così dire necessariamente, dal respiro: farselo mancare, o anche solo mostrarsi affaticati, produce un pessimo effetto. |
Q. METELLUS Q. F. CELER PROCOS. S. D. M. TULLIO CICERONI.Si vales, bene est. Existimaram pro mutuo inter nos animo et pro reconciliata gratia nec absentem me a te ludibrio laesum iri nec Metellum fratrem ob dictum capite ac fortunis per te oppugnatum iri; quem si parum pudor ipsius defendebat, debebat vel familiae nostrae dignitas vel meum studium erga vos remque publicam satis sublevare: nunc video illum circumventum, me desertum, a quibus minime conveniebat.Itaque in luctu et squalore sum, qui provinciae, qui exercitui praesum, qui bellum gero: quae quoniam nec ratione nec maiorum nostrorum clementia administrastis, non erit mirandum, si vos poenitebit. Te tam mobili in me meosque esse animo non speraram: me interea nec domesticus dolor nec cuiusquam iniuria ab re publica abducet. | METELLO CELERE A CICERONEMi farà piacere saperti in buona salute. Considerando il reciproco rispetto che ci lega e i cordiali rapporti ristabilitisitra noi, non avrei mai creduto di dover essere da te offeso e pubblicamente insultato in mia assenza; né che mio fratello,per una frase, sarebbe stato attaccato da parte tua nella pienezza dei suoi diritti di cittadino. Se poco valeva a difenderlola sua personale dignità, sarebbero dovuti bastare a tutelarlo o il rango della nostra famiglia o la mia devozione neiconfronti nostri e dello stato. Ora vedo chiaramente che lui è caduto in una trappola e che io sono stato abbandonato; etutto ciò per opera di quelli, cui meno sarebbe convenuto. Ed eccomi in preda all'angoscia e al ludibrio, io che ho laresponsabilità di una provincia, di un esercito, della condotta di una guerra. E poiché il nostro comportamento in talecircostanza non è né conforme a ragione né compatibile con la generosità del nostro sangue , nulla di strano se avrete apentirvene.Non mi aspettavo che i tuoi sentimenti per me e per i miei fossero tanto volubili. Ma intanto non l'afflizione della miacasa, non l'ingiuria di alcuno potranno distogliermi dal servire i pubblici interessi. [Addio]. |
Quae cum ita sint, pro imperio, pro exercitu, pro provincia, quam neglexi, pro triumpho ceterisque laudis insignibus, quae sunt a me propter urbis vestraeque salutis custodiam repudiata, pro clientelis hospitiisque provincialibus, quae tamen urbanis opibus non minore labore tueor quam comparo, pro his igitur omnibus rebus, pro meis in vos singularibus studiis proque hac, quam perspicitis, ad conservandam rem publicam diligentia nihil a vobis nisi huius temporis totiusque mei consulatus memoriam postulo; quae dunn erit in vestris fixa mentibus, tutissimo me muro saeptum esse arbitrabor.Quodsi meam spem vis inproborum fefellerit atque superaverit, commendo vobis parvum meum filium, cui profecto satis erit praesidii non solum ad salutem, verum etiam ad dignitatem, si eius, qui haec omnia suo solius periculo conservarit, illum filium esse memineritis. | A questo punto, in cambio del comando supremo, dell'esercito e della provincia che non ho voluto, in cambio del trionfo e di altre dimostrazioni di onore cui ho rinunciato per provvedere alla vostra salvezza e a quella di Roma, in cambio dei rapporti di clientela e di ospitalità nelle province, rapporti che, con le mie risorse in città tutelo con la stessa fatica con cui li amplio, insomma, in cambio di tutti questi vantaggi, in cambio della singolare devozione che vi ho dimostrato e della mia solerzia nel salvare lo Stato, di cui avete testimonianza, non vi chiedo altro se non di ricordare questo momento e tutto il mio consolato. Finché questo ricordo rimarrà fisso nella vostra mente, riterrò di essere protetto dal muro più saldo. E se la forza dei sovversivi riuscisse a tradire le mie aspettative e ad avere la meglio, vi raccomando il mio figlioletto, cui non mancherà certo la vostra protezione nella vita e nella carriera politica, se rammenterete che è figlio di colui che ha salvato tutto questo a rischio della sua sola esistenza. |
Accedebat ordo rerum plenus artis, actio liberalis totumque dicendi placidum et sanum genus. quod si est optumum suaviter dicere, nihil est quod melius hoc quaerendum putes. sed cum a nobis paulo ante dictum sit tria videri esse quae orator efficere deberet, ut doceret, ut delectaret, ut moveret, duo summe tenuit, ut et rem inlustraret disserendo et animos eorum qui audirent devinciret voluptate; aberat tertia illa laus, qua permoveret atque incitaret animos, quam plurumum pollere diximus; nec erat ulla vis atque contentio: sive consilio, quod eos quorum altior oratio actioque esset ardentior furere et bacchari arbitraretur, sive quod natura non esset ita factus sive quod non consuesset sive quod non posset.hoc unum illi, si nihil utilitatis habebat, afuit; si opus erat, defuit. | A ciò si aggiungeva una disposizione molto studiata degli argomenti, un'azione oratoria dalla signorile eleganza, e un'eloquenza nell'insieme placida e di buon gusto. Se la perfezione consiste nel parlare in maniera gradevole, non c'è da pensare di poter trovare di meglio di lui. Ma poco fa ho detto che, secondo me, tre sono i risultati che l'oratore deve ottenere - cioè di informare, di dilettare, di suscitare forti emozioni -: ora, per due di queste cose egli aveva un talento eccellente, cioè per delucidare una materia tramite la discussione, e per tenere avvinti gli animi degli ascoltatori col godimento che loro procurava; gli mancava la terza qualità, quella che consiste nello smuovere e nell'eccitare gli animi: ed è questa, come ho detto, che conta più di tutto. E in lui non c'era neanche vigore, né impeto: vuoi di proposito, perché convinto che quanti avevano una qualche elevatezza di stile e un po' di ardore nell'azione si comportassero come dei pazzi furiosi, o fossero in preda a un delirio da baccanti; vuoi che la sua natura non fosse fatta per una cosa del genere, vuoi che gliene mancasse la consuetudine, vuoi che proprio non gli fosse possibile. Questo soltanto, se si trattava di una cosa del tutto inutile, egli non l'ebbe; ovvero, se si trattava di una qualità indispensabile, gli fece difetto. |
M. Drusus C. f., qui in tribunatu C. Gracchum conlegam iterum tribunum fregit, vir et oratione gravis et auctoritate, eique proxime adiunctus C. Drusus frater fuit. tuus etiam gentilis, Brute, M. Pennus facete agitavit in tribunatu C. Gracchum paulum aetate antecedens. fuit enim M. Lepido et L. Oreste consulibus quaestor Gracchus, tribunus Pennus illius Marci filius, qui cum Q. Aelio consul fuit; sed is omnia summa sperans aedilicius est mortuus.nam de T. Flaminino, quem ipse vidi, nihil accepi nisi Latine diligenter locutum. | Marco Druso figlio di Gaio, che nel suo tribunato abbatté il collega Gaio Gracco, tribuno per la seconda volta, fu un personaggio di grande rilievo, per eloquenza e per autorevolezza; e molto gli si avvicinava il fratello Gaio Druso. E anche un tuo parente, Bruto, cioè Marco Penno, quand'era tribuno attaccò in maniera arguta Gaio Gracco, che era di poco più anziano di lui. Sotto il consolato di Marco Lepido e di Lucio Oreste Gracco fu infatti questore, e Penno tribuno; era figlio di quel Marco Penno, che fu console insieme a Quinto Elio; ma, per quanto potesse aspirare a una carriera brillantissima, morì dopo aver raggiunto solo il grado di edile. Di Tito Flaminino, poi, che anch'io ho potuto vedere, nient'altro ho sentito dire se non che parlava un corretto latino. |
Nihil est enim virtute amabilius, nihil quod magis adliciat ad diligendum, quippe cum propter virtutem et probitatem etiam eos, quos numquam vidimus, quodam modo diligamus. Quis est qui C. Fabrici, M'. Curi non cum caritate aliqua benevola memoriam usurpet, quos numquam viderit? quis autem est, qui Tarquinium Superbum, qui Sp. Cassium, Sp. Maelium non oderit? Cum duobus ducibus de imperio in Italia est decertatum, Pyrrho et Hannibale; ab altero propter probitatem eius non nimis alienos animos habemus, alterum propter crudelitatem semper haec civitas oderit. | Niente è più amabile della virtù, niente spinge di più a voler bene, se è vero che proprio per la loro virtù e moralità ci sono care, in un certo senso, anche persone che non abbiamo mai visto. Chi non si ricorda con stima e affetto di Caio Fabrizio e Manlio Curio, pur non avendoli mai visti? Chi, invece, non odia Tarquinio il Superbo, Spurio Cassio e Spurio Melio? Contro due condottieri abbiamo combattuto per la supremazia in Italia: Pirro e Annibale. Il primo, per la sua onestà, non lo detestiamo sino in fondo, ma il secondo, per la sua crudeltà, Roma lo odierà in eterno. |
Sed de hoc loco plura in aliis, nunc hactenus. Externa enim auguria, quae sunt non tam artificiosa quam superstitiosa, videamus. Omnibus fere avibus utuntur, nos admodum paucis; alia illis sinistra sunt, alia nostris. Solebat ex me Deiotarus percontari nostri augurii disciplinam, ego ex illo sui. Di immortales, quantum differebat!, ut quaedam essent etiam contraria. Atque ille iis semper utebatur, nos, nisi dum a populo auspicia accepta habemus, quam multum iis utimur? Bellicam rem administrari maiores nostri nisi auspicato noluerunt; quam multi anni sunt, cum bella a proconsulibus et a propraetoribus administrantur, qui auspicia non habent?Itaque nec amnis transeunt auspicato, nec tripudio auspicantur.Ubi ergo avium divinatio? Quae, quoniam ab iis qui auspicia nulla habent bella administrantur, ab urbanis retenta videtur, a bellicis esse sublata. Nam ex acuminibus quidem, quod totum auspicium militare est, iam M. Marcellus ille quinquiens consul totum omisit, idem imperatori idem augur optumus. Et quidem ille dicebat, si quando rem agere vellet, ne impediretur auspiciis, lectica operta facere iter se solere. Huic simile est, quod nos augures praecipimus, ne iuges auspicium obveniat, ut iumenta iubeant diiungere. Quid est aliud, nolle moneri a Iove, nisi efficere ut aut ne fieri possit auspicium aut, si fiat, videri? | Ma, su ciò, più a lungo altrove: ora basta. Esaminiamo piuttosto gli augurii stranieri, che non appartengono tanto alla divinazione artificiale, quanto alla superstizione. Gli stranieri, per lo più, badano a tutti gli uccelli, noi a pochissimi. Alcuni augurii sono considerati favorevoli da loro, altri dai nostri. Deiòtaro era solito chiedermi notizie sulla nostra dottrina augurale, io sulla loro. Per gli dèi immortali, quante differenze!, fino al punto che alcuni precetti erano addirittura opposti. Ed egli ricorreva agli auspicii sempre: noi, tranne nel periodo in cui abbiamo il diritto di trarre gli auspicii, ricevuto dal popolo, in qual misura vi ricorriamo? I nostri antenati stabilirono che non si procedesse ad alcuna azione di guerra senza aver prima tratto gli auspicii; ma da quanti anni ormai vengono condotte guerre da proconsoli e propretori, che non hanno diritto agli auspicii? Perciò, né prendono gli auspicii prima di attraversare corsi d'acqua, né ricorrono al "tripudio". Dov'è andata a finire, dunque, la divinazione tratta dagli uccelli? Dal momento che le guerre sono condotte da chi non ha alcun diritto agli auspicii, sembra che tale divinazione sia stata mantenuta in vigore da chi si occupa del governo civile, soppressa nelle azioni militari. Ché quanto all'auspicio tratto dalle punte delle lance, che è esclusivamente di carattere militare, già Marco Marcello, quello che fu console cinque volte, lo trascurò del tutto: eppure fu ottimo comandante, ottimo àugure. E invero egli diceva che se talvolta voleva portare a compimento una spedizione militare, era solito viaggiare in una lettiga coperta, per non essere impedito dagli auspicii. A questo comportamento somiglia ciò che noi àuguri raccomandiamo, di far togliere dal giogo i giumenti, perché non càpiti un "auspicio aggiogato". Che cos'altro è, questo non voler essere avvertiti da Giove, se non fare in modo che un auspicio non possa avvenire o, qualora avvenga, non sia veduto? |
Saepe et multum hoc mecum cogitavi, bonine an mali plus attulerit hominibus et civitatibus copia dicendi ac summum eloquentiae studium. Nam cum et nostrae rei publicae detrimenta considero et maximarum civitatum veteres animo calamitates colligo, non minimam video per disertissimos homines invectam partem incommodorum; cum autem res ab nostra memoria propter vetustatem remotas ex litterarum monumentis repetere instituo, multas urbes constitutas, plurima bella restincta, firmissimas societates, sanctissimas amicitias intellego cum animi ratione tum facilius eloquentia comparatas.Ac me quidem diu cogitantem ratio ipsa in hanc potissimum sententiam ducit, ut existimem sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientia nimium obesse plerumque, prodesse numquam. [...] | Più volte e a fondo ho riflettuto tra me e me se una notevole facilità di parola e un forte interesse per l’eloquenza ha portato agli uomini e agli stati più male o bene. In effetti sia quando considero i danni recati alla nostra vita politica sia quando richiamo al pensiero le antiche sventure che colpirono grandissimi Stati, mi rendo conto che ad opera di uomini molto dotati sul piano oratorio è stata provocata una parte considerevole di guai; d’altro canto, però, quando mi accingo a richiamare alla mia mente sulla base delle testimonianze letterarie le vicende che per effetto della loro lontananza nel tempo sono state rimosse dalla nostra memoria, mi rendo conto che molte comunità civili sono state costituite, moltissime guerre risolte, rapporti assolutamente solidi di alleanza e vincoli sacri di amicizia sono stati ottenuti sia grazie alle ragioni dell’animo sia più facilmente per effetto dell’eloquenza. E quando rifletto a lungo è la stessa razionalità a spingermi soprattutto a questa conclusione, cioè a pensare che la saggezza senza l’apporto dell’eloquenza può giovare ben poco alla collettività, viceversa l’eloquenza staccata dalla saggezza per lo più porta un notevole danno, mai un giovamento. [...] |
