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Un donna di 71 anni è stata uccisa a martellate a Roma da un uomo già fermato dai carabinieri. Il cadavere della vittima, 71 anni, è stato trovato intorno alle 19 nel suo appartamento di viale Prato Fiorito, zona periferica della Capitale. Secondo una prima ricostruzione dei militari dell’Arma l’uomo, amico dei figli della donna, avrebbe ucciso la 71enne mentre era sotto effetto di droga. Ad allertare le forze dell’ordine sono stati alcuni parenti e amici della vittima che insospettiti da rumori hanno trovato in casa la donna priva di vita. Le indagini sono effettuate dai carabinieri di Tor Bella Monaca. Il femminicidio si sarebbe consumato nel corso di un tentativo di rapina in casa. Il sospetto ha 38 anni e ha precedenti penali.
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Un’intervista lucida, con ogni parola al posto giusto. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, vittima di femminicidio a soli 22 anni, si è aperta in un lungo dialogo con Concita De Gregorio, su La Repubblica. Senza cadere in clichè o in parole di odio la 24enne, criticata e additata per le sue parole forti sul patriarcato, ha parlato della battaglia contro i femminicidi, degli ultimi momenti di vita della sorella, ma anche, più in generale, di giovani e futuro e degli investimenti che l’Italia dovrebbe fare e che invece, purtroppo, non fa. La sera della scomparsa della sorella, Elena Cecchettin si trovava a Vienna, lì infatti studia microbiologia, all’Università. Sapeva, racconta ripercorrendo quella sera, che Giulia doveva uscire con l’ex fidanzato, Filippo Turetta, tanto che le due si scrivono fino alle 22.30. “Poi le ho scritto e lei non ha visualizzato”. “Non mi sono preoccupata – dice – Ho pensato magari le si è scaricato il telefono”. Poi i messaggi del padre sulla chat di famiglia per chiedere a Giulia dove fosse e, ancora, alle otto del mattino quello del fratello che le chiedeva dove fosse la sorella 22enne. “Ero in bagno, sono scoppiata a piangere. Ho capito subito”, racconta nell’intervista. Ciò che è capitato alla sorella è una dinamica che conosce bene: “So come si comporta una persona morbosa di gelosia che ti isola, che non ha amici, che non ama il suo lavoro e ti dice ‘tu sei tutto per me sei la luce’. È un copione sempre identico. Poi certo non tutti i possessivi diventano assassini ma è sempre così che comincia”. I “segnali”, racconta ancora, c’erano: “Era una relazione di controllo e abuso“. Lui iper-presente e possessivo, lei senza spazi neanche per poter uscire con le amiche. “Giulia si è accorta che qualcosa non andava, sapeva che io avevo ragione ma come fai a immaginare che la persona con cui stai possa farti del male, non lo vuoi credere possibile”. Lui, racconta ancora la 24enne, “la ricattava a livello emotivo, le diceva ‘se mi lasci ti ammazzo, non ho nessun altro che te'”. Una relazione che, come più volte raccontato, era poi finita per volontà di Giulia a luglio di quest’anno. Giulia, però, “era una persona buona” e “aveva davvero paura che lui si facesse male”. Come già detto nei momenti più difficili, quando la morte della sorella era ancora fresca e la parola patriarcato quasi un tabù, nell’intervista Elena Cecchettin torna a riflettere su quello che oggi, la società, considera “normale”. “Misoginia e sessismo sono autorizzati dalla società, profondamente patriarcale. Si possono fare centinaia di esempi. Se una ragazza ha avuto molti partner non è considerata allo stesso modo di un ragazzo. Come ti vesti, come ti comporti. Non è uguale il giudizio. Sono pensieri radicati eppure sminuiti, banalizzati perché appaiono, appunto, normali”, spiega, evidenziando che spesso, troppo spesso, si “normalizzano atteggiamenti che sembrano lievi” e che, poi, peggiorano. “Bisogna iniziare a puntare il dito sulle cose piccole. Lo svalutare le donne, per esempio”. La soluzione? Investire nell’educazione “a partire dalla primissima infanzia”. “Se lo Stato non investe in questo ha fallito il suo compito – dice ancora – ed è complice“. Un’educazione che sì deve partire dalla scuola, secondo la 24enne, ma non solo. Anche gli adulti, dice alla giornalista di Repubblica, vanno educati. “Servono campagne di sensibilizzazione, spot in tv che parlino ai più anziani. La violenza di genere deve diventare un tabù, socialmente inammissibile”. Un po’ come accadde, spiega facendo un esempio, con la lotta ai tumori. “Mia nonna ha 75 anni e grazie alle campagne degli ultimi anni sa che deve farsi regolarmente mammografie. Quando aveva vent’anni come ne ho io adesso questo non succedeva”. La speranza è che la “fiamma” innescata dal brutale femminicidio di Giulia Cecchettin, non si spenga. Tutto il sistema, ne è convinta Elena, “è storto”. E tutto, rivendica, parte dal problema del patriarcato. La parola, forte e forse poco capita prima di questo terribile episodio di cronaca (ma viene da pensare anche dopo), viene ripetuta più volte nell’intervista. Nonostante gli attacchi subìti per i suoi ragionamenti, la 24enne non smette di pronunciarla. D’altronde, spiega parlando con Concita De Gregorio, “gli odiatori non mi spaventano”: “Si muovono per screditare diffondendo menzogne, contano sull’ignoranza diffusa e ad arte coltivata. Non vale la pena rispondere, sarebbe dar loro credito”. Ma la battaglia non è solo per Giulia: “Non mi sottraggo al compito che oggi mi tocca ma non voglio nemmeno che la mia vita diventi una funzione di quel che è successo a mia sorella. E neppure vorrei che mia sorella fosse ricordata solo in relazione al suo assassino: è morta perché voleva essere indipendente, per la sua libertà“. Del fratello minore, appena 17enne e della madre, morta nel 2022, Elena Cecchettin non sembra parlare volentieri. “Quando è morta mamma ho sentito tanta pressione addosso, un grande senso di responsabilità. Mi è capitato di avere attacchi di panico mentre studiavo. Ora che è morta anche Giulia, si immagini. Ho crisi di ansia quando si parla di coltelli. Vorrei essere così brava da dire che studio per migliorare il futuro dell’umanità, per risarcire i lutti e provare a evitarne altri ma no. In fin dei conti sto solo cercando di fare del mio meglio”. Per la 24enne, che ora fa ricerca a Vienna, sarebbe un sogno tornare a fare ricerca in Italia. Ma qui, denuncia, “è così mal pagata, pochissimo riconosciuta” che non sa se tornerà. Ama l’Italia ma, dice, se dovesse immaginare un’offerta che le permetta l’autonomia, la immagina all’estero. Per questo “è un errore politico che il governo non finanzi la ricerca, che lasci andare le persone più giovani e preparate per incapacità di dar loro la giusta posizione, retribuzione. È gravissimo e non intendo accettarlo”. Spesso le sue parole sono state politicizzate, ma la politica, dice ancora, non è il solo interesse a cui vuole dedicarsi. Ci sono “anche gli studi, l’arte, le cose che mi fanno essere quella che sono”. E anche l’etichetta di “testimonial” del lutto non la sente propria, così come non vorrebbe che la sorella, Giulia, fosse ricordata “solo come la vittima del suo assassino”. “Aveva imboccato la strada della felicità. Vorrei che fosse questo, semmai, il suo lascito. Andiamo verso la felicità”. Nelle ultime parole dell’intervista rilasciata da Elena Cecchettin, c’è tutto l’amore per la sorella (“sarei morta per difenderla”) ma anche la piena consapevolezza di un problema che certamente non è solo educativo, ma anche educativo. “Quando sento dire non so chi sia mio figlio rispondo: parlaci – conclude parlando dei genitori di Turetta – Se non comunichi, in famiglia, anche a costo di rischiare di sapere quel che non vorresti, certo che non conosci chi ti vive accanto. Io avevo ben presente che persona era Turetta e lo avevo incontrato poche volte. Se parli con qualcuno lo capisci. Parlate, parlatevi tutti“.
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La preside del liceo classico Loredana Di Cuonzo ritiene possa trattarsi di un concetto generalizzato, ma avviato comunque alcune verifiche Sta generando clamore l'intervento di una studentessa di un liceo classico di Lecce che sabato mattina, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nel corso di una manifestazione svoltasi nell'atrio della scuola davanti ad una platea di alunni, ha detto che anche nella sua scuola ci sono stupratori che circolano nei corridoi e che sono tra quelli che poi organizzano le manifestazioni dalle scarpette rosse. Proprio la scuola questa mattina ha esposto una installazione sul cancello d'ingresso composta da 214 scarpe che avrebbero potuto indossare le 107 vittime di femminicidio del 2023. Il video dell'intervento, trasmesso in diretta su Youtube, è finito nelle chat dei genitori degli studenti che si sono subito allarmati. «Non ero presente perché occupata in quel momento con degli ospiti in presidenza - afferma la preside dell'istituto Loredana Di Cuonzo -, ma mi sento di dire che possa essersi trattato di un concetto più generalizzato. Tuttavia se al termine delle verifiche le evidenze saranno altre e le parole espresse più dirette ed esplicite dovrò procedere con una denuncia formale.