Vetus opinio est iam usque ab heroicis ducta temporibus, eaque et populi Romani et omnium gentium firmata consensu, versari quandam inter homines divinationem, quam Graeci mantikh/n appellant, id est praesensionem et scientiam rerum futurarum. Magnifica quaedam res et salutaris, si modo est ulla, quaque proxime ad deorum vim natura mortalis possit accedere. Itaque ut alia nos melius multa quam Graeci, sic huic praestantissimae rei nomen nostri a divis, Graeci, ut Plato interpretatur, a furore duxerunt.Gentem quidem nullam video neque tam humanam atque doctam neque tam immanem tamque barbaram, quae non significari futura et a quibusdam intellegi praedicique posse censeat. Principio Assyrii, ut ab ultimis auctoritatem repetam, propter planitiam magnitudinemque regionum quas incolebant, cum caelum ex omni parte patens atque apertum intuerentur, traiectiones motusque stellarum observitaverunt, quibus notati, quid cuique significaretur memoriae prodiderunt. Qua in natione Chaldaei, non ex artis sed ex gentis vocabulo nominati, diuturna observatione siderum scientiam putantur effecisse, ut praedici posset, quid cuique eventurum et quo quisque fato natus esset. Eandem artem etiam Aegyptii longinquitate temporum innumerabilibus paene saeculis consecuti putantur Cilicum autem et Pisidarum gens et his finituma Pamphylia, quibus nationibus praefuimus ipsi, volatibus avium cantibus que certissimis signis declarari res futuras putant. Quam vero Graecia coloniam misit in Aeoliam, Ioniam, Asiam, Siciliam, Italiam sine Pythio aut Dodonaeo aut Hammonis oraculo? Aut quod bellum susceptum ab ea sine consilio deorum est? | È un'opinione antica, risalente ai tempi leggendari e corroborata dal consenso del popolo romano e di tutte le genti, che vi siano uomini dotati di una sorta di divinazione - chiamata dai greci mantiké -, cioè capaci di presentire il futuro e di acquisirne la conoscenza. Capacità magnifica e salutare, se davvero esiste, grazie alla quale la natura di noi mortali si avvicinerebbe il più possibile alla potenza degli dèi! E come in altri casi noi romani ci esprimiamo molto meglio dei greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto dalle divinità, mentre i greci, come spiega Platone, derivarono il nome corrispondente dalla follìa. Non conosco, in verità, alcun popolo, dai più civili e colti fino ai più efferati e barbari, che non creda che il futuro si manifesti con segni premonitori, e che esistano persone capaci di comprenderli e di spiegarli in anticipo. Incominciamo dalle testimonianze più antiche: per primi gli assiri, abitando vasti territori pianeggianti e potendo perciò vedere il cielo aperto fino all'orizzonte in ogni direzione, osservarono assiduamente i passaggi e i moti delle stelle, e, quando li ebbero registrati, tramandarono ai posteri quale presagio costituissero per ciascun individuo. Tra gli assiri, si ritiene che in particolare i caldèi - nome di una gente, non della loro arte - con l'incessante osservazione delle stelle abbiano fondato una scienza che permetteva di predire che cosa sarebbe accaduto a ciascuno e con quale destino ciascuno era nato. La stessa maestria si crede che abbiano raggiunto anche gli egiziani, nel corso di un tempo lunghissimo, durante secoli pressoché innumerevoli. Ancora: gli abitanti della Cilicia e della Pisidia e quelli, confinanti con loro, della Panfilia (genti, tutte, che io ho governato) credono che il volo e il canto degli uccelli servano a predire con la massima certezza il futuro. E la Grecia inviò mai dei propri abitanti a fondar colonie in Eolia, in Ionia, in Asia, in Sicilia, in Italia senza aver prima consultato l'oracolo di Delfi o quello di Dodona o quello di Ammone? E quale guerra fu intrapresa dai greci senza aver consultato gli dèi? |
M. CICERO S. D. L. LUCCEIO Q. F.Coram me tecum eadem haec agere saepe conantem deterruit pudor quidam paene subrusticus, quae nunc expromam absens audacius, epistula enim non erubescit. Ardeo cupiditate incredibili neque, ut ego arbitror, reprehendenda, nomen ut nostrum scriptis illustretur et celebretur tuis; quod etsi mihi saepe ostendisti te esse facturum, tamen ignoscas velim huic festinationi meae; genus enim scriptorum tuorum etsi erat semper a me vehementer exspectatum, tamen vicit opinionem meam meque ita vel cepit vel incendit, ut cuperem quam celerrime res nostras monumentis commendari tuis; neque enim me solum commemoratio posteritatis ad spem quandam immortalitatis rapit, sed etiam illa cupiditas, ut vel auctoritate testimonii tui vel indicio benevolentiae vel suavitate ingenii vivi perfruamur.Neque tamen, haec cum scribebam, eram nescius, quantis oneribus premerere susceptarum rerum et iam institutarum; sed, quia videbam Italici belli et civilis historiam iam a te paene esse perfectam, dixeras autem mihi te reliquas res ordiri, deesse mihi nolui, quin te admonerem, ut cogitares, coniunctene malles cum reliquis rebus nostra contexere an, ut multi Graeci fecerunt, Callisthenes Phocium bellum, Timaeus Pyrrhi, Polybius Numantinum, qui omnes a perpetuis suis historiis ea, quae dixi, bella separaverunt, tu quoque item civilem coniurationem ab hostilibus externisque bellis seiungeres. Equidem ad nostram laudem non multum video interesse, sed ad properationem meam quiddam interest non te exspectare, dum ad locum venias, ac statim causam illam totam et tempus arripere, et simul, si uno in argumento unaque in persona mens tua tota versabitur, cerno iam animo, quanto omnia uberiora atque ornatiora futura sint. Neque tamen ignoro, quani impudenter faciam, qui primum tibi tantum oneris imponam—potest enim mihi denegare occupatio tua—, deinde etiam, ut ornes me, postulem. Quid, si illa tibi non tanto opere videntur ornanda? Sed tamen, qui semel verecundiae fines transierit, eum bene et naviter oportet esse impudentem. Itaque te plane etiam atque etiam rogo, ut et ornes ea vehementius etiam, quam fortasse sentis, et in eo leges historiae negligas gratiamque illam, de qua suavissime quodam in prooemio scripsisti, a qua te flecti non magis potuisse demonstras quam Herculem Xenophontium illum a Voluptate, eam, si me tibi vehementius commendabit, ne aspernere amorique nostro plusculum etiam, quam concedet veritas, largiare. Quod si te adducemus, ut hoc suscipias, erit, ut mihi persuadeo, materies digna facultate et copia tua; a principio enim coniurationis usque ad reditum nostrum videtur mihi modicum quoddam corpus confici posse, in quo et illa poteris uti civilium commutationum scientia vel in explicandis causis rerum novarum vel in remediis incommodorum, cum et reprehendes ea, quae vituperanda duces, et, quae placebunt, exponendis rationibus comprobabis, et, si liberius, ut consuesti, agendum putabis, multorum in nos perfidiam, insidias, proditionem notabis. Multam etiam casus nostri varietatem tibi in scribendo suppeditabunt plenam cuiusdam voluptatis, quae vehementer animos hominum in legendo tuo scripto retinere possit; nihil est enim aptius ad delectationem lectoris quam temporum varietates fortunaeque vicissitudines: quae etsi nobis optabiles in experiendo non fuerunt, in legendo tamen erunt iucundae, habet enim praeteriti doloris secura recordatio delectationem; ceteris vero nulla perfunctis propria molestia, casus autem alienos sine ullo dolore intuentibus etiam ipsa misericordia est iucunda. Quem enim nostrum ille moriens apud Mantineam Epaminondas non cum quadam miseratione delectat? qui tum denique sibi evelli iubet spiculum, posteaquam ei percontanti dictum est clipeum esse salvum, ut etiam in vulneris dolore aequo animo cum laude moreretur. Cuius studium in legendo non erectum Themistocli fuga redituque retinetur? etenim ordo ipse annalium mediocriter nos retinet quasi enumeratione fastorum: at viri saepe excellentis ancipites variique casus habent admirationem exspectationem, laetitiam molestiam, spem timorem; si vero exitu notabili concluduntur, expletur animus iucundissima lectionis voluptate. Quo mihi acciderit optatius, si in hac sententia fueris, ut a continentibus tuis scriptis, in quibus perpetuam rerum gestarum historiam complecteris, secernas hanc quasi fabulam rerum eventorumque nostrorum; habet enim varios actus mutationesque et consiliorum et temporum. Ac non vereor, ne assentatiuncula quadam aucupari tuam gratiam videar, cum hoc demonstrem, me a te potissimum ornari celebrarique velle; neque enim tu is es, qui, qui sis, nescias et qui non eos magis, qui te non admirentur, invidos quam eos, qui laudent, assentatores arbitrere, neque autem ego sum ita demens, ut me sempiternae gloriae per eum commendari velim, qui non ipse quoque in me commendando propriam ingenii gloriam consequatur. Neque enim Alexander ille gratiae causa ab Apelle potissimum pingi et a Lysippo fingi volebat, sed quod illorum artem cum ipsis, tum etiam sibi gloriae fore putabat. Atque illi artifices corporis simulacra ignotis nota faciebant, quae vel si nulla sint, nihilo sint tamen obscuriores clari viri; nec minus est Spartiates Agesilaus ille perhibendus, qui neque pictam neque fictam imaginem suam passus est esse, quam qui in eo genere laborarunt; unus enim Xenophontis libellus in eo rege laudando facile omnes imagines omnium statuasque superavit. Atque hoc praestantius mihi fuerit et ad laetitiam animi et ad memoriae dignitatem, si in tua scripta pervenero, quam si in ceterorum, quod non ingenium mihi solum suppeditatum fuerit tuum, sicut Timoleonti a Timaeo aut ab Herodoto Themistocli, sed etiam auctoritas clarissimi et spectatissimi viri et in rei publicae maximis gravissimisque causis cogniti atque in primis probati, ut mihi non solum praeconium, quod, cum in Sigeum venisset, Alexander ab Homero Achilli tributum esse dixit, sed etiam grave testimonium impertitum clari hominis magnique videatur; placet enim Hector ille mihi Naevianus, qui non tantum "laudari" se laetatur, sed addit etiam "a laudato viro." Quod si a te non impetraro, hoc est, si quae te res impedierit—neque enim fas esse arbitror quidquam me rogantem abs te non impetrare—, cogar fortasse facere, quod nonnulli saepe reprehendunt: scribam ipse de me, multorum tamen exemplo et clarorum virorum; sed, quod te non fugit, haec sunt in hoc genere vitia: et verecundius ipsi de sese scribant necesse est, si quid est laudandum, et praetereant, si quid reprehendendum est; accedit etiam, ut minor sit fides, minor auctoritas, multi denique reprehendant et dicant verecundiores esse praecones ludorum gymnicorum, qui cum ceteris coronas imposuerint victoribus eorumque nomina magna voce pronuntiarint, cum ipsi ante ludorum missionem corona donentur, alium praeconem adhibeant, ne sua voce se ipsi victores esse praedicent. Haec nos vitare cupimus et, si recipis causam nostram, vitabimus, idque ut facias, rogamus. Ac, ne forte mirere, cur, cum mihi saepe ostenderis te accuratissime nostrorum temporum consilia atque eventus litteris mandaturum, a te id nunc tanto opere et tam multis verbis petamus, illa nos cupiditas incendit, de qua initio scripsi, festinationis, quod alacres animo sumus, ut et ceteri viventibus nobis ex libris tuis nos cognoscant et nosmet ipsi vivi gloriola nostra perfruamur. His de rebus quid acturus sis, si tibi non est molestum, rescribas mihi velim; si enim suscipis causam, conficiam commentarios rerum omnium, sin autem differs me in tempus aliud, coram tecum loquar. Tu interea non cessabis et ea, quae habes instituta, perpolies nosque diliges. | CICERONE A LUCCEIOHo tentato spesso di affrontare con te a viva voce l' argomento che ora ti dirò, ma me ne ha distolto un certo ritegnoalquanto rusticano: adesso che ti sono lontano, cercherò di tirar fuori quello che ho dentro con un po' più di ardire. Lelettere non sanno arrossire. Ho l'ambizione vivissima, che non mi pare riprovevole, di vedere illustrato e celebrato il mionome per opera della tua penna. Benché tu, in più d'una occasione, mi faccia capire di essere disponibile, io ardo diimpazienza: della qual cosa spero che vorrai scusarmi. ~ infatti la tua maniera di. scrivere, per quanto io sempre ne abbiaconcepito grandi speranze, che ha superato ogni mia aspettativa e mi ha talmente preso, odiciamo pure esaltato, che il mio più grande desiderio è quello di vedere affidata - nel più breve tempo possibile- alle tue pagine la memoria delle mie vicende. E non è solo quella specifica consapevolezza che solo al ricordodei posteri è affidata la speranza dell'immortalità a lusingarmi, ma anche la natura la ambizione di poter godere davivo sia dell'autorevolezza della tua testimonianza, sia della prova di stima che mi offriresti, sia del fascino del tuo genio di scrittore.So bene, nell'esprimerti questi pensieri, quanto tu sia oberato da gravosissimi impegni e da imprese già avviate;ma siccome vedo che la tua storia della guerra italica e delle guerre civili è quasi alle ultime battute e sei stato tu aparlarmi del tuo progetto di estendere il lavoro, non ho voluto mancare di invitarti a riflettere se sia preferibile inse-riredirettamente nel periodo successivo anche quello che mi riguarda, o se - come è consolidata tradizione dellastoriografia greca (penso a Callistene per la sua "Guerra della Focile", a Timeo per le "Guerre di Pirro"; a Polibioper la "Guerra di Numanzia", tutte sezioni staccate, come dicevo, dal contesto complessivo delle loro storie) -anche tu non intenda analogamente separare la narrazione di una congiura intestina dal resoconto di guerre contronemici esterni. Certo, per quanto attiene alle mie personali benemerenze non fa molta differenza; ma conviene inqualche modo alla mia premura che tu non aspetti di arrivare al punto e che invece colga subito motivazioni e circo-stanzedell'intero episodio.Al tempo stesso, se oggetto esclusivo delle tue attenzioni saranno un solo argomento e un solo protagonista, giàmi figuro tutta la ricchezza e il valore artistico del risultato. Mi rendo tuttavia conto di quanto sfacciato io sia,innanzi tutto ad accollarti un peso non indifferente (le tue molteplici occupazioni giustificherebbero benissimo untuo rifiuto) e poi a pretendere da te addirittura una resa artistica delle mie faccende. E se non ti sembrassero affattomeritevoli di una resa artistica? Però, chi ha varcato una volta i limiti della convenienza può ben essere sfacciatofino in fondo. Perciò in tutta semplicità ti chiedo espressamente di abbellire il