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“La fragilità dei ragazzi è un aspetto ancora troppo trascurato. L’immaturità affettiva e relazionale, l’incapacità di gestire le frustrazioni, la crisi di identità degli adulti: tutti elementi, collegati, che li portano a vivere concentrati su sé stessi. Non imparano che l’amore non si può imporre, e non sanno gestire la rabbia”. Emi Bondi, presidentessa della Società italiana di psichiatria, premette: “Non possiamo entrare nello specifico dell’omicidio di Giulia Cecchettin, perché non conosciamo direttamente il caso e vi sono indagini specifiche in corso”.
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L’attrice in cattedra Paola Cortellesi e le fiabe sessiste: “Se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe accoltellata?” Nel suo lungo discorso alla Luiss l’attrice, che ha sbancato i botteghini con il film “C’è ancora domani”, esorta gli studenti: « Correte il rischio di sembrare strani o pazzi, se questo significherà scegliere. Siate straordinari, concedetevi il dubbio, che è la vostra libertà» Eleonora Camilli
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Si è parlato di prevenzione dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, se ne parla dopo ogni femminicidio, se ne parla da anni. I femminicidi non caleranno nell’immediatezza e continueranno con i numeri attuali, fino a quando sarà fatta una rivoluzione culturale e si sarà investito in politiche sociali. Così come il precariato e l’assenza di garanzia di diritti e i bassi salari non facilitano le donne nell’uscita dalla violenza. Gli interventi a sostegno delle vittime di violenza possono essere efficaci in un contesto sociale che grazie a programmi politici, favorisca la cura di situazioni di disagio e la possibilità di progettare un futuro ma i governi che si alterano non vedono oltre gli spot elettorali per la conservazione del consenso popolare. L’attuale governo ha scelto, come gli altri che lo hanno preceduto, di occuparsi solo della punizione degli autori di violenza e della protezione delle vittime che si rivolgono all’autorità ma poco di prevenzione. Ovvero ha puntato ancora sulla risposta securitaria. Il 22 novembre in Senato è stato approvato all’unanimità con 157 voti favorevoli, il disegno di legge della ministra Roccella con nuove norme di contrasto sulla violenza contro le donne. Il testo ora è legge. Diciannove articoli in cui si rafforzano le misure di protezione per le donne che denunciano violenze. Si apportano indubbiamente dei miglioramenti del quadro normativo esistente ma è fuorviante presentare queste norme come azione di prevenzione. “Ci sono correttivi importanti – ha detto Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente D.i.Re – il coordinamento tra l’autorità giudiziaria e le forze di polizia quando cessa la misura cautelare, per esempio, o la criminalizzazione dell’ordine di protezione emesso in sede civile, o la maggior disponibilità del braccialetto elettronico e l’introduzione di una valutazione nei percorsi rivolti agli autori di violenza”. Restano le criticità che le avvocate D.i.Re avevano esposto durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera: come l’eccessivo ricorso all’ammonimento che in determinate condizioni, se la vittima non è messa in protezione e non viene fatta una valutazione del rischio, possono essere controproducenti perché la espongono a ritorsioni da parte dell’autore di violenza. Biaggioni ha espresso anche dubbi di illegittimità costituzionale sul celebrato arresto in flagranza differito e non solo: “Ci chiediamo quanto è utilizzato l’altrettanto celebrato ordine di allontanamento di urgenza? Lo stesso arresto in flagranza quante volte ricorre? Per nostra esperienza ben poche volte”. E’ vero che sono previste linee guida per la formazione delle forze dell’ordine e di altri operatori che possono entrare in contatto con le vittime di violenza ma la legge è ad invariata finanziaria. Come sarà possibile svolgere in maniera capillare corsi di formazione adeguati senza che sia previsto un finanziamento? Nel 2022 D.i.Re ha presentato la ricerca su “La vittimizzazione istituzionale” rilevando che, nel 60% dei casi, le forze dell’ordine erano state estremamente vittimizzanti: minimizzazione, scarsa attenzione ai bisogni delle donne, colpevolizzazione e non riconoscimento della violenza suscitano malessere e sfiducia. Le numerose proteste che si sono levate sul profilo Instagram della Polizia di Stato il 22 novembre dopo la pubblicazione di un post che citava una frase della poesia di Cristina Torres Caceres, sono indicativi di un malessere e di una scarsa fiducia nelle forze dell’ordine. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Polizia di Stato – Italy (@poliziadistato_officialpage) Senza finanziamenti, la formazione resterà un promessa non mantenuta. L’ennesima dichiarazione di intenti. @nadiesdaa
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Egidio Bandini Per cominciare, forse, occorrerebbe dire che l'allarme riguarda l'intera Emilia-Romagna dove, a fare notizia, sono le statistiche pubblicate dal coordinamento dei Centri Antiviolenza sul numero dei femminicidi in regione: undici nello scorso anno 2016, quasi il doppio dei sei registrati l'anno prima. Certo è, però, che la povera Gessica Notaro, 28 anni, addestratrice e speaker all'Acquario di Rimini, sfregiata con l'acido e ricoverata in gravi condizioni al Centro Grandi Ustionati dell'ospedale Bufalini di Cesena, dove i medici stanno lottando per impedire che la ragazza perda la vista, fa tornare alla mente i troppi episodi di violenza e di crudeltà senza motivo che, purtroppo, hanno segnato la cronaca degli ultimi anni, a partire da quello di Lucia Annibali, l'avvocato pesarese, anch'ella sfregiata con l'acido da due sicari albanesi, Altistin Precetaj e Rubin Talaban, assoldati dall'ex compagno della donna, Luca Varani, lui pure avvocato, iscritto al Foro di Rimini e oggi in carcere dopo una condanna a 20 anni di reclusione, mentre Lucia, grazie al coraggio e alla determinazione dimostrata, non solo è diventata il simbolo stesso del riscatto da violenze tanto vili quanto efferate, ma ha addirittura ispirato una fiction televisiva, dedicata proprio alla sua vita dopo lo sfregio a dimostrazione che non basta cancellare con la violenza la bellezza esteriore ad annichilire la speranza e la voglie di vivere. Purtroppo, però, è successo di nuovo e Gessica, ex Miss Romagna 2007 e concorrente a Miss Italia, è stata vittima di un'altra aggressione con l'acido, proprio davanti a casa ad opera, a quanto sembra, dell'ex fidanzato Edson Tavares, originario di Capo Verde, che era già finito nei guai lo scorso agosto, causa maltrattamenti e violenze nei confronti della ragazza, rimediando l'apertura di un fascicolo e un provvedimento di ammonimento da parte del questore di Rimini Maurizio Improta. La Polizia, con il concorso dei Carabinieri, ha fermato il ventinovenne che, però, avrebbe affermato di avere un alibi per l'ora dell'aggressione, la sera di martedì 10 gennaio. Anche in questo caso, però, torna alla mente il caso di Lucia Annibali, che venne aggredita e sfregiata da due sicari, assoldati proprio dall'ex. Intanto dall'ospedale Bufalini, l'equipe guidata dal dottor Davide Melandri, sembrerebbe essere cautamente ottimista, per il recupero della vista da parte della giovane Gessica Notaro che, comunque, causa le colature dell'acido, ha subito lesioni ad un'anca e a una gamba.
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È stato arrestato in Gran Bretagna Michael Whitbread, il compagno di Michele Faiers, la 66enne uccisa ieri nella sua abitazione di Casoli, in provincia di Chieti. A darne notizia la polizia britannica, che spiega di aver arrestato ieri sera a Shepshed il 74enne cittadino britannico, attualmente in custodia con l'accusa di omicidio. Gli investigatori dell'Unità Operativa Speciale delle East Midlands (EMSOU) sono in contatto sia con la polizia italiana che con l'Ufficio Esteri, Commonwealth e Sviluppo in merito alla morte della signora Faiers, 66 anni, si legge in un comunicato. L'ispettore David Greenhalgh, dell'Emsou, ha dichiarato: «Stiamo continuando a lavorare con le autorità sia nel Regno Unito che in Italia riguardo a questo incidente. La famiglia della signora Faiers in questo momento ha chiesto rispetto della privacy e chiedo che questa venga rispettata». Come ricostruito dai media britannici Michael Whitbread, 74 anni, «è un consulente informatico in pensione originario di Torquay. L'uomo si era allontanato da Casoli con la Jeep Compass bianca, prima di poter essere interrogato sul delitto. La compagna, madre di due figli, era stata trovata sul pavimento accanto al letto, vestita in biancheria intima e coperta da un lenzuolo bianco con solo i piedi che spuntavano fuori», riferisce una fonte investigativa. «Gli investigatori - secondo i media inglesi - non hanno ancora trovato l'arma del delitto ma stanno aspettando l'autopsia per confermare cosa è stato usato per pugnalare Michele».
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Ilenia Fabbri di 46 anni è stata trovata morta, stamattina, con un profondo taglio alla gola in una casa in via Corbara, a Faenza, Ravenna. A lanciare l’allarme è stata intorno alle 6 di mattina un’amica della figlia della donna, che si trovava ospite nell’appartamento e che ha chiamato l’amica dopo aver sentito dei rumori che l’aveva spinta a rifugiarsi in camera. I poliziotti sono allora intervenuti, ipotizzando un possibile furto: ma al loro arrivo, hanno trovato la porta del garage aperta e, poco più avanti, in un vano usato come cucina, hanno trovato la 46enne in una pozza di sangue. Sul posto, oltre alla squadra Mobile, gli agenti del locale Commissariato e della polizia Scientifica, sono arrivati anche il pm di turno Angela Scorza e il procuratore capo facente funzioni di Ravenna, Daniele Barberini. Si indaga per omicidio. Secondo quanto si apprende, al momento del delitto, l’ex marito della vittima si trovava in viaggio assieme alla loro figlia: i due erano partiti dopo le 5 quando la donna era ancora viva. Tra le ipotesi al vaglio c’è anche la possibilità che la donna sia stata uccisa in seguito a un tentativo di rapina. Tra le persone informate sui fatti che verranno ascoltate dagli inquirenti, ci sono la figlia, il marito da cui si era separata, l’attuale compagno, l’amica della figlia, che ha lanciato l’allarme e alcuni tra vicini di casa e amici. L’arma con cui sarebbe stata uccisa è uno strumento da taglio, presumibilmente un coltello: gli inquirenti ne hanno già sequestrato uno per capire se possa trattarsi di quello effettivamente usato per l’omicidio. Nel frattempo altri rilievi verranno compiuti sul cellulare della vittima, già acquisito dalla Scientifica. Per quanto riguarda l’analisi delle immagini di eventuali telecamere di videosorveglianza, a una prima ricognizione il quartiere sembra esserne sprovvisto.
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Femminicidio di Martina Scialdone, parla Carlotta Vagnoli: "Basta colpevolizzare le donne, l'unico colpevole è l'uomo che uccide" di Viola Giannoli Carlotta Vagnoli (copyright Pietro Baroni) L'attivista e autrice dopo l'appello su Repubblica della magistrata Maria Monteleone: "Non serve dire a noi di stare attente. Né insinuare che una vittima se la sia cercata: la sola strada è cambiare la cultura e scardinare la violenza"
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BASSANO DEL GRAPPA - Trovata morta dentro il camper in cui viveva, con una ferita alla fronte, segno di un colpo violento, forse inferto con un oggetto contundente. Potrebbe essere un femminicidio la fine di Giulia Rigon, 31 anni, vicentina originaria dell'Altopiano di Asiago, scoperta cadavere stamane nel vecchio camper Fiat Arcà di colore bianco dove passava le giornate assieme al compagno, un 28enne di origine brasiliana. E' stato lui a dare l'allarme, stamane, chiamando il 118 e sostenendo che la compagna era caduta. Ma le lesioni, dopo i primi riscontri medici, sembrerebbero non compatibili con l'esito di una caduta; piuttosto con un colpo sferrato con qualcosa alla testa della vittima. L'indagine è aperta per l'ipotesi omicidio. L'uomo è stato portato in caserma, e per lunghe ore è stato sentito, prima dai Carabinieri e poi dal pm Serena Chimichi, dopo aver effettuato un sopralluogo nell'area del delitto. L'uomo, però, si dichiara innocente, e continua a ripetere che la morte di Giulia è stata dovuta alla caduta. La scena del delitto è un'area di sosta per automezzi in via Capitelvecchio a Bassano. Alle spalle dello spiazzo, alcuni capannoni e qualche casa. Nel parcheggio, oltre al mezzo della coppia, sostano spesso altri camper, lasciati lì dai proprietari in attesa della bella stagione. Ma per Giulia e il suo compagno, entrambi senza fissa dimora, quel camper era la 'casà dove trovare riparo dal freddo dell'inverno. Secondo una prima ricostruzione, la coppia aveva trascorso anche quest'ultima notte nel camper. Sul posto, subito dopo l'allerta, sono arrivati i Carabinieri di Bassano, con la Scientifica, e il medico legale. Poi è giunto il magistrato che dovrà far luce su un fatto di sangue che, questa volta, potrebbe essere iscritto anche in una storia emarginazione e di disagio sociale. E se il Veneto entra a pieno titolo nel 2021 nella tragica conta lista dei femminicidi, la provincia di Vicenza è stata quella con i numeri più alti. Da settembre, infatti, questo potrebbe essere il terzo femminicidio nel vicentino, dopo quelli della nigerina Rita Amenze, uccisa dal marito a colpi di pistola il 10 settembre davanti all'azienda dove lavorava, a Noventa, e la 21enne Alessandra Zorzin, ammazzata con un colpo d'arma da fuoco in volto il 15 settembre, a Montecchio Maggiore dal fidanzato, Marco Turrin, che dopo la fuga si era suicidato.
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Quando lei gli ha negato di avere una relazione con un altro uomo, ha preso un coltello e l’ha aggredita. Un trentaduenne marocchino è stato arrestato per tentato omicidio nel tardo pomeriggio di lunedì 27 novembre nell’appartamento della coppia in via dei Mandorli a Rozzano, comune della prima cerchia dell’hinterland di Milano. La donna è sopravvissuta ai numerosi fendenti che l’hanno colpita a braccia, gambe e al volto. Un’aggressione avvenuta davanti a figlio di quasi quattro anni. È stata la donna a prendere il telefono e digitare il 112 attivando i soccorsi. Prima di essere portata in codice rosso all’ospedale San Carlo, dov’è tuttora ricoverata, è riuscita a parlare con i carabinieri della tenenza di Rozzano. Gli uomini, diretti dal capitato Fabrizio Rosati, hanno raccolto le sue parole in attesa di risentirla quando si ristabilirà. Il marito l’ha accusata di vedersi con un altro uomo e non ha creduto alla versione della donna che ha negato fermamente. A quel punto l’ha picchiata prima di impugnare il coltello e scagliarsi contro di lei. Il trentaduenne è rimasto in casa mentre i sanitari prestavano le prime cure alla vittima. Ha cercato di pulire nel lavandino l’arma, ma poi è stato lui stesso a consegnarla ai militari dell’Arma. Nella concitazione di quei momenti un carabiniere, padre di due figli, si è preso cura del bambino. Il piccolo dopo una visita precauzionale nel reparto di pediatria dell’ospedale San Carlo è stato affidato ai servizi sociali del comune di Rozzano. Per un periodo limitato fino alle dimissioni della madre. Il padre, invece, è stato portato in accordo con il pm di turno Giovanni Polizzi al carcere di San Vittore, in attesa dell’udienza di convalida.
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"Finché alzava le mani su di me potevo anche sopportarlo perché volevo tenere la famiglia unita a tutti i costi, ma ho deciso di denunciarlo quando ha iniziato a picchiare i nostri figli". A parlare è Pinky, una ragazza di origini indiane, vittima di un tentato femminicidio che ha raccontato la sua storia a ilGiornale.it a margine dell'iniziativa La forza delle donne tenutasi oggi alla Camera e moderata dalla deputata forzista Giusy Versace, prima firmataria di una proposta di legge sul contrasto alla violenza sulle donne. "Vivo in in Italia da quando avevo sei anni. Dopo essermi diplomata, i miei genitori hanno combinato un matrimonio con un ragazzo indiano della mia stessa casta che si è trasferito in Italia dopo le nozze", ci racconta Pinky ancora scossa dalla sua vicenda. "Il primo anno è stato molto bello perché entrambi eravamo molto innamorati, ma i problemi sono sorti quando sono restata incinta. Per la tradizione maschilista indiana, infatti, il primogenito deve essere il tanto voluto erede maschio, ma io partorisco una bambina e mi ritrovo tutta la famiglia di lui contro", rivela la ragazza di origini indiane. I parenti di mio marito, dopo aver saputo che era una femmina, iniziano a maltrattarla e la situazione non cambia neppure dopo un anno e mezzo, quando arriva il tanto atteso figlio maschio. "Il rapporto tra me e mio marito non è più come prima. Lui, oltre ad avere seri problemi con l’alcool, inizia a fare uso di sostanze stupefacenti e, nel luglio 2015, per la prima volta, picchia i bambini", ricorda Pinky che, a questo punto, trova la forza di denunciarlo. Ma è in quel momento che avviene quella che sembra una svolta. "I miei zii si riuniscono e, dato che per noi sik il turbante è segno di massimo onore, lui lo getta a terra e mi chiede di perdonarlo e di tornare insieme. Io ritorno e, dopo l’ennesima lite, mi dà fuoco davanti ai figli. A salvarmi sono i miei vicini di casa che dal balcone vedono tutta la scena", dice la ragazza che oggi è divenuta protagonista, suo malgrado, del docu-film “Matrimoni forzati”, presentato quest'anno al Festival di Venezia e divenuto, poi, anche un libro dedicato a Saman Abbas, la ragazza di origini pakistane uccisa a Novellara. "Sono stata in coma per un mese e, al mio risveglio, i miei genitori mi hanno dato pieno supporto ospitandomi in casa nonostante la comunità indiana fosse contro di me. Poi ho conosciuto Jo Squillo, Giusy Versace e Francesca Carollo, rappresentanti dell'associazione Walls of Dolls - il muro delle bambole contro il femminicidio, e da lì la mia vita è totalmente cambiata", dichiara con un notevole sospiro di sollievo.