racconto addirittura con più colore diquanto forse tu non senta e di accantonare in ciò le leggi della storia e di non sdegnare quel decoro formale, di cuiuna volta hai scritto con estrema eleganza in un proemio del quale dimostri di non aver saputo fare a meno non piùche il famoso Ercole di Senofonte del piacere - quand'anche ciò dovesse favorirmi ai tuoi occhi con troppa eviden-za...E concedi alla simpatia personale un pochino di più di quel che possa offrirle la verità. Se finalmente ti indurròad accettare l'incarico, sono convinto che la materia sarà degna del tuo talento e della tua vena d'artista. Dalprincipio infatti della congiura fino al mio ritorno dall'esilio penso che possa uscirne un'opera di mole noneccessiva, in cui potrai giovarti della tua ben nota conoscenza dei mutamenti storici, sia nella spiegazione dellecause dei rivolgimenti rivoluzionari sia nel suggerire i rimedi a tali guasti, e insieme sottoporre a critica quel chegiudicherai riprovevole e ancora sostenere con argomentazioni serrate i punti di vista corretti. E se crederai di doverprocedere con maggiore franchezza, come è sempre stato tuo costume, bolle rai la mala fede, gli intrighi, iltradimento di molti nei miei confronti. Inoltre le mie alterne vicende ti forniranno molte occasioni di variare stile,tutte ricche come sono di quel certo fascino capace di incatenare l'attenzione di chi legga le tue pagine. Nienteinfatti è più idoneo a interessare il lettore che il variare delle circostanze e le vicissitudini della fortuna: tutte coseniente affatto augurabili per chi le stava sperimentando, ma sicuramente gradevoli alla lettura: giacché quando si èal sicuro il ricordo del dolore passato procura piacere. E agli altri, non provati mai da nessuna personale afflizione, eperciò messi di fionte alle sventure altrui senza alcuna esperienza di dolore, gli stessi moti della compassione sonocapaci di suscitare diletto.Chi di noi non ne ha sentito misto a pietà davanti alla scena di Epaminonda morente a Mantinea? Epaminonda,che solo allora dà ordine di svellergli il dardo, dopo che alle sue ansiose domande è stato risposto che lo scudo èsalvo: così da morire gloriosamente, con l'animo sereno pur nel dolore della piaga. Chi nel leggere dell'esilio e delritorno di Temistocle non si è sentito fortificato nella propria passione? In effetti, la secca successione degli eventiin ordine di tempo di per sé ci attrae pochissimo, come in una registrazione destinata agli archivi. Ma spessol'alterna incertezza delle sorti cui è soggetto un personaggio eminente provocano meraviglia, tengono l'animosospeso, suscitano gioia, sofferenza, speranza, timore; se poi si concludono con una fine degna, 1'animo si appaganella perfetta distensione della lettura. Sarà dunque più conforme ai miei desideri se ti dovessi convincere a isolaredall'ambito del tuo lavoro, in cui comprendi una narrazione continua dei fatti, questa che può considerarsi comel'interpretazione drammatica degli avvenimenti di cui sono stato attore: ha infatti quadri distinti e una notevolemolteplic ità di atteggiamenti e di circostanze. Né temo di sembrare come un cacciatore che tende un laccio ai tuoifavori con qualche piccolo complimento di maniera, se ti dichiaro che terrei più che da ogni altro a essere celebratoed esaltato da te. Tu non sei tale da non sapere chi tu sia e da non ritenere piuttosto invidiosi quanti non ti ammiranoche adulatori quanti ti lodano; né io sono tanto folle da voler essere consegnato alla gloria eterna per opera di chinon potesse egli stesso acquistarsi - nel glorificare me - un riconoscimento del proprio genio. Né AlessandroMagno pretendeva di essere dipinto esclusivamente da Apelle e scolpito da Lisippo come atto di favore; ma perchéera convinto che l'arte loro avrebbe arrecato gloria non solo a quelli, ma anche a lui stesso.E quegli artisti divulgavano presso un pubblico sconosciuto l'immagine fisica; ma quand'anche questariproduzione non esistesse, non per questo un personaggio famoso piomberebbe nell'oscurità. Così il nobileAgesilao re di Sparta, che non tollerò l'esistenza di ritratti propri, né per opera di pittori né per opera di scultori, è dacitare quanto chi invece a tale attività dette il massimo impulso. Infatti il solo esile panegirico di quel re compostoda Senofonte ha facilmente sopravanzato tutti i ritratti e le statue di qualsivoglia altro. Pertanto mi sarà di maggiorprestigio e per la soddisfazione intima che ne proverei e per la dignità che ne acquisterebbe il mio ricordo, se avròun posto fra i tuoi scritti a preferenza che fra quelli di altri: perché non soltanto avrò avuto il conforto del tuotalento, come Timo leonte quello di Timeo o Temistocle quello di Erodoto, ma anche dell'autorevolezza di un uomo di specchiata rinomanza, apprezzato e rispettato fra i primi per il comportamento tenuto in circostanze fra le piùimportanti e gravi della vita pubblica. Così che io sembrerò avere ottenuto non soltanto l'elogio di un chiaro cantore,come definì Alessandro in visita al promontorio Sigeo l'omaggio reso da Omero ad Achille, ma ancora la solennetestimonianza di una autentica figura di galantuomo. In effetti ho una predilezione particolare per la figura di Ettorecome descritta da Nevio: Ettore, che non si rallegra tanto "di essere lodato", ma aggiunge: "da un eroe degno dilode...". Ma se non potrò vedere accolta da te la mia richiesta, cioè se qualche cosa dovesse impedirtelo (perché nonmi sembre rebbe giustificato un tuo rifiuto di accogliere una mia richiesta), sarò costretto forse a fare quello chemolti spesso hanno riprovato: a scrivere cioè io di me stesso - anche se sull'esempio di molti illustri personaggi.Ma tu sai perfettamente quali siano gli inconvenienti di questo genere di letteratura.Chi scrive di se stesso deve di necessità attenuare i meriti e passare oltre gli eventuali demeriti. Si aggiungainoltre una minore credibilità, una minore autorevolezza; molti insomma avrebbero a che ridire e sosterrebbero chehanno assai più ritegno i pubblici annunciatori delle gare di atletica, i quali almeno quando consegnano le medaglieai vincitori ne proclamano i nomi a voce alta, ma quando essi stessi ricevono un riconoscimento prima dellachiusura dei giochi, ricorrono ad un loro collega per non essere dichiarati vincitori dalla propria stessa voce! Ioquesto preferirei evitarlo e se tu ti fai carico della causa mia, lo eviterò: e insisto perché tu lo faccia. Potresti magaridomandarti meravigliato perché io, di fronte alle frequenti assicurazioni che mi hai già dato di voler descrivere conla massima precisione la politica e gli eventi che mi hanno avuto per protagonista, lo pretenda ora da te con tanta in-sistenzae con tante parole: il fatto è - come ho scritto all'inizio - che il mio desiderio è vivissimo e la miapremura grande (il mio carattere è vivace, del resto); ma mi piacerebbe che la gente sapesse di me dai tuoi librimentre sono ancora in vita e che io stesso godessi da vivo della mia piccola porzione di gloria. Quali che debbanoessere le tue intenzioni in merito a tutto ciò, se non ti reca disturbo gradirei che me ne scrivessi a tua volta. Se infattiaccetti la mia causa, comincerò a redigere un memoriale comple to; se invece mi rinvierai ad altro tempo, ne parleròdirettamente con te. Nel frattempo prosegui pure il tuo lavoro e dà l'ultima mano a quanto hai già allestito, ericordami con affetto. |
Atque ut eius diversa studia in dissimili ratione perspicere possitis, nemo est in ludo gladiatorio paulo ad facinus audacior, qui se non intimum Catilinae esse fateatur, nemo in scaena levior et nequior; qui se non eiusdem prope sodalem fuisse commemoret. Atque idem tamen stuprorum et scelerum exercitatione adsuefactus frigore et fame et siti et vigiliis perferundis fortis ab istis praedicabatur, cum industriae subsidia atque instrumenta virtutis in lubidine audaciaque consumeret. | E perché possiate farvi un'idea della sua versatilità in campi diversi, nelle palestre non c'è gladiatore un po' più temerario nell'azione che non confessi di essere amico di Catilina; sulla scena, non c'è attore un po' più infido e depravato che non affermi di essere quasi un suo compagno. E lui, abituato dalla pratica di violenze e crimini a sopportare freddo, fame, sete e veglie, si è conquistato la fama di duro proprio tra questi individui, consumando le risorse della sua intraprendenza e le sue forze interiori nel sesso e nel delitto. |
Sed cum tota philosophia, mi Cicero, frugifera et fructuosa nec ulla pars eius inculta ac deserta sit, tum nullus feracior in ea locus est nec uberior, quam de officiis, a quibus constanter honesteque vivendi praecepta ducuntur. Quare quamquam a Cratippo nostro, principe huius memoriae philosophorum, haec te assidue audire atque accipere confido, tamen conducere arbitror talibus aures tuas vocibus undique circumsonare, nec eas, si fieri possit, quicquam aliud audire. | Ma benché tutta la filosofia, o mio Cicerone, sia utile e fruttuosa, e nessuna sua parte sia incolta e trascurata, tuttavia nessuna sezione è più fertile e più ricca di quella che si occupa dei doveri, dalla quale sono dedotti i precetti di una vita coerente ed onesta. Perciò, pur fiducioso che tu assiduamente senta ed impari queste cose dal nostro Cratippo, il più insigne dei filosofi di quest'epoca, tuttavia penso che sia utile che le tue orecchie risuonino d'ogni parte di tali voci, e, se possibile, non odano alcun'altra tesi. |
Caput autem est in omni procuratione negotii et muneris publici, ut avaritiae pellatur etiam minima suspicio. 'Utinam', inquit C. Pontius Samnis, 'ad illa tempora me fortuna reservavisset et tum essem natus, quando Romani dona accipere coepissent. Non essem passus diutius eos imperare.' Ne illi multa saecula expectanda fuerunt: modo enim hoc malum in hanc rem publicam invasit. Itaque facile patior tum potius Pontium fuisse, si quidem in illo tantum fuit roboris.Nondum centum et decem anni sunt, cum de pecuniis repetundis a L. Pisone lata lex est nulla antea cum fuisset. At vero postea tot leges et proxumae quaeque duriores, tot rei, tot damnati, tantum [Italicum] bellum propter iudiciorum metum excitatum, tanta sublatis legibus et iudiciis expilatio direptioque sociorum, ut inbecillitate aliorum, non nostra virtute valeamus. | Il punto principale nella cura d'ogni affare e nell'amministrazione d'ogni pubblico ufficio è l'evitare anche il minimo sospetto di avidità. "Oh, se la sorte - disse il Sannita Gaio Ponzio - mi avesse riservato per quei tempi, e fossi nato allora, quando i Romani cominciarono ad accettare doni! Non avrei tollerato più a lungo che essi mantenessero il dominio". E non si sarebbero dovuti attendere neppure molti secoli, perché ora anche questo male è entrato nel nostro Stato. E perciò sono ben lieto che Ponzio sia vissuto piuttosto allora, se veramente egli ebbe una così grande energia morale. Non sono ancora trascorsi centodieci anni da quando Lucio Pisone propose la legge contro i delitti di concussione, mentre prima non ce n'era stata alcuna; ma dopo, in verità, tante furono le leggi e le più recenti anche più severe, tanti i colpevoli, tanti i condannati, tanto grave la guerra italica scoppiata per la paura dei processi, e tante le spoliazioni e le estorsioni degli alleati, essendo state abrogate le leggi ed i tribunali, che siamo salvi per la debolezza degli altri, non per il nostro valore. |
P. Murena mediocri ingenio sed magno studio rerum veterum, litterarum et studiosus et non imperitus, multae industriae et magni laboris fuit. C. Censorinus Graecis litteris satis doctus, quod proposuerat explicans expedite, non invenustus actor sed in ers et inimicus fori. L. Turius parvo ingenio sed multo labore, quoquo modo poterat, saepe dicebat; itaque ei paucae centuriae ad consulatum defuerunt. | Publio Murena era dotato di un talento mediocre, ma aveva una grande passione per le antichità, e per le lettere un amore unito a una discreta competenza; si distinse per il grande zelo e per l'attività instancabile. Gaio Censorino aveva una discreta formazione nelle lettere greche; delineato il piano di un discorso, sapeva svilupparlo con disinvoltura; nell'azione non era privo di grazia; ma era pigro, e nemico del foro. Lucio Turio, di scarso talento ma di grande operosità, parlava spesso, come meglio gli riusciva; pertanto gli mancarono i voti di poche centurie per ottenere il consolato. |
Rem videbat acute, componebat diligenter, memoria valebat; verbis non ille quidem ornatis utebatur, sed tamen non abiectis; expedita autem erat et perfacile currens oratio; et erat eius quidam tamquam habitus non inurbanus; actio paulum cum vitio vocis tum etiam ineptiis claudicabat. hic temporibus floruit iis, quibus inter profectionem reditumque L. Sullae sine iure fuit et sine ulla dignitate res publica; hoc etiam magis probabatur, quod erat ab oratoribus quaedam in foro solitudo.Sulpicius occider at, Cotta aberat et Curio; vivebat e reliquis patronis eius aetatis nemo praeter Carbonem et Pomponium, quorum utrumque facile superabat. | Vedeva con acume il nodo delle questioni e disponeva i materiali con diligenza, aveva buona memoria; impiegava un linguaggio certo non adorno, e tuttavia non sciatto; l'eloquio era spedito, e scorreva con grande facilità; e vi era in lui come un tono generale non inurbano; l'azione zoppicava un po', sia per la cattiva qualità della voce, sia anche per il gestire non felice. Costui fiorì al tempo in cui, tra la partenza e il ritorno di Silla, lo stato rimase senza legge e senza dignità; aveva tanto più successo, perché nel foro vi era come un deserto di oratori. Sulpicio era morto, erano lontani Cotta e Curione; tra gli altri avvocati di quel periodo, nessuno era più in vita, tranne Carbone e Pomponio; e questi li superava facilmente ambedue. |
Sed omittamus oracula, veniamus ad somnia. De quibus disputans Chrysippus, multis et minutis somniis configendis, facit idem quod Antipater, ea conquirens quae, Antiphontis interpretatione esplicata, declarant illa quidem acumen interpretis, sed exemplis grandioribus decuit uti. Dionysi mater, eius qui Syracosiorum tyrannus fuit, ut scriptum apud Philistum est, et doctum hominem et diligentem et aequalem temporum illorum, cum praegnans hunc ipsum Dionysium alvo contineret, somniavit se peperisse Satyriscum.Huic interpretes portentorum, qui Galeotae tum in Sicilia nominabantur, responderunt, ut ait Philistus, eum, quem illa peperisset, clarissimum Graeciae diuturna cum fortuna fore. Num te ad fabulas revoco vel nostrorum vel Graecorum poetarum? Narrat enim et apud Ennium Vestalis illa:"Et cita cum tremulis anus attulit artubus lumen,talia tum memorat lacrimans, exterrita somno.Eurydica prognata, pater quam noster amavit,vires vitaque corpus meum nunc deserit omne.Nam me visus homo pulcher per amoena salictaet ripas raptare locosque novos. Ita solapostilla, germana soror, errare videbartardaque vestigare et quaerere te, neque possecorde capessere: semita nulla pedem stabilitat.Exim compellare pater me voce videturhis verbis: O gnata, tibi sunt ante gerendaeaerumnae, post ex fluvio fortuna resistet.Haec ecfatus pater, germana, repente recessitnec sese dedit in conspectum corde cupitus,quamquam multa manus ad caeli caerula templatendebam lacrumans et blanda voce vocabam.Vix aegro cum corde meo me somnus reliquit." | Ma lasciamo stare gli oracoli, veniamo ai sogni. Nel trattare di essi Crisippo, raccogliendo molti sogni anche di scarsa importanza, segue lo stesso sistema a cui si è attenuto poi Antipatro, cioè indaga quelli che, spiegati mediante l'interpretazione di Antifonte, rivelano, certo, l'acume dell'Interprete; ma meglio sarebbe stato ricorrere a esempi di maggior rilievo. La madre di Dionisio, di quello che fu tiranno di Siracusa, a quanto si legge in Filisto, uomo dotto e accurato e vissuto in quegli stessi tempi, mentre era appunto incinta di Dionisio sognò di aver partorito un satiretto. Gli interpreti dei prodigi, che allora in Sicilia si chiamavano Galeoti, le dissero (ce lo testimonia ancora Filisto) che il figlio che essa stava per dare alla luce sarebbe stato l'uomo più famoso della Grecia e avrebbe avuto una fortuna costante Vuoi che ti rammenti le leggende narrate dai poeti nostri o dai greci? Anche in Ennio quella famosa vestale narra:"E appena la vecchia, frettolosa, ebbe portato una lucerna con mani tremanti, essa così dice piangendo, svegliatasi spaurita dal sonno: 'O figlia di Euridice, che nostro padre amò, io sento tutto il mio corpo privo di forza e di spirito vitale. Mi pareva, in sogno, che un uomo bello mi rapisse portandomi per ameni filari di salici e per rive e per luoghi mai visti. E così, poi, sola mi sembrava di vagare, sorella mia cara, e di avanzare a passi incerti e di cercare te, ma di non poter raggiungerti nella mia mente: nessun sentiero guidava sicuro il mio piede. Poco dopo, ecco, mi sembra che il padre mi rivolga queste parole: - O figlia, dapprima dovrai sopportare affanni, poi la tua fortuna riemergerà da un fiume -. Come ebbe detto ciò, sorella mia, il padre scomparve d'un tratto, né si mostrò al mio sguardo benché nel mio cuore lo desiderassi: a nulla valse che più volte io tendessi le mani all'azzurra volta del cielo e lo invocassi con tenere parole. Or ora il sonno mi ha abbandonato lasciando il mio cuore afflitto.'" |
Vendat aedes vir bonus, propter aliqua vitia, quae ipse norit, ceteri ignorent, pestilentes sint et habeantur salubres, ignoretur in omnibus cubiculis apparere serpentes, sint, male materiatae et ruinosae, sed hoc praeter dominum nemo sciat; quaero, si haec emptoribus venditor non dixerit aedesque vendiderit pluris multo. quam se venditurum putarit, num id iniuste aut improbe fecerit? "Ille vero" inquit Antipater. "Quid est enim aliud erranti viam non monstrare, quod Athenis execrationibus publicis sanctum est, si hoc non est, emptorem pati ruere et per errorem in maximam fraudem incurrere.Plus etiam est quam viam non monstrare; nam est scientem in errorem alterum inducere." | Un galantuomo vende una casa per dei difetti a lui noti e ignoti agli altri; la casa è malsana ma la si ritiene salubre, si ignora che in tutte le stanze saltano fuori dei serpenti, è costruita con materiale cattivo ed è in sfacelo, ma tutto questo non lo sa nessuno, tranne il padrone; io chiedo: se il venditore non dicesse questo ai compratori e vendesse la casa ad un prezzo molto più alto di quanto si sarebbe aspettato, compirebbe un'azione ingiusta e disonesta? "Certo" dice Antipatro. "Che altro è il non indicare la via a chi sta vagando - cosa punita in Atene con la pubblica esecrazione - se non questo, lasciare che il compratore agisca sconsideratamente e per questo errore cada in una gravissima frode? È, anzi, di più che il non mostrare la strada, perché è indurre consapevolmente un altro in errore ". |
O bellum magno opere pertimescendum, cum hanc sit habiturus Catilina scortorum cohortem praetoriam! Instruite nunc, Quirites, contra has tam praeclaras Catilinae copias vestra praesidia vestrosque exercitus. Et primum gladiatori illi confecto et saucio consules imperatoresque vestros opponite; deinde contra illam naufragorum eiectam ac debilitatam manum florem totius Italiae ac robur educite. Iam vero urbes coloniarum ac municipiorum respondebunt Catilinae tumulis silvestribus.Neque ego ceteras copias, ornamenta, praesidia vestra cum illius latronis inopia atque egestate conferre debeo. | Che terrore di questa guerra, se Catilina disporrà di una simile coorte pretoria! Ora, Quiriti, schierate le vostre guarnigioni e i vostri eserciti contro le intrepide milizie di Catilina e, per prima cosa, opponete i vostri consoli e comandanti a quel gladiatore stremato e ferito! Fate scendere in campo il fior fiore, il nerbo dell'Italia intera contro quel pugno di naufraghi esausti, sbattuti dalle onde! Colonie e municipi sapranno senz'altro rispondere alle imboscate di Catilina! Non è il caso, poi, che confronti tutte le forze di cui disponete, i vostri equipaggiamenti e le vostre risorse alla mancanza di mezzi, alla miseria di quel bandito. |
Cyrus quidem apud Xenophontem eo sermone, quem moriens habuit, cum admodum senex esset, negat se umquam sensisse senectutem suam imbecilliorem factam, quam adulescentia fuisset. Ego L. Metellum memini puer, qui cum quadriennio post alterum consulatum pontifex maximus factus esset viginti et duos annos ei sacerdotio praefuit, ita bonis esse viribus extremo tempore aetatis, ut adulescentiam non requireret. Nihil necesse est mihi de me ipso dicere, quamquam est id quidem senile aetatique nostrae conceditur. | Ciro appunto, nel discorso che tenne in punto di morte quando era molto vecchio, come scrive Senofonte, dice di non essersi mai accorto di esser diventato, da anziano, più debole di quanto lo fosse da giovane. Mi ricordo di Lucio Metello - ero allora un ragazzo - che, eletto pontefice massimo quattro anni dopo il suo secondo consolato, esercitò quel sacerdozio per ventidue anni: ebbene, conservò sino alla fine forze così prospere da non rimpiangere la giovinezza. Non è necessario che parli di me, benché questo sia un comportamento senile e lo si perdoni alla nostra età. |
Quam ob rem ille quidem sapientissimus Graeciae vir longeque doctissimus valde hanc labem veretur. Negat enim mutari posse musicas leges sine mutatione legum publicarum. Ego autem nec tam valde id timendum nec plane contemnendum puto. Illud quidem <videmus>, quae solebat quondam conpleri severitate iucunda Livianis et Naevianis modis, nunc ut eadem exultet <cavea> [...] cervices oculosque pariter cum modorum flexionibus torqueant. Graviter olim ista vindicabat vetus illa Graecia, longe providens quam sensim pernicies inlapsa civium [in] animos, malis studiis malisque doctrinis repente totas civitates everteret, si quidem illa severa Lacedaemo nervos iussit quos plures quam septem haberet in Timothei fidibus in<ci>di. | Perciò quel sapientissimo e dottissimo uomo Greco teme assai questo contagio. Egli afferma infatti che le leggi della musica non si possono cambiare senza un cambiamento parallelo delle leggi dello Stato. Io poi penso che non ci sia ragione per un così grave timore, ma neppure di tenerne pochissimo conto; certamente vedo bene come quelle teatri, che una volta di solito risonavano della lieta compostezza dei ritmi liviani e neviani, adesso si esaltino distorcendo teste ed occhi insieme alle modulazioni dei suoni. Queste mode un tempo erano represse pesantemente da quella Grecia antica, che vedeva già come quella tara, penetrata a poco a poco nell'animo dei cittadini, con cattive tendenze e nefaste dottrine avrebbe improvvisamente sconvolto intere città, se è vero che la severa Sparta fece tagliar via dalla cetra di Timoteo le corde superiori a sette. |
Atticus:Sed visne, quoniam et satis iam ambulatum est, et tibi aliud dicendi initium sumendum est, locum mutemus et in insula quae est in Fibreno - nam opinor <id> illi alteri flumini nomen est - sermoni reliquo demus operam sedentes?Marcus:Sane quidem. Nam illo loco libentissime soleo uti, sive quid mecum ipse cogito, sive aliquid scribo aut lego. | Attico:Dal momento che già abbiamo passeggiato abbastanza e tu devi iniziare un altro discorso, vuoi che cambiamo posto e nell'isola che è nel Fibreno - credo sia questo il nome di quell'altro braccio del fiume - proseguiamo la conversazione, mettendoci a sedere?Marco:Certamente; molto volentieri infatti io mi fermo in quel posto, sia quando sono intento ad elaborare qualche progetto solo con me stesso, sia quando scrivo o leggo qualcosa. |
Illi vero non modo cum hostibus, verum etiam cum fluctibus, id quod fecit, dimicare melius fuit quam deserere consentientem Graeciam ad bellum barbaris inferendum. Sed omittamus et fabulas et externa; ad rem factam nostramque veniamus. M. Atilius Regulus, cum consul iterum in Africa ex insidiis captus esset duce Xanthippo Lacedaemonio, imperatore autem patre Hannibalis Hamilcare, iuratus missus est ad senatum, ut nisi redditi essent Poenis captivi nobiles quidam, rediret ipse Carthaginem.Is cum Romam venisset, utilitatis speciem videbat, sed eam, ut res declarat, falsam iudicavit; quae erat talis: manere in patria, esse domui suae cum uxore, cum liberis, quam calamitatem accepisset in bello communem fortunae bellicae iudicantem tenere consularis dignitatis gradum. Quis haec negat esse utilia? quem censes? Magnitudo animi et fortitudo negat. | Sarebbe stato meglio per lui combattere non solo con i nemici, ma anche coi flutti, come fece, anziché abbandonare la Grecia concorde nel portar guerra ai barbari. Ma lasciamo da parte i miti e i fatti stranieri e veniamo a un fatto realmente accaduto e presso di noi. Marco Attilio Regolo, console per la seconda volta, catturato per mezzo di un'imboscata in Africa, quando era a capo dell'esercito nemico Santippo, generale spartano, e comandante supremo Amilcare, padre di Annibale, fu inviato al senato sotto giuramento che sarebbe tornato a Cartagine, se non fossero stati restituiti ai Cartaginesi alcuni nobili prigionieri. Venuto a Roma, egli vedeva l'apparenza dell'utilità, ma, come dichiarano i fatti, la giudicò falsa: e si trattava di restare in patria, in casa propria con la moglie e i figli, conservare il grado della dignità consolare, giudicando la disgrazia patita in guerra come una cosa normale nella fortuna militare. Chi potrebbe affermare che non si tratta di cose utili? Chi pensi che potrebbe farlo? Lo negano la grandezza e la fortezza d'animo. Vai forse in cerca di prove più autorevoli? |
Quid est igitur, quod me impediat ea, quae probabilia mihi videantur, sequi, quae contra improbare atque adfirmandi arrogantiam vitantem fugere temeritatem, quae a sapientia dissidet plurimum? Contra autem omnia disputantur a nostris, quod hoc ipsum probabile elucere non possit, nisi ex utraque parte causarum esset facta contentio. Sed haec explanata sunt in Academicis nostris satis, ut arbitror, diligenter. Tibi autem, mi Cicero, quamquam in antiquissima nobilissimaque philosophia Cratippo auctore versaris iis simillimo, qui ista praeclara pepererunt, tamen haec nostra, finituma vestris, ignota esse nolui.Sed iam ad instituta pergamus. | Quale ragione mi potrebbe impedire di seguire quelle cose che mi paiono probabili e rigettare ciò che mi sembra improbabile, e, con l'evitare le affermazioni assolute, fuggire quella presunzione che è la più lontana dalla vera sapienza? Invece la nostra scuola pone in discussione tutto, perché questo stesso probabile non potrebbe esser palese se non si facesse un confronto delle ragioni dall'una e dall'altra parte. Ma questi criteri di metodo sono stati abbastanza diligentemente chiariti, come credo, nei miei 'Accademici'. E invero, o mio Cicerone, benché tu, sotto la guida di Cratippo, dal pensiero assai affine a coloro che elaborarono queste teorie famose, ti stia dedicando a questa filosofia che è una delle più antiche e nobili, tuttavia non voglio che questa mia dottrina così vicina alla tua ti sia sconosciuta. Ma proseguiamo nel nostro proposito. |
Atticus:An mihi aliter videri possit, cum haec iam perfecta sint, primum quasi muneribus deorum nos esse instructos et ornatos, secundo autem loco unam esse hominum inter ipsos vivendi parem communemque rationem, deinde omnes inter se naturali quadam indulgentia et benivolentia, tum etiam societate iuris contineri? quae quom vera esse, recte ut arbitror, concesserimus, qui iam licet nobis a natura leges et iura seiungere? | Quinto:Certamente pochissime cose avrai ormai da aggiungere. Da quanto infatti hai detto, [non so se Attico la pensi diversamente], a me in verità sembra con certezza che il diritto sia originato dalla natura.Attico:Ed a me potrebbe forse sembrare diversamente, dal momento che questi principi si sono radicati compiutamente, in primo luogo che noi siamo stati quasi forniti e arricchiti dei doni degli dèi, secondariamente che un'unica uguale e comune norma di vita vi è tra gli uomini, e inoltre, che tutti sono tenuti insieme tra di loro da una certa naturale comprensione e benevolenza, ed anche dal vincolo associativo del diritto? Ed avendo già ammesso giustamente, ci sembra, la verità di queste premesse, come potremmo ormai legittimamente separare le leggi ed i diritti dalla natura? |