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ROMA - "Questo governo non ascolta. Il codice rosso e il piano antiviolenza ne sono l'ennesima dimostrazione. Non ascolta le donne, non ascolta chi accoglie e assiste ogni anno 35 mila mogli, compagne, fidanzate in fuga da un incubo. Chi conosce il dramma e chiede più prevenzione, più ascolto. Troppe donne finiscono uccise perché non vengono credute e aiutate in tempo".
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Nel dolore, ma senza stanchezza, sta a noi investire in più protezione, verificare leggi e codici, impegnarci a trovare le parole giuste per raccontare ogni storia come fosse la prima e lottando perché sia l’ultima Illustrazione di Guido Rosa Nel 2011, quando con la nascita della @27ora cominciò la nostra inchiesta collettiva sulla violenza domestica, un signore scrisse al blog dal suo account anonimo: non scalmanatevi, su, non vi agitate, ogni tanto succede che un uomo picchi una donna, a volte fino a ucciderla; è come la grandine, arriva, fa danno, smette, ma prima o poi — lo sappiamo — si abbatterà di nuovo su chi capita, lì sotto, nella mischia dei corpi. P enso sempre, con disperazione, a queste poche righe quando irrompe la notizia di un femminicidio. Uno ogni tre giorni. A quel meteorologo del male — il male più prevedibile, ma salutato come fosse un oscuro destino naturale — ho pensato anche quando abbiamo ricevuto la lettera, firmata, approdata alla posta di Aldo Cazzullo e pubblicata ieri sul Corriere . Scrive l’autrice: «Spero di non diventare l’ennesimo titolo sul giornale». Lo scrive dopo aver raccontato la sua storia nella quale risuonano tantissime storie. Ci parla di un marito che, armato di tecnologie della sorveglianza e minacce da cavernicolo, pretende di esercitare il suo potere attraverso un controllo ossessivo. Accenna alla violenza «sporadica» che diventa fisica, intervallata da promesse di espiazione. Descrive la sensazione di vivere, di sopravvivere, «sotto un manto grigio». Poi la decisione di raccogliere le energie accaparrate come in guerra con l’obiettivo minimo di resistere ancora un giorno, ancora un’ora, per spostarle in blocco verso l’uscita. Andare al pronto soccorso, denunciare. A quel punto l’impatto con lo Stato. La rabbia per gli investigatori che le contestano quel suo essere rimasta vittima, così a lungo, nonostante studi e professione. Il sollievo, invece, per la sollecitudine dei carabinieri. E su tutto un doppio appello. Alle «autorità» perché non bastano numeri verdi e panchine pennellate di rosso. E alle altre donne, che si trovano in situazioni sovrapponibili fino ai dettagli a riprova di quanto esista non un’emergenza ma una deriva strutturale, affinché non attendano il miracolo di una redenzione: perché quegli uomini che agiscono violenza quasi sempre lungo un solco ereditato in famiglia — e mai abbastanza sanzionato socialmente — non cambieranno «se non verranno aiutati a farlo». Questa lettera di una donna italiana parla a tutte e tutti noi. Il coraggio, che ogni riga sprigiona, dimostra che non è un destino, non è natura, non è la grandine, né il vento che fa il suo giro: la violenza contro le donne nasce, cresce ed esplode seguendo il tracciato di asimmetrie che non abbiamo colmato e che vanno a bruciare le relazioni in un cortocircuito trasversale a generazioni, latitudini, condizioni economiche, cultura. Nel dolore, ma senza stanchezza, sta a noi investire in più protezione, verificare leggi e codici, impegnarci — ancora e ancora — a trovare le parole giuste per raccontare ogni storia come fosse la prima e lottando perché sia l’ultima. E sta a noi, educatori di ragazze e ragazzi, trasmettere loro la forza di ri-conoscere la bellezza di mondi rifondati sulla libertà e l’equità, sul rispetto per la vita delle altre.
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L'ordine di un omicidio impartito dal carcere. E' il cuore di una indagine della procura di Benevento delegata alla polizia sannita che, con l'ausilio del Reparto Prevenzione Crimine di Roma, Napoli e Pescara, del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria di Palermo e di personale della Polizia Penitenziaria di Benevento, ha portato a numerose perquisizioni personali, locali ed informatiche, con il sequestro di corpi del reato o cose pertinenti al reato nei confronti di indagati liberi residenti nel Sannio, detenuti presso nella casa circondariale di Benevento e detenuti presso la casa circondariale di Augusta (Sr). Un detenuto ad Augusta, ritenuto il mandante di tentato omicidio pluriaggravato, porto illegale d'arma, tentata estorsione pluriaggravata e rapina pluriaggravata nei confronti della ex compagna è anche destinatario di una misura cautelare. I particolari dell'indagine verranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà presso la Procura di Benevento alle ore 11,30 di oggi.
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Colpite dalla furia omicida. Vittime: due donne. Il tutto nel giro di 24 ore. Questo inizio 2016 sarà ricordato purtroppo anche per il dramma dei femminicidi e della violenza sulle donne. A partire dal caso avvenuto a Pozzuoli, dove lunedì sera è stato fermato e trasferito nel carcere di Cassino Paolo Pietropaolo, il 40enne che […]
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“Mia figlia non meritava questo”. Mamma Iana lo ha gridato a ripetizione dopo avere saputo che Roberta, la sua piccola di 17 anni, era stata trovata morta in burrone. “Sono stato da loro appena appresa la notizia, la mamma gridava, il padre era fermo attonito, sotto shock. Sono stati momenti che non avrei mai voluto vivere, che non avrei mai voluto che loro vivessero: tutto questo non doveva accadere”, Nicasio Di Cola, il sindaco di Caccamo (Palermo), dove è avvenuta la tragedia, parla al termine di una lunghissima giornata. Le troupe che hanno invaso il paesino di poco più di 8mila anime hanno spento i riflettori, e il primo cittadino si concede uno sfogo emotivo: “È stato straziante, mi creda”. Mamma, papà, il primogenito che da poco aveva compiuto 18 anni e la piccola Roberta, nata poco più di un anno dopo, tanto vicina al fratello che quasi sembravano gemelli. Una famiglia travolta dal dolore, ma lo sono un po’ tutti a Caccamo.
Il paesino medievale a 40 minuti da Palermo aveva da poco ricevuto il riconoscimento di “borgo autentico d’Italia”: “Mentre oggi siamo sconvolti, nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile: qui episodi così violenti non sono mai accaduti”, sottolinea Di Cola. Che ci tiene a dirlo: “È successo proprio qui dove grazie alla presidente del consiglio comunale tante, Rosa Maria Di Cola, sono state tante le iniziative per sensibilizzare la popolazione sul femminicidio“. Nella villa comunale del paese, c’è perfino una panchina rossa, in onore delle donne uccise: “Ora c’è il nome di Roberta – continua il sindaco – ma mai avremmo potuto immaginare di doverlo scrivere. Mai.”.
“Addolorati, scioccati”, scuote la testa, invece, Giuseppe Canzone, legale della famiglia della ragazza. Così prova, con un elenco di aggettivi, a restituire l’impatto della tragedia “ma è impossibile. Quel che posso dire – aggiunge – è che i miei assistiti hanno estrema fiducia nel lavoro degli inquirenti”. In stato di fermo con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere, questa è stata la richiesta dei pm, coordinati dal procuratore Ambrogio Cartosio, nei confronti di Pietro Morreale. Kickboxer, come si definisce lui nel profilo Facebook.
Fidanzato con Roberta da un anno e mezzo, spesso infiammato dalla gelosia: le voci sulla sua gelosia si rincorrono. “Ma niente che potesse far pensare a un esito tragico”, esclude il legale dei Siragusa. Quella mattina, domenica 24 gennaio, quando Iana Brancato non vede Roberta nella sua stanza come prima cosa cerca di contattare Pietro, poi anche la madre di Pietro. Poco dopo andrà a sporgere denuncia ai carabinieri di Caccamo perché la figlia minorenne è scomparsa e lei non ha idea di dove sia. Sono ancora le prime luci dell’alba. Pietro invece lo sa, e poco dopo, alle 9 del mattino, si presenterà con il papà e con l’avvocato Giuseppe Di Cesare in caserma. Sa dove si trova Roberta, li porta sul ciglio di un dirupo, sul versante Porto Rotondo del monte San Calogero. Lì, in fondo, c’è il corpo senza vita della diciassettenne siciliana che sognava di diventare una ballerina, che sintetizzava quel che riteneva più importante sul profilo Facebook, proprio sotto al suo nome: “Amati”.