Ornari orationem Graeci putant, si verborum immutationibus utantur, quos appellant tropous, et sententiarum orationisque formis, quae vocant schemata: non veri simile est quam sit in utroque genere et creber et distinctus Cato. nec vero ignoro nondum esse satis politum hunc oratorem et quaerendum esse aliquid perfectius; quippe cum ita sit ad nostrorum temporum rationem vetus, ut nullius scriptum exstet dignum quidem lectione, quod sit antiquius.sed maiore honore in omnibus artibus quam in hac una arte dicendi versatur antiquitas. | 69 I Greci ritengono che lo stile possa venir reso adorno facendo ricorso a traslati, che chiamano trópoi, e a figure di pensiero e di parola, che chiamano schémata: è incredibile quanto Catone sia abbondante e adorno in entrambi questi generi. E non ignoro certo che quest'oratore non è ancora sufficientemente elegante, e che si deve cercare qualcosa di più perfezionato; giacché egli, riguardo al nostro tempo, è tanto antico, che non ci restano, di nessuno, scritti risalenti a un'epoca più lontana: dico scritti che valga la pena di leggere. Ma in tutte le arti l'antichità gode di maggiore considerazione che in quest'arte dell'eloquenza. |
Nam ut Antonius coniectura movenda aut sedanda suspicione aut excitanda incredibilem vim habebat: sic in interpretando in definiendo in explicanda aequitate nihil erat Crasso copiosius; idque cum saepe alias tum apud centumviros in M.'. Curi causa cognitum est. | Infatti, come Antonio aveva un incredibile talento per far nascere supposizioni, per suscitare o sedare sospetti, così Crasso era di una fecondità insuperabile nell'interpretare, nel definire, nello sviluppare i principi dell'equità; ciò risultò particolarmente chiaro, oltre che in numerosi altri casi, nella causa di Manio Curio di fronte ai centumviri. |
In illo autem altero genere largiendi, quod a liberalitate proficiscitur, non uno modo in disparibus causis adfecti esse debemus. Alia causa est eius, qui calamitate premitur, et eius, qui res meliores quaerit nullis suis rebus adversis. | Invece in quell'altro genere di elargizione che parte dalla generosità non dobbiamo adottare un'unica regola nelle diverse occasioni. Altra è la condizione di colui che è schiacciato da una sciagura, altra è quella di colui che cerca di migliorare senza trovarsi in alcuna avversità. |
Testis est Phalaris, cuius est praeter ceteros nobilitata crudelitas, qui non ex insidiis interiit, ut is, quem modo dixi, Alexander, non a paucis, ut hic noster, sed in quem universa Agrigentinorum multitudo impetum fecit. Quid? Macedones nonne Demetrium reliquerunt universique se ad Pyrrhum contulerunt? Quid? Lacedaemonios iniuste imperantes nonne repente omnes fere socii deseruerunt spectatoresque se otiosos praebuerunt Leuctricae calamitatis? Externa libentius in tali re quam domestica recordor.Verum tamen quam diu imperium populi Romani beneficiis tenebatur, non iniuriis, bella aut pro sociis aut de imperio gerebantur, exitus erant bellorum aut mites aut necessarii, regum, populorum, nationum portus erat et refugium senatus, nostri autem magistratus imperatoresque ex hac una re maximam laudem capere studebant, si provincias, si socios aequitate et fide defendissent. | Ne è testimone Falaride, la cui crudeltà è rimasta famosa sopra tutti; costui non morì a causa di un agguato - come l'Alessandro che ho or ora ricordato - non per mano di pochi - come quel nostro tiranno; ma tutta la popolazione di Agrigento si sollevò contro di lui. E che? I Macedoni non abbandonarono Demetrio e passarono tutti insieme dalla parte di Pirro? E che? Forse che gli alleati non si distaccarono subito dagli Spartani, che comandavano con maniere ingiuste, e se ne stettero oziosi spettatori della disfatta di Leuttra? In un tale argomento ricordo più volentieri gli esempi stranieri che i nostri. Tuttavia per tutto il tempo che l'impero romano si resse sui benefici e non sulle offese, si conducevano le guerre o in difesa degli alleati o per lo Stato, e il loro esito era o mite o necessario; il senato era il porto e il rifugio dei re, dei popoli e delle nazioni, e i nostri magistrati e generali si sforzavano di ottenere la maggior gloria da questo solo, se avessero difeso le pro vince e gli alleati con giustizia e lealtà. |
Nec solum in rectis, sed etiam in pravitatibus insignis est humani generis similitudo. Nam et voluptate capiuntur omnes, quae etsi est inlecebra turpitudinis, tamen habet quiddam simile naturalis boni; le<n>itatis enim et suavitatis <specie> delectans, sic ab errore mentis tamquam salutare aliquid adsciscitur, similique inscitia mors fugitur quasi dissolutio naturae, vita expetitur, quia nos in quo nati sumus continet, dolor in maximis malis ducitur, cum sua asperitate, tum quod naturae interitus videtur sequi; | E non soltanto nelle azioni oneste, ma anche nelle perversioni la somiglianza degli esseri umani è sorprendente. Tutti infatti si lasciano prendere dal piacere, il quale pur essendo un allettamento per l'immoralità, tuttavia ha qualche somiglianza con un bene naturale; infatti poiché offre godimento con la sua leggerezza e piacevolezza, in tal maniera è accolto dalla mente malata come un qualcosa di salutare; e per analoga ignoranza si evita la morte, quasi fosse un dissolvimento della natura, e si desidera la vita, perché ci mantiene nello stato in cui siamo nati; il dolore è annoverato tra i mali più gravi, sia per la sua asprezza, sia perché si ha l'impressione che da esso derivi la distruzione della natura; |
Audita vobis esse arbitror, Quirites, quae sint acta in senatu, quae fuerit cuiusque sententia. Res enim ex Kalendis Ianuariis agitata paulo ante confecta est minus quidem illa severe, quam decuit, non tamen omnino dissolute. Mora est adlata bello, non causa sublata. Quam ob rem, quod quaesivit ex me P.Apuleius, homo et multis officiis mihi et summa familiaritate coniunctus et vobis amicissimus, ita respondebo, ut ea, quibus non interfuistis, nosse possitis.Causa fortissimis optimisque consulibus Kalendis Ianuariis de re publica primum referendi fuit ex eo, quod XIII Kalendas Ian. senatus me auctore decrevit. | Credo che voi abbiate udito, Quiriti, che cosa sia stato discusso in senato, e quale sia stata l'opinione di ciascuno. La cosa infatti, quella messa in movimento poco prima delle Calende di Gennaio, fu portata a termine di certo meno intransigentemente di quanto sarebbe stato conveniente, tuttavia non del tutto fiaccamente. Si è apportato un indugio alla guerra, ma non se ne è eliminata la causa. Per la qual cosa poiché interrogò me Publio Apuleio, sono a me legato da molti favori e da grandissima amicizia e a voi molto amico, così risponderò, che possiate essere messi al corrente di decisioni cadute dal cielo cui non avete preso parte. Il motivo per i fortissimi e ottimi consoli di fare dapprima una relazione sullo stato alle Calende di Gennaio scaturì da quello che il 20 dicembre il senato decise su mio consiglio. |
Licet omnia hoc modo; sed vereor ne fingi videantur haec, ut dicantur a me quodam modo; res se tamen sic habet. cum omnis virtus sit, ut vestra, Brute, vetus Academia dixit, mediocritas, uterque horum medium quiddam volebat sequi; sed ita cadebat, ut alter ex alterius laude partem, uterque autem suam totam haberet. | Si potrebbe andare avanti così per ogni cosa; ma ho paura di dar l'impressione di stare architettando io tutto questo, per poterne parlare in modo da ottenere un certo effetto; e tuttavia è proprio così. Dal momento che ogni virtù - come ha detto la vostra antica accademia, Bruto - consiste nel giusto mezzo, ambedue volevano seguire una via di mezzo; ma andava a finire, che ciascuno acquistava parte dei pregi dell'altro, e ambedue conservavano integralmente i propri". |
Hic ego: laudare igitur eloquentiam et quanta vis sit eius expromere quantamque eis, qui sint eam consecuti, dignitatem afferat, neque propositum nobis est hoc loco neque necessarium. hoc vero sine ulla dubitatione confirmaverim, sive illa arte pariatur aliqua sive exercitatione quadam sive natura, rem unam esse omnium difficillumam. quibus enim ex quinque rebus constare dicitur, earum una quaeque est ars ipsa magna per sese. quare quinque artium concursus maxumarum quantam vim quantamque difficultatem habeat existimari potest. | E io a questo punto: "Ebbene, elogiare l'eloquenza e mettere in luce tutta la sua potenza, e la grande dignità che essa conferisce a quanti son riusciti a entrarne in possesso, non è qui nostro proposito, e nemmeno è necessario. Questo potrei però affermare senza alcun dubbio: che la si acquisti mediante una qualche dottrina, o con un certo esercizio, o grazie a un talento naturale, non vi è un'altra cosa così difficile. Si dice infatti che consista di cinque parti e ciascuna di queste, presa da sola, rappresenta una grande arte. Ciò fa comprendere quale valore e quale difficoltà abbia il concorso di cinque arti grandissime. |
Huius dissimilis in tribunatu reliquaque omni vita civis improbus C. Licinius Nerva non indisertus fuit. C. Fimbria temporibus isdem fere sed longius aetate provectus habitus est sane, ut ita dicam, luculentus patronus: asper maledicus, genere toto paulo fervidior atque commotior, diligentia tamen et virtute animi atque vita bonus auctor in senatu; idem tolerabilis patronus nec rudis in iure civili et cum virtute tum etiam ipso orationis genere liber; cuius orationes pueri legebamus, quas iam reperire vix possumus. | Ben diverso da lui nel tribunato, e pessimo cittadino in tutto il resto della vita, Gaio Licinio Nerva non fu tuttavia privo di facondia. All'incirca nello stesso periodo, ma di età molto più avanzata, Gaio Fimbria" venne ritenuto un difensore, per così dire, di grido: era aspro, velenoso, nell'insieme troppo bollente e impetuoso; e tuttavia, per la sua scrupolosità, il suo temperamento energico e la sua condotta di vita, godeva di autorevolezza come ispiratore delle decisioni del senato; fu anche un discreto avvocato, non inesperto del diritto civile, franco nell'eloquenza come lo era per temperamento; quando eravamo ragazzi leggevamo i suoi discorsi, che ormai solo a stento si possono trovare. |
Erat Hortensius in bello primo anno miles, altero tribunus militum, Sulpicius legatus; aberat etiam M. Antonius; exercebatur una lege iudicium Varia, ceteris propter bellum intermissis; quoi frequens aderam, quamquam pro se ipsi dicebant oratores non illi quidem principes, L. Memmius et Q. Pompeius, sed oratores tamen teste diserto uterque Philippo, cuius in testimonio contentio et vim accusatoris habebat et copiam. | Nel primo anno di guerra Ortensio era soldato, nel secondo tribuno militare; Sulpicio era legato, ed era assente anche Marco Antonio; processi se ne faceva no in base esclusivamente alla legge Varia, gli altri erano stati sospesi per via della guerra; io vi assistevo spesso, sebbene parlassero in propria difesa oratori certo non di prim'ordine, come Lucio Memmio e Quinto Pompeo ma comunque oratori, tanto più che ambedue ebbero quale teste a carico un uomo eloquente come Filippo, il cui fervore nelle deposizioni aveva l'impeto e l'abbondanza di una requisitoria. |
Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique optigit, id quisque teneat; e quo si quis [quaevis] sibi appetet, violabit ius humanae societatis. | I beni privati, peraltro, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione. come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio. Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei beni privati. Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno la tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana. |
Quid? illa duo somnia, quae creberrume commemorantur a Stoicis, quis tandem potest contemnere? Unum de Simonide: qui, cum ignotum quendam proiectum mortuum vidisset eumque humavisset haberetque in animo nave conscendere, moneri visus est, ne id faceret, ab eo quem sepultura adfecerat; si navigavisset, eum naufragio esse periturum; itaque Simonidem redisse, perisse ceteros, qui tum navigassent. Alterum ita traditum clarum admodum somnium: cum duo quidam Arcades familiares iter una facerent et Megaram venissent, alterum ad cauponem devertisse, ad hospitem alterum.Qui ut cenati quiescerent, concubia nocte visum esse in somnis ei qui erat in hospitio illum alterum orare ut subveniret, quod sibi a caupone interitus pararetur; eum primo, perterritum somnio, surrexisse; dein, cum se conlegisset idque visum pro nihilo habendum esse duxisset, recubuisse; tum ei dormienti eundem illum visum esse rogare, ut, quoniam sibi vivo non subvenisset, mortem suam ne inultam esse pateretur; se interfectum in plaustrum a caupone esse coniectum et supra stercus iniectum; petere, ut mane ad portam adesset, prius quam plaustrum ex oppido exiret. Hoc vero eum somnio commotum mane bubulco praesto ad portam fuisse, quaesisse ex eo, quid esset in plaustro; illum perterritum fugisse, mortuum erutum esse, cauponem re patefacta, poenas dedisse. Quid hoc somnio dici potest divinius? | Chi, poi, può negar fede a quei due sogni che sono tante volte citati dagli stoici? Il primo riguarda Simonide: egli vide il cadavere di uno sconosciuto abbandonato a terra, lo seppellì, e si proponeva poi d'imbarcarsi; quel tale a cui egli aveva dato sepoltura gli apparve in sogno e lo dissuase dal suo proposito: se si fosse imbarcato, sarebbe perito in un naufragio. Simonide allora tornò indietro, gli altri che si erano imbarcati perirono. L'altro sogno, famosissimo, è il seguente: due àrcadi, amici intimi, viaggiavano insieme e arrivarono a Mègara. Uno dei due prese alloggio in casa d'un taverniere, l'altro presso un suo ospite. Cenarono e andarono a dormire. A notte già inoltrata quello dei due che dormiva presso l'ospite vide in sogno l'altro che lo pregava di recargli soccorso, perché il taverniere si apprestava a ucciderlo. In un primo momento egli balzò su, atterrito dal sogno; poi, riavutosi dallo spavento, pensò che a quell'apparizione non si dovesse dar peso, e tornò a letto. Di nuovo, allora, gli apparve in sogno l'amico, e lo pregò che, non avendogli recato aiuto quando era ancora vivo, almeno non lasciasse invendicata la sua morte; il suo cadavere era stato buttato dal taverniere su un carro, e vi era stato sparso sopra del letame; gli chiedeva di trovarsi alla porta della città all'alba, prima che il carro uscisse verso la campagna. Emozionato da questo sogno, egli si recò di buon mattino alla porta, fermò il carrettiere, gli domandò che cosa c'era nel carro. Quello, atterrito, scappò via; il morto fu tratto fuori; il taverniere, venuto in luce il suo delitto, fu condannato a morte. Quale sogno si può considerare più profetico di questo? |
Q. Mucius augur multa narrare de C. Laelio socero suo memoriter et iucunde solebat nec dubitare illum in omni sermone appellare sapientem; ego autem a patre ita eram deductus ad Scaevolam sumpta virili toga, ut, quoad possem et liceret, a senis latere numquam discederem; itaque multa ab eo prudenter disputata, multa etiam breviter et commode dicta memoriae mandabam fierique studebam eius prudentia doctior. Quo mortuo me ad pontificem Scaevolam contuli, quem unum nostrae civitatis et ingenio et iustitia praestantissimum audeo dicere.Sed de hoc alias; nunc redeo ad augurem. | Quinto Mucio, l'augure, soleva raccontare piacevolmente affidandosi alla memoria, molte cose intorno a Gaio Lelio, suo suocero, e non esitava a chiamarlo, in ogni discorso, "sapiente"; io, poi, presa la toga virile, ero stato condotto dal padre mio a Scevola con l'intenzione che, finché potessi e mi fosse consentito , non mi allontanassi mai dal fianco del vecchio, e così molte cose da lui con sapienza discusse, molte dette con brevità e garbo, le mandavo a memoria e mi studiavo di farmi con la sua esperienza più dotto. Morto lui, mi sono recato da Scevola pontefice, che oso dire superiore per ingegno e rettitudine a tutti i nostri concittadini. Ma di lui un'altra volta: adesso ritorno all'augure. |
ex his Cotta et Sulpicius cum meo iudicio tum omnium facile primas tulerunt. Hic Atticus: quo modo istuc dicis, inquit, cum tuo iudicio tum omnium? semperne in oratore probando aut improbando volgi iudicium cum intellegentium iudicio congruit? an alii probantur multitudine, alii autem ab iis qui intellegunt? Recte requiris, inquam, Attice; sed audies ex me fortasse quod non omnes probent. | Tra costoro Cotta e Sulpicio, a giudizio mio come di tutti, ottennero senza dubbio il primato. " E qui Attico: "In che senso" fece "dici codesto, "a giudizio mio come di tutti"? Quando si tratta di esprime re approvazione o disapprovazione nei confronti di un oratore, il giudizio del volgo corrisponde sempre al giudizio dei competenti? O, al contrario, alcuni vengono apprezzati dalla moltitudine, altri invece da quelli che se ne intendono?". "La tua domanda è giusta, Attico;" dissi "ma forse sentirai da me un'opinione che non a tutti andrà a genio." |
Videsne Epicurum, quem hebetem et rudem dicere solent Stoici, quem ad modum quod in natura rerum omne esse dicimus id infinitum esse concluserit? "Quod finitum est" inquit "habet extremum." Quis hoc non dederit?- "Quod autem habet extremum, id cernitur ex alio extrinsecus." Hoc quoque est concedendum. "At, quod omne est, id non cernitur ex alio extrinsecus." Ne hoc quidem negari potest. "Nihil igitur cum habeat extremum, infinitum sit necesse est." Videsne, ut ad rem dubiam concessis rebus pervenerit? Hoc vos dialectici non facitis, nec solum ea non sumitis ad concludendum quae ab omnibus concedantur, sed ea sumitis quibus concessis nihilo magis efficiatur quod velitis.Primum enim hoc sumitis: "Si sunt di, benefici in homines sunt." Quis hoc vobis dabit? Epicurusne? Qui negat quicquam deos nec alieni curare nec sui; an noster Ennius? Qui magno plausu loquitur adsentiente populo:"Ego deum genus esse semper dixi et dicam caelitum,sed eos non curare opinor quid agat humanum genus."Et quidem, cur sic opinetur, rationem subicit; sed nihil est necesse dicere quae sequuntur; tantum sat est intellegi, id sumere istos pro certo, quod dubium controversumque sit. | Guarda un po' come Epicuro, che gli stoici sogliono considerare sciocco e rozzo, ha dimostrato che quello che nella natura chiamiamo "il tutto" è infinito. "Ciò che è finito" egli dice "ha un'estremità." Chi non è disposto ad ammettere questo? "Ciò che ha un'estremità si può vedere da un punto che si trovi al di fuori." Anche questo bisogna ammetterlo. "Ma ciò che è il tutto non può essere veduto da un punto che si trovi al di fuori del tutto." Nemmeno questo si può negare. "Non avendo, dunque, alcuna estremità, è necessariamente infinito." Vedi come, prendendo le mosse da premesse che tutti ammettono, giunge a dimostrare una cosa di cui si dubitava? Non così procedete voi dialettici; e non solo non partite, per svolgere le vostre argomentazioni, da premesse che tutti concedono, ma presupponete cose che, anche se vi venissero concesse, egualmente non vi farebbero raggiungere la conclusione da voi voluta. Incominciate, difatti, con questo presupposto: "Se gli dèi esistono, sono benèfici verso gli uomini." Chi ve lo darà per sicuro? Forse Epicuro, il quale nega che gli dèi abbiano alcuna preoccupazione sia per gli altri, sia per se stessi? Oppure il nostro Ennio, il quale fa dire a un suo personaggio, mentre la folla degli spettatori dimostra il proprio assenso con grandi applausi:"Io ho sempre detto e sempre dirò che esiste la stirpe degli dèi celesti, ma credo che essi non si curino di quel che fa il genere umano."E aggiunge sùbito il motivo di questa sua opinione; ma non è necessario che io reciti il seguito; basta solamente che si capisca che costoro presuppongono come certo ciò che è dubbio e controverso. |
Sed maximum est in amicitia parem esse inferiori. Saepe enim excellentiae quaedam sunt, qualis erat Scipionis in nostro, ut ita dicam, grege. Numquam se ille Philo, numquam Rupilio, numquam Mummio anteposuit, numquam inferioris ordinis amicis, Q. vero Maximum fratrem, egregium virum omnino, sibi nequaquam parem, quod is anteibat aetate, tamquam superiorem colebat suosque omnes per se posse esse ampliores volebat. | Inoltre è importantissimo nell'amicizia ritenersi pari a chi è inferiore. Spesso infatti vi sono personaggi eminenti come era Scipione, nel nostro, per così dire, gregge. Mai egli si antepose a Filo, mai a Rupilio, mai a Mummio, mai ad amici di rango sociale inferiore. Il fratello Quinto Massimo, poi, egregio uomo sotto ogni rispetto, ma non certo pari a lui, poiché gli era maggiore d'età, egli lo onorava come un superiore, e voleva che per opera sua tutti i suoi (amici) potessero essere più importanti. |
Quamdiu quisquam erit, qui te defendere audeat, vives, et vives ita, ut [nunc] vivis. multis meis et firmis praesidiis obsessus, ne commovere te contra rem publicam possis. Multorum te etiam oculi et aures non sentientem, sicut adhuc fecerunt, speculabuntur atque custodient. Etenim quid est, Catilina, quod iam amplius expectes, si neque nox tenebris obscurare coeptus nefarios nec privata domus parietibus continere voces coniurationis tuae potest, si illustrantur, si erumpunt omnia? Muta iam istam mentem, mihi crede, obliviscere caedis atque incendiorum.Teneris undique; luce sunt clariora nobis tua consilia omnia; quae iam mecum licet recognoscas. | Finché esisterà qualcuno che avrà il coraggio di difenderti, vivrai, sì, ma così come stai vivendo adesso: assediato dalle mie guardie, forti e numerose, che ti impediranno di attentare allo Stato. E poi, gli occhi, le orecchie di molti ti spieranno, ti sorveglieranno così come hanno fatto finora. E tu non te ne accorgerai. Allora, Catilina, cosa aspetti ancora se il buio della notte non può nascondere le tue empie riunioni, se neppure le pareti di un'abitazione privata possono contenere le voci della congiura, se tutto emerge, viene alla luce? Cambia idea ormai, dammi retta; dimentica massacri e incendi. Sei braccato da ogni parte. Tutto il tuo piano ci è più chiaro della luce del sole. Se vuoi, ripercorriamolo insieme. |
[...] Haec ad posteriorem.Ta peri tou kathekontosquatenus Panaetius, absolvi duobus. Illius tres sunt; sed cum initio divisisset ita, tria genera exquirendi offici esse, unum, cum deliberemus honestum an turpe sit, alterum, utile an inutile, tertium, cum haec inter se pugnare videantur, quo modo iudicandum sit, qualis causa Reguli, redire honestum, manere utile, de duobus primis praeclare disseruit, de tertio pollicetur se deinceps sed nihil scripsit.Eum locum Posidonius persecutus <est>. Ego autem et eius librum arcessivi et ad Athenodorum Calvum scripsi ut ad meta kephalaiamitteret; quae exspecto. Quem velim cohortere et roges ut quam primum. In eo estperi tou kata peristasin kathekontos. Quod de inscriptione quaeris, non dubito quinkathekon"officium" sit, nisi quid tu aliud; sed inscriptio plenior "de officiis".Prosphonoautem Ciceroni filio. Visum est nonanoikeion. | [...] E ora, alla seconda lettera. Ho trattato in due libri la materia intorno ai doveri fin dove l'ha trattata Panezio. I suoi sono tre; ma nonostante all'inizio avesse diviso (la materia) così, (affermando) che tre sono le questioni nello studio del dovere, la prima quando giudichiamo se un'azione è onesta o disonesta, la seconda se è utile o inutile, la terza quando sembra che questi principi siano in contrasto fra loro, in quale modo si debba giudicare, come il caso di Regolo, per cui onesto era il ritornare, utile il rimanere, espose molto chiaramente le prime due, della terza promette che ne avrebbe trattato in seguito, ma non ne scrisse nulla. Questa parte l'ha trattata Posidonio. Io, da parte mia, mi sono procurato il suo libro e ho scritto ad Atenodoro il Calvo per farmi mandare i sommari dei capitoli; che sto aspettando. Vorrei che tu lo incitassi e pregassi di mandarmeli quanto prima. In esso tratta del dovere in rapporto alle circostanza. Quanto a ciò che chiedi riguardo al titolo, non dubito che"kathekon"sia "officium", a meno che tu non abbia di meglio; ma il titolo più completo è "De officiis". Lo dedicherò a (mio) figlio Cicerone; non mi sembra fuori luogo. |
Hic ego: noli, inquam, Brute, existimare his duobus quicquam fuisse in nostra civitate praestantius. nam ut paulo ante dixi consultorum alterum disertissimum, disertorum alterum consultissimum fuisse, sic in reliquis rebus ita dissimiles erant inter sese, statuere ut tamen non posses utrius te malles similiorem. Crassus erat elegantium parcissimus, Scaevola parcorum elegantissimus; Crassus in summa comitate habebat etiam severitatis satis, Scaevolae multa in severitate non deerat tamen comitas. | E io: "Non pensare," dissi "Bruto, che nella nostra città vi sia stato alcuno più insigne di questi due. Infatti, come ho detto poco fa che l'uno era il più facondo tra i giureconsulti, l'altro il migliore giureconsulto tra quanti erano facondi, così nelle altre cose erano diversissimi l'uno dall'altro: in un modo, però, che non sapevi dire a chi avresti preferito rassomigliare. Crasso era il più sobrio tra i parlatori eleganti, Scevola il più elegante tra quelli che di parole erano parchi; Crasso, nella sua grande amabilità, aveva anche austerità a sufficienza, a Scevola, nonostante la molta austerità, non mancava l'amabìlità. |
Atque eodem tempore accusator de plebe L. Caesulenus fuit, quem ego audivi iam senem, cum ab L. Sabellio multam lege Aquilia de iustitia petivisset. non fecissem hominis paene infimi mentionem, nisi iudicarem qui suspiciosius aut criminosius diceret audivisse me neminem. doctus etiam Graecis T. Albucius vel potius paene Graecus. loquor, ut opinor; sed licet ex orationibus iudicare. fuit autem Athenis adulescens, perfectus Epicureus evaserat, minime aptum ad dicendum genus. | E nello stesso periodo fece l'accusatore - ma era di bassa origine - Lucio Cesuleno, che io potei ascoltare nella sua vecchiaia, quando chiese un'ammenda per Lucio Sabellio in base alla legge Aquilia sulla giustiziato. Non avrei fatto menzione di quest'uomo, di condizione quasi infima, se non ritenessi di non aver ascoltato nessuno che parlasse in modo da suscitare più sospetti o una maggiore convinzione di colpevolezza. E ancora, Tito Albucio fu dotto di lettere greche, o piuttosto, quasi un vero greco. Io parlo secondo la mia opinione; ma si può giudicare dai suoi discorsi. Visse ad Atene nella giovinezza, e ne riuscì un epicureo fatto e finito: un tipo di formazione pochissimo adatto all'eloquenza. |
Sed ierit ad bellum, dissenserit non a te solum, verum etiam a fratribus; hi te orant tui. Equidem, cum tuis omnibus negotiis interessem, memoria teneo qualis T. Ligarius quaestor urbanus fuerit erga te et dignitatem tuam. Sed parum est me hoc meminisse, spero etiam te, qui oblivisci nihil soles nisi iniurias,—quam hoc est animi, quam etiam ingeni tui!—te aliquid de huius illo quaestorio officio, etiam de aliis quibusdam quaestoribus reminiscentem, recordari. | Ma ammettiamo pure che egli sia partito per la guerra, che si sia staccato non solo da te ma anche dai fratelli, sono questi a pregarti e sono tuoi amici. Quanto a me, essendomi trovato sempre in mezzo alle tue faccende, ricordo bene come si comportò nei confronti tuoi e della tua dignità Tito Ligario, quand'era questore urbano. Ma sarebbe, poco che fossi io a ricordarmelo: spero che tu pure, che hai l’abitudine di non dimenticare nulla, se non le offese - questo è proprio del tuo animo ed anche della tua indole - tu pure serbi qualche ricordo del servigio resoti da questo questore, ripensando anche a qualche altro questore. |
Licet enim Epicuro concedenti omne enuntiatum aut verum aut falsum esse non vereri, ne omnia fato fieri sit necesse; non enim aeternis causis naturae necessitate manantibus verum est id, quod ita enuntiatur: 'Descendit in Academiam Carneades', nec tamen sine causis, sed interest inter causas fortuito antegressas et inter causas cohibentis in se efficientiam naturalem. Ita et semper verum fuit 'Morietur Epicurus, cum duo et septuaginta annos vixerit, archonte Pytharato', neque tamen erant causae fatales, cur ita accideret, sed, quod ita cecidit, certe casurum sicut cecidit fuit. | Epicuro, insomma, anche se ammettesse che ogni proposizione è o vera o falsa, può non temere che tutto avvenga necessariamente per opera del fato; non per cause eterne, che provengono da necessità di natura, è infatti vero quanto viene espresso come segue: "Carneade scende all'Accademia", il che comunque non avviene senza cause; ma c'è una differenza tra le cause accidentali pregresse e le cause che contengono in sé la capacità di determinare gli eventi. Così, è sempre stato vero affermare: "Epicuro morirà, dopo aver vissuto settantadue anni, durante l'arcontato di Pitarato", eppure non c'erano cause fatali per cui dovesse così accadere; ma, poiché è accaduto, è fuor di dubbio che dovesse accadere come è accaduto. |