Pietro ha detto dov’era Roberta, ma agli uomini dell’arma non ha saputo spiegare perché era lì, perché morta, perché in parte ustionata, cosa fosse successo: evidenti contraddizioni nella versione fornita. Questo è uno degli elementi che hanno convinto l’accusa a chiedere il fermo. Di fronte al procuratore, invece, il ragazzo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Quel che si sa di quella notte sono solo frammenti. Sabato sera Roberta era andata a casa di amici, forse per il diciottesimo compleanno di un’amica. Erano pochi, 5 o 6, c’era pure Pietro col quale sembra sia andata via. “E non è tornata più”, dice la nonna paterna ai microfoni del Tg3. Qualcosa racconterà ancora il suo corpo oggi. All’Istituto di Medicina legale verrà fatta una tac total body per vedere se ci sono fratture, lesioni interne. Sempre oggi verrà sentito di nuovo Pietro per l’interrogatorio di garanzia. E chissà se dopo aver letto cosa hanno scritto i pm nella richiesta di fermo, sarà il momento di dire qualcosa in più su quella terribile notte.
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Mara Carfagna, deputata di Forza ed ex ministra per le Pari opportunità, ha scritto su Twitter che il governo sta facendo “una bastardata”, riferendosi alla bocciatura in commissione Bilancio di un emendamento alla legge di bilancio, da lei proposto, che prevedeva lo stanziamento di 10 milioni di euro per gli “orfani di femminicidio”. Nel tweet Carfagna ha parlato anche di una serie di emendamenti che invece sono stati approvati, tra cui l’IVA agevolata al 10 per cento per i centri massaggi degli hotel, la riduzione delle accise sulla birra e l’introduzione del “navigator” nei centri per l’impiego, una figura che dovrebbe seguire e aiutare i disoccupati nella ricerca di un lavoro. Quando trovi i soldi per tutto, compresa la detassazione dei massaggi negli hotel, la birra artigianale, l'assunzione dei fantomatici #navigator e non li trovi per le famiglie affidatarie degli orfani di femminicidio fai una bastardata. Punto. — Mara Carfagna (@mara_carfagna) December 5, 2018
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"Ciò che manca ancora nella nostra società è l’indignazione collettiva per la violenza domestica e di genere, che va riconosciuta presto e stigmatizzata". E in questo senso tesi come quella di Davide Stasi, blogger apertamente critico con la legge sullo stalking, che aveva pubblicizzato il suo "Aperitivo con lo stalker" a Genova addirittura con il logo del comune, "non fanno che peggiorare la percezione sociale del problema". Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, arrivata per la prima volta a Genova in occasione del dibattito "L’Italia e il femminicidio" organizzato a palazzo Tursi dal gruppo consiliare Pd, torna sul caso Stasi che pochi giorni fa aveva generato polemiche anche oltre i confini della Liguria. E poi fa il quadro della situazione nazionale - in Italia secondo dati Istat 7 milioni di donne hanno subito forme di violenza nella vita, e 3 milioni da parte di partner o ex partner - spiegando che le leggi sullo stalking e sul femminicidio andrebbero meglio applicate, mentre del recente Codice Rosso andrebbero migliorate le misure di protezione, per evitare i casi di violenza anche sulle donne che hanno già denunciato. Poi la situazione ligure: 7 i centri antiviolenza cui le donne possono rivolgersi, un migliaio l’anno i casi presi in carico solo nei 3 centri genovesi, "e la novità è che arrivano sempre più ragazze giovani - spiega la responsabile del centro Mascherona Manuela Caccioni - Segno che il lavoro culturale nelle scuole funzione e la spirale della violenza si interrompe prima di arrivare al matrimonio". Di Giulia Destefanis
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Cose di cui si è parlato, male o bene, alcune simboliche, altre simboliche e non solo. Cose di cui possiamo essere orgogliose, che ci hanno commosso, fatte arrabbiare o che ci hanno fatto dire: “Finalmente”*. Gennaio Alcuni episodi avvenuti in tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 hanno contribuito a far parlare, anche qui, di una questione spesso messa da parte o comunque non trattata con attenzione: quando il soggetto preso di mira da insulti, minacce e offese su internet è una donna, l’offesa ha immediatamente una declinazione di genere. L’occasione del conflitto politico o d’opinione viene insomma colta per esprimere odio misogino e sessista. Grazie a un video girato a New York e che ha avuto un grandissimo successo si è parlato anche di molestie per la strada e di come ci sia molta difficoltà a riconoscerle come tali. Febbraio Se negli archivi di qualsiasi agenzia internazionale di immagini si cerca, per esempio, “donna idraulico” compaiono foto di giovani donne in biancheria intima con una chiave inglese in mano. Se si cerca “donne e lavoro” appaiono una segretaria sexy seduta alla scrivania e una bionda sorridente davanti a un cesto di frutta. Circolano talmente tante immagini stereotipate sulle donne e talmente tante donne che ridono mangiando un’insalata che un gruppo ha creato il blog satirico “Donne che ridono da sole con insalata” (Women laughing alone with salad). E che Sheryl Sandberg, dirigente Facebook, e Johathan Klein, co-fondatore e ad di Getty – uno dei più grandi archivi di immagini al mondo e uno dei principali fornitori di immagini generiche – hanno collaborato creando una nuova collezione in cui si vedono donne con le rughe e i capelli grigi, ragazze di corporature diverse che fanno sport vestite come tutte noi quando facciamo sport, donne che aprono convegni e donne che aggiustano lavandini. Johathan Klein: «Il modo in cui le persone sono rappresentate visivamente influisce più di ogni altra cosa sul modo in cui vengono percepite». Sheryl Sandberg: «Le immagini che spesso capita di vedere si ispirano a quegli stereotipi che cerchiamo di superare». Jessica Bennett, curatrice della collezione: «Credo che troppo spesso vediamo emergere rappresentazioni stereotipate come la recente copertina della rivista Time su Hillary Clinton per illustrare l’idea delle “donne al potere”. Il fatto che non ci sia altra opzione che quella di usare un’immagine, così anni Ottanta, di una gigantesca gamba in pantalone che schiaccia un minuscolo uomo per illustrare una storia su una donna in corsa per la presidenza ci mostra quanto disperatamente abbiamo bisogno di cambiare la narrazione visiva che circonda le donne e il potere». La popolarità che ha avuto questa collezione di Getty in tutto il mondo dimostra che c’è un gran bisogno di rappresentazioni più realistiche. Marzo È iniziato il processo a Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano accusato di aver ucciso la sua fidanzata, Reeva Steenkamp. I siti e i giornali di mezzo mondo hanno cominciato a riproporre foto e gallery della “bella e sexy Reeva” e di lui sofferente con il cappuccio in testa. Volontario o accidentale, in molte e molti hanno ricordato che l’assassino è comunque lui e che i media devono ancora imparare a trattare come si dovrebbe la questione della violenza di genere e del femminicidio. Aprile Un nuovo pezzo della legge 40 del 2004 è stato abolito. In aprile, la Corte Costituzionale ha deciso che il divieto di fecondazione eterologa (che impedisce di ricorrere a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta) è incostituzionale. Lo stesso meseThe Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche del mondo, ha pubblicato i risultati di un’operazione mai realizzata prima: quattro impianti di vagina sono stati coltivati in laboratorio e impiantati a quattro pazienti affette da una rara malattia: ora potranno fare sesso e rimanere incinte. Maggio Il 23 maggio Elliot Rodger è uscito di casa e ha ucciso in una sparatoria sei persone vicino all’Università di Santa Barbara, California; ne ha ferite altre tredici; si è ucciso. Non prima di lasciarsi alle spalle un vero e proprio manifesto di più di cento pagine sull’odio contro le donne (sono «animali viziosi, stupidi, crudeli», sono «senza cuore», sono «una piaga, il male e la depravazione», «non dovrebbero avere alcun diritto in una società civilizzata», «distruggerò tutte le donne e farò la guerra contro tutti gli uomini da cui sono attratte», «se non posso averle io non potrà averle nessuno», e così via). A partire da questa storia l’hashtag #YesAllWomen ha raggiunto quasi 2 milioni di tweet in meno di quattro giorni. Non tutte le donne che hanno partecipato hanno subito stupri o violenze, ma è stata una grande occasione di parlare apertamente di molte ingiustizie o minacce con le quali le donne si confrontano quotidianamente. #YesAllWomen ha saputo guardare a quel fatto (e a molti altri di quello stesso tipo) attraverso la lente del genere, cosa che invece per diversi giornali o media non è stata né chiara né immediata («Ha ucciso quattro uomini e due donne: il doppio dei maschi rispetto alle femmine. Questa sarebbe misoginia?». Si, lo è). Giugno Facebook ha modificato la sua politica sulla pubblicazione di immagini che ritraggono donne mentre allattano al seno i cui capezzoli sono visibili. Sotto la domanda: “Facebook che consente la pubblicazione di foto di madri che allattano al seno”, ora c’è scritto: “Sì, riconosciamo la bellezza e la naturalezza dell’allattamento al seno. Siamo felici di sapere che è importante per le madri condividere questo tipo di esperienze con gli altri su Facebook”. La decisione è stata presa dopo diverse campagne contro la censura: il movimento che ha contribuito maggiormente è #FreeTheNipple della blogger Soraya Chemaly, attivista femminista (una donna che allatta non è un oggetto