Tum ille: ego vero et exspectabo ea quae polliceris, nec exigam nisi tuo commodo et erunt mihi pergrata, si solveris. Mihi quoque, inquit Brutus, [et] exspectanda sunt ea quae Attico polliceris, etsi fortasse ego a te huius voluntarius procurator petam, quod ipse, cui debes, incommodo exacturum negat. | E lui: "lo aspetterò ciò che prometti, e non riscuoterò se non a tuo agio; il tuo sdebitarti mi sarà graditissimo". "Anch'io" fece Bruto "devo attendere ciò che prometti ad Attico; sebbene forse io, facendomi pro curatore volontario di costui, ti richiederò ciò che il tuo creditore afferma di non voler esigere con tuo incomodo." |
Tum ego: vere tibi, inquam, Brute, dicam. non me existimavi in hoc sermone usque ad hanc aetatem esse venturum; sed ita traxit ordo aetatum orationem, ut iam ad minoris etiam pervenerim. Interpone igitur, inquit, si quos videtur; deinde redeamus ad te et ad Hortensium. Immo vero, inquam, ad Hortensium; de me alii dicent, si qui volent. Minime vero, inquit. nam etsi me facile omni tuo sermone tenuisti, tamen is mihi longior videtur, quod propero audire de te; nec vero tam de virtutibus dicendi tuis, quae cum omnibus tum certe mihi notissimae sunt, quam quod gradus tuos et quasi processus dicendi studeo cognoscere. | E io allora: "Ti dirò la verità, Bruto. Non credevo che con questo discorso sarei giunto fino a quest'epoca; ma la successione cronologica ha così trascinato la mia trattazione, che sono arrivato anche ai più giovani del nostro tempo". "Introduci allora nella tua enumera zione" disse "quelli che ti sembra opportuno; quindi torniamo a te e a Ortensio." "A Ortensio, anzi;" dissi "di me parleranno altri, se lo vorranno." "Niente affatto" disse. "Infatti, anche se non hai avuto difficoltà a tenermi avvinto col tuo discorso, in ogni sua parte, tuttavia esso mi pare alquanto lungo, perché ho fretta di sentir parlare di te; e non tanto dei pregi della tua eloquenza, che sono ben noti a tutti, e a me certo più che a ogni altro; è, piuttosto, che ho voglia di conoscere i tuoi passi e, per così dire, la tua avanzata nell'eloquenza." |
Ac ne illa quidem promissa servanda sunt, quae non sunt iis ipsis utilia, quibus illa promiseris. Sol Phaetonti filio, ut redeamus ad fabulas, facturum se esse dixit, quidquid optasset. Optavit, ut in currum patris tolleretur; sublatus est; atque is ante quam constitit ictu fulminis deflagravit; quanto melius fuerat in hoc promissum patris non esse servatum. Quid? quod Theseus exegit promissum a Neptuno? Cui cum tres optationes Neptunus dedisset, optavit interitum Hippolyti filii, cum is patri suspectus esset de noverca; quo optato impetrato, Theseus in maximis fuit luctibus. | Ma non devono esser mantenute neppure quelle promesse che non sono di utilità a coloro ai quali sono state fatte. Per ritornare ai miti, il Sole disse al figlio Fetonte che avrebbe esaudito qualunque suo desiderio; egli volle salire sul cocchio del padre; vi fu fatto salire. Ma prima di mettersi a sedere fu colpito e bruciato da un fulmine. Quanto sarebbe stato meglio che in questo caso non fosse stata mantenuta la promessa paterna! E che dire della promessa che Teseo pretese da Nettuno? Avendogli Nettuno concesso tre desideri, chiese la morte del figlio Ippolito, poiché questi era stato sospettato dal padre di illecita relazione con la matrigna; ottenuto l'adempimento di questo desiderio, Teseo piombò nel maggiore dei lutti. |
Sed iis, qui vi oppressos imperio coercent, sit sane adhibenda saevitia, ut eris in famulos, si aliter teneri non possunt; qui vero in libera civitate ita se instruunt, ut metuantur, iis nihil potest esse dementius. Quamvis enim sint demersae leges alicuius opibus, quamvis timefacta libertas, emergunt tamen haec aliquando aut iudiciis tacitis aut occultis de honore suffragiis. Acriores autem morsus sunt intermissae libertatis quam retentae. Quod igitur latissime patet neque ad incolumitatem solum, sed etiam ad opes et potentiam valet plurimum, id amplectamur, ut metus absit, caritas retineatur.Ita facillime quae volemus et privatis in rebus et in re publica consequemur. Etenim qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est. | Coloro che esercitano il comando opprimendo i cittadini con la forza, impieghino pure la crudeltà, come i padroni nei confronti degli schiavi, se non possono governarli in nessun altro modo. Ma quelli che, in una libera città, si preparano a farsi temere, raggiungono il massimo della follia. Benché le leggi siano conculcate dalla potenza di un uomo e la libertà sia intimidita, tuttavia sia le une che l'altra emergono di quando in quando o in taciti giudizi o nelle elezioni segrete per qualche carica. Più penetranti sono i morsi della libertà perduta che non di quella costantemente mantenuta. Accogliamo questa considerazione, che ha una vastissima applicazione e non vale solo per l'incolumità dei cittadini, ma soprattutto per la ricchezza e la potenza, e cioè di tener lontano il timore e conservare la benevolenza (dei cittadini). Così con grandissima facilità otterremo ciò che vorremo sia negli affari privati che nella vita pubblica. Giacché coloro che vogliono essere temuti, necessariamente devono essi stessi, a loro volta, a temere quegli stessi dei quali dovrebbero essere temuti. |
Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicae salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio, qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperii vere nominamus, hunc et huius socios a tuis [aris] ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a vita fortunisque civium [omnium] arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriae, latrones Italiae scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis. | Con questi presagi, Catilina, per la salvezza suprema dello Stato, perché tu e coloro che si sono legati a te in ogni crimine e omicidio andiate incontro alla morte più orrenda, parti per la tua guerra empia e nefasta! Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici con cui fondò Roma, tu che a ragione sei chiamato protettore di questa città e dell'impero, difendi da questo individuo e dai suoi complici i templi tuoi e degli altri dèi, le case e le mura della città, la vita e i beni di tutti i cittadini! Punisci con supplizi eterni, nella vita e nella morte, questi uomini avversari degli onesti, nemici della patria, predoni dell'Italia, che un patto criminoso e una complicità di morte hanno legato insieme! |
Videsne illam urbem, quae parere populo Romano coacta per me renovat pristina bella nec potest quiescere?". Ostendebat autem Carthaginem de excelso et pleno stellarum, illustri et claro quodam loco. "Ad quam tu oppugnandam nunc venis paene miles. Hanc hoc biennio consul evertes, eritque cognomen id tibi per te partum, quod habes adhuc a nobis hereditarium. Cum autem Carthaginem deleveris, triumphum egeris censorque fueris et obieris legatus Aegyptum, Syriam, Asiam, Graeciam, deligere iterum consul absens bellumque maximum conficies, Numantiam exscindes.Sed cum eris curru in Capitolium invectus, offendes rem publicam consiliis perturbatam nepotis mei. | Non vedi quella città, che costretta per opera mia a piegarsi al popolo romano va riaccendendo gli antichi conflitti e non può starsene in pace?". Intanto mi indicava Cartagine da un luogo elevato e pieno di stelle, luminoso e splendente. "Ora tu poco più che soldato semplice vieni qui per conquistarla, come console nel giro dei prossimi due anni la distruggerai dalle fondamenta, e avrai, procurato per i tuoi meriti, quel soprannome che hai poiché ereditato da noi. Quando avrai distrutto Cartagine, avrai celebrato il trionfo, e sarai stato censore e sarai andato come ambasciatore in Egitto, in Siria, in Asia, in Grecia, di nuovo senza tua petizione sarai eletto console, concluderai l'immane guerra, espugnerai Numanzia. Ma quando sarai salito al Campidoglio sul carro trionfale, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote. |
Licet enim mihi, M. fili, apud te gloriari, ad quem et hereditas huius gloriae et factorum imitatio pertinet. Mihi quidem certe vir abundans bellicis laudibus, Cn. Pompeius, multis audientibus, hoc tribuit, ut diceret frustra se triumphum tertium deportaturum fuisse, nisi meo in rem publicam beneficio ubi triumpharet esset habiturus. Sunt igitur domesticae fortitudines non inferiores militaribus; in quibus plus etiam quam in his operae studiique ponendum est. | Lascia, Marco, figlio mio, lascia che io me ne vanti con te, poiché spetta a te ereditare questa mia gloria ed emulare queste mie azioni. Certo è che un uomo, colmo di gloria militare, Gneo Pompeo, mi fece l'onore di affermare alla presenza di molti che invano egli avrebbe riportato il suo terzo trionfo se, per le mie benemerenze patriottiche, egli non avesse avuto una patria, ove trionfare. Le prove di fortezza che si danno in pace non sono dunque inferiori alle prove che si danno in guerra; ché anzi quelle richiedono maggiore fatica maggiore impegno di queste. |
Tullius Terentiae suae sal.S. v. b. e. e. v. Redditae mihi tandem sunt a Caesare litterae satis liberales, et ipse opinione celerius venturus esse dicitur; cui utrum obviam procedam, an hic eum exspectem, cum constituero, faciam te certiorem. Tabellarios mihi velim quam primum remittas. Valetudinem tuam cura diligenter. Vale. D. pr. Id. Sext. | Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia.Se stai bene, me ne compiaccio, io sto bene. Finalmente mi è stata consegnata una lettera da parte di Cesare abbastanza cordiale e che si dice che arriverà più presto di quanto si possa pensare; ti informerò se gli andrò incontro o se lo aspetterò qui. Vorrei che mi rimandassi i corrieri quanto prima. Cura con attenzione la tua salute. Stammi bene. Consegnata il 12 agosto. |
Itaque arbitrantur prudentiam esse legem, cuius ea vis sit, ut recte facere iubeat, vetet delinquere, eamque rem illi Graeco putant nomine nÒmon <a> suum cuique tribuendo appellatam, ego nostro a legendo. Nam ut illi aequitatis, sic nos delectus vim in lege ponimus, et proprium tamen utrumque legis est. Quod si ita recte dicitur, ut mihi quidem plerumque videri solet, a lege ducendum est iuris exordium. Ea est enim naturae vis, ea mens ratioque prudentis, ea iuris atque iniuriae regula.Sed quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio, populariter interdum loqui necesse erit, et appellare eam legem, quae scripta sancit quod vult aut iubendo <aut prohibendo>, ut vulgus appellare <solet>. Constituendi vero iuris ab illa summa lege capiamus exordium, quae, saeclis <communis> omnibus, ante nata est quam scripta lex ulla aut quam omnino civitas constituta. | Pertanto questi giudicano che legge sia la saggezza, la cui forza è che essa comanda di agire rettamente, vieta di commettere colpa, e ritengono che essa, in base al suo nome greco, sia stata chiamata dall'attribuire a ciascuno il suo, io invece in base al suo nome latino da "scegliere"; infatti come quelli attribuiscono al termine "legge" il significato di equità, così noi vi attribuiamo quello di scelta, ma tuttavia ambedue i significati sono propri della legge. Se questo ragionamento è esatto, e certo a me in linea di massima sembra tale, la fonte del diritto è da desumersi dalla legge; essa infatti è la forza vitale della natura, essa è mente e ragione del saggio, essa criterio del giusto e dell'ingiusto. Ma poiché ogni nostro discorso mira alla comprensione delle masse, sarà necessario parlare talvolta in forma popolare e chiamare legge quella che, scritta, sancisce ciò che vuole o comandando o vietando secondo la definizione corrente. Riallacciamoci dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema, che è nata tanti secoli prima che una legge sia mai stata scritta o che qualche Stato sia mai stato del costituito. |
[Secundo autem Punico bello post Cannensem pugnam quos decem Hannibal Romam misit astrictos iure iurando se redituros esse nisi de redimendis is, qui capti erant, impetrassent, eos omnes censores, quoad quisque eorum vixit, quod peierassent in aerariis reliquerunt, nec minus illum, qui iure iurando fraude culpam invenerat. Cum enim permissu Hannibalis exisset e castris, rediit paulo post, quod se oblitum nescio quid diceret; deinde egressus e castris iure iurando se solutum putabat, et erat verbis, re non erat.Semper autem in fide quid senseris, non quid dixeris, cogitandum est. Maximum autem exemplum est iustitiae in hostem a maioribus nostris constitutum, cum a Pyrrho perfuga senatui est pollicitus se venenum regi daturum et eum necaturum. Senatus et C. Fabricius eum Pyrrho dedit. Ita ne hostis quidem et potentis et bellum ultro inferentis interitum cum scelere approbavit.] | [Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto nella colpa di un giuramento non rispettato. Uscito, difatti, dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; ed era, a parole, ma non di fatto]. Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola. [Il più grande esempio, di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offrì al senato di uccidere il re col veleno. Il Senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro. Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto.] E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza. |
Cui denique commisit, quo adiutore usus est, quo socio, quo conscio, cui tantum facinus, cui se, cui salutem suam credidit? Servisne mulieris? Sic enim obiectum est. Et erat tam demens hic, cui vos in genium certe tribuitis, etiamsi cetera inimica oratione detrahitis, ut omnes suas fortunas alienis servis committeret? At quibus servis? Refert enim magnopere id ipsum. Iisne, quos intellegebat non communi condicione servitutis uti, sed licentius, liberius, familiarius cum domina vivere? Quis enim hoc non videt, iudices, aut quis ignorat, in eius modi domo, in qua mater familias meretricio more vivat, in qua nihil geratur, quod foras proferendum sit, in qua inusitatae, libidines, luxuries, omnia denique inaudita vitia ac flagitia versentur, hic servos non esse servos, quibus omnia committantur, per quos gerantur, qui versentur isdem in voluptatibus, quibus occulta credantur, ad quos aliquantum etiam ex cotidianis sumptibus ac luxurie redundet? Id igitur Caelius non videbat? | [57] E infine a chi commissionò (il delitto), di quale complice si avvalse (utor+ablativo), di quale compagnia, di quale favoreggiatore, a chi affidò un tanto grande misfatto, a chi se stesso, a chi la propria salvezza? Forse si servì una donna? Così infatti fu obiettato. Ed era tanto stolto cosuti, al quale certamente voi attribuite un’intelligenza, sebbene neghiate altre qualità con un discorso ostile, tanto da affidare a servi sconosciuti la propria sorte? Tuttavia a quali servi? Infatti importa moltissimo questa medesima cosa. Forse a quelli che sapeva non trovarsi nella comune condizione di schiavitù, ma vivere con la propria padrona in modo alquanto licenzioso (comparativo assoluto), alquanto emancipato, alquanto confidenziale? Infatti chi non vede ciò, o giudici, o chi ignora che in una casa di tal genere nella quale la padrona viva nel modo da meretrice, nella quale nulla sia fatto che possa essere riferito fuori, dove impazzano inusitate orge, libidini, lussurie, ed infine tutti i vizi e le vergogne inaudite. Qui i servi non sono servi, ai quali viene affidato ogni incarico, per mezzo dei quali (Sottinteso: “ogni incarico”) viene gestito, i quali partecipano ai medesimi piaceri, ai quali si confida ogni segreto, per i quali ritorna non poco anche degli sperperi quotidiani e degli eccessi? Dunque Celio non vedeva questa cosa? |
Hic ego: etsi, inquam, de optumi viri nobisque amicissimi laudibus lubenter audio, tamen incurro in memoriam communium miseriarum, quarum oblivionem quaerens hunc ipsum sermonem produxi longius. sed de Caesare cupio audire quid tandem Atticus iudicet. Et ille: praeclare, inquit, tibi constas, ut de iis qui nunc sint nihil velis ipse dicere; et hercule si sic ageres, ut de iis egisti qui iam mortui sunt, neminem ut praetermitteres, ne tu in multos Autronios et Staienos incurreres.quare sive hanc turbam effugere voluisti sive veritus <es> ne quis se aut praeteritum aut non satis laudatum queri posset, de Caesare tamen potuisti dicere, praesertim cum et tuum de illius ingenio notissimum iudicium esset nec illius de tuo obscurum. | 251 E io, a questo punto: "Per quanto ascolti volentieri" dissi "gli elogi di un uomo eccellente, e di un amico carissimo, mi imbatto tuttavia nel ricordo delle comuni sventure: mentre proprio nello sforzo di dimenticarle ho tanto prolungato questo discorso. Ma ho voglia di sentire quale sia infine il giudizio di Attico su Cesare". E lui: "Sei di una coerenza esemplare nel tuo rifiuto di dire alcunché sui viventi; e, perbacco, se tu procedessi, come hai fatto con i morti, in modo da non tralasciare nessuno, certo ti imbatteresti in parecchi Autroni e in parecchi Staieni. Perciò, sia che tu volessi schivare questa turba, sia che avessi timore che qualcuno potesse lamentarsi di esser stato o tralasciato o non elogiato a sufficienza, avresti potuto tuttavia parlare di Cesare; tanto più sapendo che è ben noto il tuo giudizio sul suo ingegno, e che non è un mistero neppure quello di lui sul tuo". |
CICERO ATTICO SAL.epistulam cum a te avide exspectarem ad vesperum, ut soleo, ecce tibi nuntius pueros venisse Roma! voco, quaero ecquid litterarum. negant. 'quid ais?' inquam 'nihilne a Pomponio?' perterriti voce et vultu confessi sunt se accepisse sed excidisse in via. quid quaeris? permoleste tuli; nulla enim abs te per hos dies epistula inanis aliqua re utili et suavi venerat. nunc si quid in ea epistula quam ante diem xvi Kal. Maias dedisti fuit historia dignum, scribe quam primum, ne ignoremus; sin nihil praeter iocationem, redde id ipsum.et scito Curionem adulescentem venisse ad me salutatum. valde eius sermo de Publio cum tuis litteris congruebat; ipse vero mirandum in modum 'reges odisse superbos.' peraeque narrabat incensam esse iuventutem neque ferre haec posse. bene habemus nos, si in his spes est; opinor, aliud agamus. ego me do historiae; quamquam licet me Saufeium putes esse. nihil me est inertius.sed cognosce itinera nostra, ut statuas ubi nos visurus sis. in Formianum volumus venire parilibus; inde, quoniam putas praetermittendum nobis esse hoc tempore cratera illum delicatum, Kal. Maias de Formiano proficiscemur, ut Anti simus a. d. v Nonas Maias. ludi enim Anti futuri sunt a iiii ad pr. Nonas Maias. Eos Tullia spectare vult. Inde cogito in Tusculanum, deinde Arpinum, Romam ad Kal. Iunias. te aut in Formiano aut Anti aut in Tusculano cura ut videamus. epistulam superiorem restitue nobis et appinge aliquid novi. | CICERONE AD ATTICOMentre per la sera, come al solito, stavo aspettando con ansia una tua lettera, eccoti l'avviso che degli schiavisono arrivati da Roma! Chiamo, chiedo se c'è qualcosa da parte tua. Mi rispondono di no. "Come? - dico io -niente da Pomponio?" Sconvolti dal mio tono e dalla mia espressione hanno confessato che gliene era stata bensìaffidata una, ma che durante il viaggio l'avevano smarrita. Che vuoi? L'ho presa proprio male: in questi giorni nonmi era arrivata nessuna tua lettera che fosse priva di qualche spunto o utile o divertente. Ora, se in quella tua datata15 aprile c'era qualcosa degno di essere consegnato alle storie, riscrivilo appena possibile perché non ne siamolasciati all'oscuro; se non c'era altro che dell'umorismo, concedimi il bis lo stesso.E sappi che il giovane Curione è venuto da me a presentarmi i suoi rispetti. Quello che mi ha raccontato di Publioconcordava perfettamente con la tua lettera; quanto a lui mostrava in modo mirabile "d'aver in odio la regalsuperbia". E mi andava spiegando in lungo e in largo come la gioventù fosse tutto ardore e incapace di sopportare queste cose. Di bene in meglio. Se hanno da essere costoro le nostre speranze, penso io, possiamo dedicarci ad altro.Io, per esempio, mi do alla storia. Però, anche se tu mi ritieni un Saufeio, niente mi batte in pigrizia.Piuttosto prendi note dei miei spostamenti, cosi da decidere dove vedermi. Per il 21, festa di Pales, intendo arrivarealla villa di Formia; può, dal momento che secondo te in questo periodo vanno escluse per me le raffinatezze delgolfo di Baia, il 1° maggio partirò da Formia per essere ad Anzio il tre del mese. Ad Anzio infatti si svolgerannospettacoli dal 4 al 7 maggio e Tullia tiene ad assistervi. Poi il programma sarebbe di passare nella villa di Tuscolo,quindi ad Arpino, infine a Roma per il 1° giugno. Sistema le cose in modo da vederci o a Formia o ad Anzio o alTuscolo. Ricostruisci per me la lettera precedente e aggiungici qualcosa di nuovo. |
In huiusmodi causis aliud Diogeni Babylonio videri solet, magno et gravi Stoico, aliud Antipatro, discipulo eius, homini acutissimo; Antipatro omnia patefacienda, ut ne quid omnino, quod venditor norit, emptor ignoret, Diogeni venditorem, quatenus iure civili constitutum sit, dicere vitia oportere, cetera sine insidiis agere et, quoniam vendat, velle quam optime vendere. "Advexi, eui, vendo meum non pluris, quam ceteri, fortasse etiam minoris, cum maior est copia; cui fit iniuria?" | In casi simili diversa è l'opinione di Diogene di Babilonia, stoico importante e serio, e di Antipatro, suo discepolo, uomo di straordinaria acutezza: secondo Antipatro bisogna dichiarare tutto, perché il compratore non ignori nulla che sia noto al venditore; secondo Diogene occorre che il venditore riveli i difetti, limitatamente alle prescrizioni del diritto civile, tratti il resto senza frode e, dal momento che vende, cerchi di vendere al prezzo più vantaggioso. "Ho importato la merce, l'ho esposta, la vendo a un prezzo non maggiore degli altri, forse anche minore, poiché ne ho una quantità più grande. A chi faccio torto?" Insorge dall'altra parte il ragionamento di Antipatro: |
An sperandi de Ligario causa non erit, cum mihi apud te locus sit etiam pro altero deprecandi? Quamquam nec in hac oratione spes est posita causae nec in eorum studiis qui a te pro Ligario petunt tui necessarii. Vidi enim et cognovi quid maxime spectares cum pro alicuius salute multi laborarent, causas apud te rogantium gratiosiores esse quam voltus neque te spectare quam tuus esset necessarius is qui te oraret, sed quam illius, pro quo laboraret.Itaque tribuis tu quidem tuis ita multa ut mihi beatiores illi videantur interdum, qui tua liberalitate fruantur, quam tu ipse, qui illis tam multa concedas; sed video tamen apud te, ut dixi, causas valere plus quam preces, ab eisque te moveri maxime quorum iustissimum videas dolorem in petendo. | 0 forse per la questione di Ligario non ci sarà motivo di sperare, mentre io ho presso di te la facoltà di implorare la tua grazia anche per un altro? Sebbene, la speranza di questa causa non è riposta né in questo mio discorso, né nei buoni uffici di coloro che ti sono amici e sollecitano la tua grazia a favore di Ligario. Ho veduto, infatti, e constatato a che cosa tu soprattutto badassi, quando molti si adoperavano per la salvezza di qualcuno; i motivi di quelli che intercedevano presso di te ti riuscivano più graditi dei loro volti, né tu guardavi a quanto, chi ti supplicava, fosse amico tuo, ma a quanto lo fosse di quello a favore del quale intercedeva. E' ben vero che tu fai ai tuoi tante concessioni che talora, quanti beneficiano della tua generosità, mi sembrano più ricchi perfino di te, che concedi loro tante grazie; ma vedo, tuttavia, che presso di te, come ho detto, hanno più valore i motivi che le preghiere, e ti lasci commuovere soprattutto da quelli, il cui dolore nel richiedere tu riconosca come il più giustificato. |
(Scip) ....<quae> dam quasi semina, neque reliquarum virtutum nec ipsius rei publicae reperiatur ulla istitutio. Ho coetus igitur hac de qua exposui causa instituti, sedem primum certo loco domiciliorum causa costituerunt; quam cum locis manuque saepsissent, eius modi coniunctionem tectorum oppidum vel urbem appellaverunt, delubris distinctam spatiisque communibus. Omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est ut diuturna sit.Id autem consilium primum semper ad eam causam referendum est quae causa genuit civitatem. | (Scipione): "tutte le cose eccellenti hanno un qualche fondamento naturale tanto che né le virtù né la società riposano su d'una semplice convenzione. E quelle società, formatesi per il motivo di cui ho già parlato, si scelsero dapprima una sede in un luogo fisso per il loro domicilio ; e dopo aver fortificato questa sede con la natura del luogo e le loro mani, chiamarono castello o città un' unione di tal genere di case. Ogni popolo dunque, che è quella particolare riunione di gente che vi ho esposto, ogni Stato, che è la costituzione politica d'un popolo, ogni Repubblica, che com'ho detto, é cosa comune del popolo, devono esser retti da con una certa sapienza, affinchè si mantengano duraturi. E questa sapienza reggitrice deve essere riferita, innanzi tutto, alla causa che ha generato la convivenza civile. |
Quintus:Magnum dicis malum. Nam ista potestate nata gravitas optimatium cecidit, convaluitque vis multitudinis.Marcus:Non est Quinte ita. Non ius enim illud solum superbius populo, <sed> et violentius videri necesse erat. Quo posteaquam modica et sapiens temperatio accessit […] | Quinto:Tu parli di un grande male; infatti con la nascita di questo potere, il prestigio degli ottimati decadde e si rafforzò la violenza della folla.Marco:Non è così, Quinto. Infatti non solo quella potestà consolare doveva sembrare al popolo troppo superba, ma anche prepotente. Ma quando si fece strada un moderato e saggio temperamento [...] la legge deve essere eguale per tutti. |
Sed quoniam de extis et de fulgoribus satis est disputatum, ostenta restant, ut tota haruspicina sit pertractata. Mulae partus prolatus est a te. Res mirabilis, propterea quia non saepe fit; sed si fieri non potuisset, facta non esset. Atque hoc contra omnia ostenta valeat: numquam, quod fieri non potuerit, esse factum; sin potuerit, non esse mirandum. Causarum enim ignoratio in re nova mirationem facit; eadem ignoratio si in rebus usitatis est, non miramur.Nam qui mulam peperisse miratur, is quo modo equa pariat, aut omnino quae natura partum animantis faciat, ignorat. Sed quod crebro videt non miratur, etiamsi cur fiat nescit; quod ante non vidit, id si evenit ostentum esse censet. Utrum igitur cum concepit mula an cum peperit, ostentum est? Conceptio contra naturam fortasse, sed partus prope necessarius. | Ma poiché abbiamo discusso a sufficienza quanto alle viscere e ai lampi, per portare a termine la trattazione di tutta l'aruspicìna rimangono i prodigi. Hai rammentato il parto di una mula. È un fatto straordinario, perché non accade spesso; ma se non fosse potuto accadere, non sarebbe accaduto. E questo argomento valga contro tutti i prodigi: ciò che non sarebbe potuto accadere non è mai accaduto; se invece è potuto accadere, non c'è motivo di stupirsi. L'ignoranza delle cause produce meraviglia dinanzi a un fatto nuovo; se la medesima ignoranza riguarda fatti consueti, non ci meravigliamo. Colui che si meraviglia che una mula abbia partorito, ignora egualmente in che modo partorisca una cavalla e, in generale, quale processo naturale produca il parto di qualsiasi essere vivente. Ma siccome vede che questi fatti avvengono di frequente, non si meraviglia, pur non sapendone il perché; se invece avviene una cosa che egli non ha ancora visto, ritiene che sia un prodigio. Il prodigio si è dunque verificato quando la mula ha concepito, o quando ha partorito? Il concepimento potrebb'essere contro natura, forse; ma il parto è pressoché necessario. |
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