sessuale). Un certo analfabetismo femminista si è invece manifestato nell’entusiasmo di molte e molti alla notizia che Facebook e Apple hanno avviato dei programmi per farsi carico dei costi del congelamento e del mantenimento degli ovuli delle loro impiegate. Penso che consegnare docilmente la propria potenza riproduttiva al datore di lavoro non sia una buona notizia, né un progresso né un guadagno di libertà (lo sarebbe avere un figlio quando lo si desidera senza dover essere penalizzate al lavoro). La giornalista Marina Terragni ha parlato di una specie di “dimissioni in bianco” «ma più moderne, tecnologiche e women friendly. Insomma: non ti caccio se fai un figlio, ma ti pago per non farne». Luglio Emma Watson – che ha 24 anni, che è considerata una brava attrice e che si definisce una femminista – è diventata la nuova ambasciatrice dell’UN Women delle Nazioni Unite e ha tenuto un discorso sui diritti delle donne a New York molto bello e condivisibile. Agosto Quest’anno, per la prima volta nella storia, una medaglia Fields è stata vinta da una donna: Maryam Mirzakhani ha 37 anni e insegna a Stanford, un’università privata della California considerata fra le migliori al mondo. Le “medaglie Fields” sono un premio che si assegna ogni quattro anni dal 1936 ai migliori matematici che hanno meno di 40 anni. La sua importanza è comparabile a quella del premio Nobel, che non viene assegnato per la matematica. Estela Carlotto, presidente e storica attivista delle Abuelas de Plaza de Mayo – movimento civile di donne argentine che si occupa di rintracciare i bambini sottratti alle loro madri durante la dittatura militare – ha ritrovato suo nipote, che ora ha 36 anni. Stella Ameyo Adadevoh ha identificato il primo caso di ebola in Nigeria opponendosi a chi le faceva pressione per dimettere l’uomo sospettato di aver contratto il virus e contribuendo a contenere la diffusione dell’epidemia nel suo paese: è stata a sua volta contagiata ed è morta, celebrata in Nigeria (e non solo) come un’eroina. Settembre Soprattutto grazie alle associazioni a favore della libertà delle donne e ai movimenti femministi che hanno organizzato mobilitazioni sia in Spagna che in altri paesi d’ (su Twitter erano stati lanciati gli hashtag #MiBomboEsMio e #YoDecido), il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha ritirato il progetto di legge per riformare (in senso restrittivo) le norme in materia di aborto. La proposta di legge avrebbe reso l’aborto non più un diritto, ma un reato depenalizzato in due sole circostanze (riprendeva in sostanza la legge approvata nel 1985 e in vigore fino al 2010, quando era stata modificata dal governo socialista di Zapatero). Ottobre Malala Yousafzay, giovane donna pakistana colpita alla testa da un colpo di pistola sparato dai talebani il 9 ottobre del 2012, era ad una lezione di chimica quando le è stato comunicato che aveva vinto il Nobel per la pace. A Göteborg, in Svezia, una donna di 36 anni che aveva subito un trapianto di utero nel 2013 ed era stata sottoposta alla fecondazione in vitro all’inizio del 2014, ha partorito un bambino. Novembre Il ministro degli Interni del Regno Unito, Theresa May, ha rifiutato il visto e quindi l’ingresso nel paese a Julien Blanc, un venticinquenne americano conosciuto come “pick-up artist”, cioè “artista del rimorchio”. Blanc lavora per una società di Los Angeles (Real Social Dynamics) che organizza dei corsi per insegnare agli uomini come sedurre le donne. Blanc avrebbe dovuto tenere un corso nel Regno Unito a febbraio, ma più di 150mila persone (soprattutto donne) hanno firmato una petizione per non farlo entrare accusandolo di insegnare comportamenti che equivalevano a vere e proprie molestie, di usare un linguaggio sessista e misogino e di produrre nelle sue performance una vera e propria «apologia dello stupro». A Julien Blanc era stato revocato un visto anche in Australia e le proteste contro i suoi corsi si sono allargate: in Canada, per esempio, dove Blanc dovrebbe tenere dei corsi il prossimo anno, è nato l’hashtag #KeepJulienBlancOutOfCanada (“teniamo Julien Blanc fuori dal Canada”) e il ministro degli Interni canadese, Chris Alexander, ha scritto su Twitter che comprende la preoccupazione dei cittadini facendo intendere che probabilmente negherà anche lui il visto a Blanc. Quello che conta, in questa storia (al di là del fatto di condividere o no la negazione del visto), è la presa di posizione politica e collettiva contro la violenza di genere. Il magazine Time ha pubblicato un sondaggio che chiedeva ai lettori di votare la parola più brutta del 2015, perché superata o abusata. Insieme a vari neologismi della lingua inglese come influencer, yaaasssss, literally, bae, om nom nom nom è stata inserita anche la parola “femminista” che è risultata anche quella più votata. La direttrice Nancy Gibbs si è scusata pubblicamente. Sarà bene ricordare che “femminista” non è uno slogan. Dicembre Il Sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra ha approvato definitivamente una norma (ratificata dal Parlamento inglese e poi dalla regina Elisabetta, capo della chiesa anglicana) che consente alle donne di essere ordinate vescovo: lo scorso 17 dicembre è stata annunciata la prima nomina, si tratta della reverendo Libby Lane. Accuse contro Cosby circolavano da anni: i media hanno cominciato a preoccuparsene e molte donne a prendere parola. Da tutta questa storia è nato un dibattito molto interessante sul perché sia così difficile credere a una donna che denuncia una violenza sessuale (qui, qui e qui, qualche articolo che vale la pena leggere). * sì, uso il plurale femminile perché le cose che racconto le ho condivise, soprattutto, con le mie compagne di viaggio (accanto a me, qui, o su internet). E tanti auguri a tutte e tutti.
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Alessandra racconta le violenze subite, video dopo video. L’attivista e studentessa barese 25enne ci mette la faccia, si espone sui social e, all’indomani dell’omicidio di Giulia Cecchettin, ricorda quello che ha passato: un episodio quando aveva 14 anni, in gita scolastica, un altro in campeggio, un altro ancora quando era fidanzata. Ma soprattutto sensibilizza.
E tiene subito a precisare: “Questa lettera è un invito, un appello a tutte le donne a non sentirsi sole. Vorrei spingere alla riflessione tutti gli uomini, perché non c’è bisogno di arrivare a uno stupro o a un femminicidio: bisogna avviare un percorso di autocoscienza per comprendere come le proprie azioni influiscano sugli altri. Per Giulia e per tutte le vittime di femminicidio e violenza di genere, dobbiamo rivoluzionare questo mondo marcio e far fiorire rose”.
“Questa è la mia storia, la storia di una donna, la storia di tutte”. La lettera di Alessandra Desiderato inizia così. “Era l’inverno del 2014. Ero in gita con il mio liceo, avevo vinto il trofeo della gara di sci ed ero arrivata terza. Ero strafelice, adoravo sciare. Quella notte avevo festeggiato con tutti i più grandi del liceo. Avevamo bevuto alcol dai trofei e dormito tutti nella stessa stanza. Ricordo di aver bevuto e brindato e poi blackout. Non ricordo più nulla. Il giorno dopo mi ero svegliata con le calze strappate e del sangue sulle mutandine. Me ne sono andata dalla stanza confusa, irrigidita, impaurita. Andai in bagno. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, avevo solo un mal di testa fortissimo, qualche livido e i pensieri che non riuscivano a fermarsi. Avevo dimenticato la macchina fotografica in quella stanza. Ritornai lì. I ragazzi ridevano perché il letto era macchiato di sangue, mi deridevano, un ragazzo diceva che era “normale”, era il ciclo, e mi aveva passato poi la macchina fotografica. Non risposi a nulla e scappai via sentendomi umiliata. Su Facebook chiesi a un ragazzo della gita se avesse fatto qualcosa, mi rispose dicendo che ero orrenda e che non sarebbe mai successo nulla con me”.
Alessandra allora iniziò a dubitare dei suoi ricordi e di se stessa. “Ne parlai con le mie amiche più strette di scuola, loro non seppero che dirmi, anzi, erano po' gelose e dubitavano delle mie parole. Quando chiesi a un loro amico, presente quella sera, in quella stanza, se avesse visto qualcosa, lui mi disse ‘ho sentito ansimare mentre dormivo, ma non so, non ho visto niente’. Nessuno aveva visto niente. Nessuno mi credeva. Basta forse era meglio non pensarci, dimenticare. Grazie a te, che magari ascolti questo video, ho vissuto male la sessualità per tutta la mia adolescenza e oltre”.
L’attivista “non ha mai voluto essere vittimizzata”, e ha sempre avuto paura della reazione dei propri cari e di essere guardata in maniera diversa. “Non sono mai riuscita a riconoscere la violenza al momento giusto per la legge e negli anni mi sono trovata più volte ad avere rapporti sessuali senza che ci fosse il mio consenso”. E racconta un altro episodio.
“Ero al campeggio. Ogni anno c’era un rito che adesso non esiste più perché ritenuto problematico: il pilotti. Una sola notte ogni anno si ci metteva tutti in cerchio attorno a un fuoco e si beveva, tanto. Era divertente, i più grandi ti sparavano il gin tonic in bocca con le pistole d’acqua e si guardava lo show, un po’ particolare. I partecipanti dovevano iscriversi mettendo il proprio nome in una scatola, ma ciò non vuol dire che erano realmente consapevoli di ciò che stava per accadere o che davano il loro consenso per ogni cosa. La prima persona veniva presa, bendata, stesa per terra e trattenuta ferma. La seconda subentrava e doveva leccare la panna dal corpo dell'altro. In tanti anni non avevo mai giocato, ma non partecipando eri un po' l’escluso”.
Così decise di provare. “Quella sera quando mi stesi al centro del cerchio, bendata, volevo morire, più che altro non perché fossi lì al centro senza sapere cosa esattamente stava succedendo, ma piuttosto perché mi stavano soffocando con una bottiglia di gin in bocca mentre mi bloccavano braccia e piedi e una persona mi leccava tutto il corpo. Mi stavano letteralmente tenendo lì senza alcuna possibilità o parola chiave per dire non voglio più farlo. Era solo un gioco, ma purtroppo era diventata una violenza di gruppo e se ne sono accorti, forse, solo alcuni, solo a posteriori. Il danno era già fatto. Gli spazi sicuri vanno costruiti giorno per giorno e vi assicuro che non significa senza divertimento”.
A 18 anni, come viaggio di maturità, ha fatto un viaggio di due mesi in Europa da sola. “Lì ho iniziato le mie avventure per il mondo. La mia ingenuità nel voler trovare sempre del buono nell'altro mi ha spesso messo in situazioni discutibili. Resta un mio principio quello di avere fiducia nell'altra persona fino a prova contraria, ma purtroppo questo non può accadere quando rimani da sola con un uomo, quando cammini da sola in una strada buia, non può accadere quando fai autostop, non può accadere quando dormi in una stazione. E se casualmente di fidi, la colpa sarà la tua, perché hai deciso di fare un viaggio da sola, perché no, una donna non può fare le stesse cose che fa un uomo, o meglio le può fare ma rischia di più. Tutt* mi vedono sempre viaggiare. Esco sempre dalla mia comfort zone ma solo le donne che mi ascoltano possono immaginare lo stress quotidiano che vivo nel fare ciò che faccio".
Un altro episodio quando era fidanzata. “Non volevo fare l’amore, lo avevo detto più volte. Stavo dormendo nel letto con lui e la mattina, quando mi sono svegliata, lo stava facendo comunque”.
Così ha iniziato a leggere scritture femministe nel 2019, e nel luglio di quell’anno ha iniziato il suo “processo di autodeterminazione e autocoscienza”. “Ho iniziato a pensare più a quello che provavo e non al senso di colpa che l’uomo è capace di farti provare. A dover spiegare il perché delle mie azioni e delle mie parole. Compagni che venivano da me chiedendo spiegazioni sul termine femminicidio, iniziando lunghi monologhi del perché non dovrebbe chiamarsi così. Alla fine di ogni conversazione di solito avevo giorni bui, piangevo in solitudine infinitamente stremata da queste conversazioni estenuanti in cui un uomo cerca di dimostrare come sempre di avere ragione, spiegandoti il perché tu sia sciocca nel pensare ciò che pensi”.
E allora Alessandra ha iniziato a dire di no. Ma ha cominciato anche ad avere paura. “Di bere con sconosciuti e con conoscenti, di andare a feste con troppe persone, paura dei luoghi affollati, dei viaggi di notte, degli ostelli misti. Avevo iniziato a guardare il mio passato e vedere dei pattern nei miei traumi, nelle violenze fisiche e psicologiche che avevo subito. Indovinate cosa ho scoperto? Era tutti uomini. Ma non erano tutti di destra o sinistra, non erano tutti adolescenti o trentenni. Non erano tutti laureati o diplomati. Erano semplicemente tutti uomini”.
Alessandra è una donna indipendente, che ama viaggiare e far sentire la propria voce. Essere in comunità. “Le mie paure andavano e vanno in contrasto con tutto ciò che mi piace fare di più. Le combatto ogni giorno, è difficile, perché non sono paure innate, sono paure maturate con gli anni, con le esperienze di violenza. Ciò non significa che non indosso un vestito aderente, non viaggio e non vivo. Grazie al femminismo, ai compagni e alle compagne e all'incontro di un partner empatico che sa ascoltare anche se non è capace di comprendere, sa rispettare i miei bisogni anche se diversi dai suoi, sa che è essenziale costruire insieme una relazione sana che possa permettere a entrambi di crescere stimolando il meglio l' uno dell'altro, grazie a tutto questo mi riscopro ogni giorno, riscopro la mia sessualità, le mie emozioni e i miei limiti e ritrovo pian piano fiducia nelle relazioni anche con l’altro sesso”.
L’attivista si sente meno sola, “ma sempre più arrabbiata e sempre più delusa dai progressi inesistenti di questa società succube del sistema, che non ha la forza di cambiare la struttura patriarcale che ci costringe in gabbie d'acciaio. Sì, Giulia potevo essere io, posso essere io, possiamo essere tutte. Per Giulia e per tutte le vittime di femminicidio e violenza di genere, dobbiamo rivoluzionare questo mondo marcio e far fiorire rose”.
La studentessa è stata pesantemente insultata nei commenti a corredo. “Non mi vergogno della mia storia, perché so che ogni giorno molte altre persone vivono lo stesso copione. Non ho paura dei commenti che scorrono sotto gli articoli. Sono solo triste e delusa perché sono emblematici della società in cui viviamo, sembra che la “sensibilizzazione” di questi giorni non sia servita a niente. La storia di Giulia a molti sembra ancora distante dalla loro vita quotidiana”.
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26 novembre 2016 Link Embed [[URL]] Copia Copia Milano, 'Women in run' contro la violenza: "Il branco siamo noi" Alla convention 2016 di Actionaid che si tiene in Palazzo Lombardia a Milano le "Woman in run" arrivano, naturalmente, di corsa e lanciano un messaggio: "Corriamo contro la violenza sulle donne, lo facciamo in gruppo e non abbiamo paura: Quando siamo insieme, il branco siamo noi" Video di Francesco Gilioli e Antonio Nasso
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Nell’ultima settimana il nostro articolo sul femminicidio ha ricevuto diverse risposte critiche (qui, qui, qui e qui ad esempio). Abbiamo ricevuto obiezioni di tre tipi: sui dati, semantiche e di opportunità. Visto che qualcuno si è preso la briga di leggere quello che abbiamo scritto e di scrivere delle buone e argomentate critiche, il minimo che possiamo fare è rispondergli. Secondo Giulia Siviero (@glsiviero) i dati ISTAT che abbiamo riportato non sono pertinenti all’argomento perché non sono divisi per genere e motivazione. Nelle statistiche viene riportato il numero delle donne assassinate non diviso in omicidi compiuti da altre donne, da uomini, in omicidi legati alla criminalità comune o quelli che sono veri e propri “femminicidi” (o femicidi, come vedremo tra poco). Il commento di Siviero è indubbiamente corretto e ai dati ISTAT mancano proprio queste precisazioni. Già nel nostro articolo della scorsa settimana ci eravamo posti il problema: Il tasso di omicidio di donne non è la stessa cosa del numero di femminicidi – nell’accezione comunemente accettata un femminicidio è un omicidio di una donna da parte di un partner o di un conoscente. Può essere che mentre il totale di omicidi sia rimasto costante, il sottoinsieme dei femminicidi veri e propri sia aumentato. Può essere, ma non esistono dati per affermarlo e, come sostiene Tonello nel suo articolo, gli indizi fanno pensare che non sia così. Sempre sui numeri: Giovanna Cosenza (@giovannacosenza) e Loredana Lipperini (@lalipperini) sostengono che se i numeri assoluti sono costanti – come dimostrano i dati ISTAT – la percentuale delle donne assassinate sul totale degli omicidi è in aumento. Il che è vero, ma non ci è d’aiuto nel cercare di capire se i femminicidi sono in aumento o meno. Come avevamo scritto una settimana fa: Anche i conti sulla percentuale totale di omicidi di cui sono vittime le donne rispetto al totale degli omicidi, hanno poco senso. Dai primi Anni ’90, quando gli omicidi ebbero un’impennata a causa delle guerre di mafia e camorra, gli omicidi sono costantemente diminuiti. Ma ad essere uccisi di meno erano gli uomini, le vittime principali delle guerre di mafia. A fronte di un calo degli omicidi di uomini, quelli di donne restavano stabili e questo ha portato la loro incidenza sul totale ad aumentare (anche se il loro numero in assoluto non aumentava). La seconda obiezione è di natura semantica: femminicidio, ci fanno notare, è un termine con un significato diverso da femicidio. Quest’ultimo indica gli omicidi di genere, cioè quegli omicidi compiuti da uomini nei confronti delle donne per motivi legati alla misoginia. Il primo raggruppa tutta una serie di fenomeni come discriminazioni, violenze, stupri e molestie. Nel campo specialistico dell’antropologia e della criminologia questi due termini hanno due significati diversi e riconosciuti. Non è così nel linguaggio comune: in quasi tutti gli articoli e nei servizi giornalistici il termine femminicidio è stato usato come sinonimo del termine femicidio. In questo caso specifico è difficile dare la colpa ai giornalisti: femicidio e femminicidio, etimologicamente, sono esattamente la stessa parola. “Femi” o “femmin”, che vuol dire di femmine e -cidio, dal latino caedere, che vuol dire uccidere. Ma l’obiezione più tagliante è certamente quella che ci fa Giulia Siviero e che Andrea Zitelli (@andreazitelli_) ha efficacemente riassunto: potremmo definirla un’obiezione di “opportunità”. Ecco cosa scrive Zitelli: E anche se le uccisioni di donne in non fossero in aumento perché ridimensionare nel dibattito pubblico un problema strutturale interno alla società? Questa critica è una delle più difficili da liquidare con una scrollata di spalle per chi fa factchecking. Un altro modo di dire la stessa cosa è: perché smontare quelle campagne politiche o mediatiche che, magari piegando un po’ i dati, si propongono un obbiettivo degno e meritevole? Non è un’obiezione da poco. Si tratta di una corda tesa su un baratro che dobbiamo percorrere fino in fondo. Del tema ne avevamo già parlato qui (nelle risposte ai commenti) e gli avevamo dedicato un intero articolo qui. Ci sono due risposte: una più brutale, l’altra più pratica. Leviamoci subito il sassolino nella scarpa di quella brutale. Il mestiere di giornalista non è quello di orientare o manipolare il dibattito pubblico verso un obbiettivo ritenuto giusto o meritevole. Il mestiere del giornalista ha a che fare con la verità, o con la più ragionevole approssimazione che è possibile raggiungere. Sopratutto in un paese dove il dibattito pubblico è arretrato, pieno di falsità, manipolato da una parte o dall’altra, per noi giornalisti il dovere di tutelare la correttezza di numeri e dati è doppiamente forte. Non è solo questione di controllare i numeri dopo la virgola, ma di controllare i centesimi dopo la virgola e di essere pronti a rettificare quando ci sbagliamo. Soltanto applicando a noi stessi un rigore estremo otteniamo il diritto a chiedere rigore anche agli altri. La seconda obiezione è più pratica. Questa critica parte da un presupposto: parlare di un fenomeno e dipingerlo con toni emergenziali aiuta ad adottare policy o atteggiamenti culturali da parte dell’opinione pubblica in grado di curarlo. Dall’altro lato, criticare gli eccessi emergenziali, sortisce l’effetto opposto: diminuisce l’interesse e rallenta il cambiamento. Noi pensiamo che invece sia vero l’opposto. La retorica dell’emergenza continua, per cui certi fenomeni continuano e anzi peggiorano nonostante i progressi sociali e culturali che la nostra società ha faticosamente raggiunto, sortisce l’effetto opposto a quello che si vuole ottenere. Fa sentire le persone impotenti e rischia di renderle ciniche e indifferenti: «sono 30 anni che le pubblicità progresso mi dicono che i bambini africani muoiono di fame. All’inizio donavo anche dei soldi, ma se dopo 30 anni non è cambiato niente allora non ne vale la pena» (in realtà la fame nel mondo sta diminuendo da anni). È tutto da dimostrare che la retorica dell’emergenza abbia un effetto positivo sulle policy adottate dallo stato. L’esperienza di questi ultimi anni avrebbe dovuto insegnarci che spesso, quando costretti ad agire sull’onda emotiva, i politici producono leggi e soluzioni altrettanto emotive e altrettanto poco efficaci. Trasferiamo questo ragionamento nell’ del 2009: sui media e nei discorsi dei politici impazza il dibattito sulla sicurezza. L’ viene dipinta come un paese sempre più pericoloso e le città come trappole mortali. Chi faceva notare che la criminalità in realtà non era affatto in aumento, poteva essere criticato perché: “in aumento o no la criminalità non è forse un problema?”. La retorica emotiva ed emergenziale produsse le camionette dell’esercito per strada: a detta di tutti gli esperti un orpello inutile che non ha fatto nulla per ridurre la criminalità e ha finito con l’aumentare la percezione di insicurezza. Eccoci quindi al punto finale: qualunque ragionamento che parta da dati scorretti o, addirittura, dall’assenza di dati e da una pura percezione emotiva, difficilmente potrà produrre policy efficaci. A volte combattere una giusta battaglia sulla base delle informazioni sbagliate può portare anche a ottenere risultati opposti a quelli che si volevano raggiungere.
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Samuele Caruso ha agito in modo “barbaro e brutale”. Così Giuseppe Termine, il primario di chirurgia dell’ospedale Cervello di Palermo, ha definito gli almeno 20 colpi con cui ieri il ragazzo ha accoltellato la sua ex fidanzata, Lucia Petrucci, 18 anni, e ha ucciso Carmela, 17 anni, che aveva disperatamente cercato di difendere la sorella […]
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I funerali di Jessica Faoro, la ragazza di 19 anni uccisa a coltellate il 7 febbraio a Milano in un appartamento di via Brioschi, sono stati rinviati: si terranno sabato 24 febbraio alle 11 nella parrocchia di San Protaso. Li pagheranno i genitori grazie alle donazioni ricevute e il comune si costituirà parte civile nel processo: «D’ora in poi lo faremo per ogni femminicidio», ha detto l’assessore ai servizi sociali del comune, Pierfrancesco Majorino. Faoro è stata uccisa nell’appartamento di un autista dell’ATM, Alessandro Garlaschi, che è accusato di omicidio. La storia di Jessica Faoro ha a che fare con la storia dei suoi genitori e con un progetto di assistenza familiare che è fallito. L’assessore Majorino ne ha ricostruito la vicenda all’interno dei servizi sociali di Milano. Fin dalla nascita, nel 1998, Jessica Faoro aveva vissuto in comunità per un provvedimento dell’autorità giudiziaria. I genitori, Stefano Faoro e Annamaria Natella, con storie complicate alle spalle, non avevano una casa. Jessica era stata riportata in famiglia quando aveva circa due anni, perché Stefano Faoro aveva comprato una piccola casa di cui paga ancora il mutuo, come ci ha raccontato lui stesso. I genitori però litigavano e il padre aveva patteggiato una condanna per maltrattamenti contro la moglie. Nel frattempo i due avevano avuto un altro figlio, Andrea, diciotto mesi più piccolo di Jessica. Entrambi erano stati messi di nuovo in comunità dopo circa sei anni. Secondo il padre di Jessica Faoro, i servizi sociali avevano garantito che i bambini non sarebbero stati separati, cosa che invece era successa. Nel 2008, infine, Jessica era stata definitivamente affidata al comune di Milano dal Tribunale dei Minori: aveva dieci anni. La madre aveva perso la responsabilità genitoriale e quella del padre era stata limitata. Dopo parecchi affidamenti familiari falliti, Jessica Faoro era stata sistemata presso l’associazione Fraternità e lì era rimasta fino al 2013. A quindici anni aveva iniziato a scappare, nel 2014 – a sedici anni – aveva partorito una bambina che era stata data in adozione. Quando aveva compiuto 18 anni, sempre secondo l’assessore Majorino, si era rifiutata «di proseguire con la presa in carico da parte nostra, poi aveva accettato un mese di ospitalità in un centro di accoglienza temporanea per adulti». Nel frattempo viveva per strada, faceva qualche lavoro saltuario e si era innamorata di Alessandro, un suo coetaneo. Don Rigoldi, un prete molto attivo nel sociale, come si dice, aveva ospitato entrambi nella Comunità Nuova; e ha raccontato che quando Alessandro a 18 anni era andato in prigione per una serie di piccoli furti «Jessica era impazzita: trascorreva intere giornate sotto la finestra della cella di lui, comunicando a gesti. Era straziante». In quel periodo, sul suo profilo Facebook, Jessica Faoro pubblicava un’infinità di appelli per cani abbandonati e smarriti. Finché, il 28 dicembre dell’anno scorso, aveva pubblicato una sua foto abbracciata a un giovane pitbull, con la scritta “mio” affiancata da un cuore. Il cane si chiamava Zen ed era il suo compagno, ma per chi vive in simbiosi con un cane – come molte persone senza fissa dimora – è difficile trovare un ricovero per la notte. Ci sono alcuni posti al centro di via Graf, a Quarto Oggiaro, ma è raro trovarne uno libero. Forse per questo motivo – era inverno e aveva bisogno di un posto dove stare con il cane – Faoro aveva risposto all’annuncio di Garlaschi, un autista dell’ATM che diceva di offrire vitto e alloggio in cambio di qualche lavoro domestico. L’alloggio consisteva in un piccolo divano messo in cucina, dove lei poteva coricarsi quando Garlaschi spegneva la tv. Garlaschi non viveva solo ma con la moglie. Con Jessica fingeva che la moglie fosse sua sorella; non è chiaro invece come la moglie si spiegasse la presenza di Jessica in casa. Garlaschi era stato denunciato per stalking da una collega e quindi trasferito: stando agli atti giudiziari aveva un’ossessione per le ragazzine e ne aveva adescate altre, prima di Jessica. Si vantava e mostrava ai colleghi le foto di una di loro che faceva le faccende domestiche in topless. La sera in cui ha ucciso Faoro, dopo aver accompagnato la moglie a casa di sua madre, Garlaschi si era vantato via chat con un collega della notte di sesso che lo aspettava. Una settimana prima di essere uccisa, Jessica Faoro aveva chiamato i carabinieri perché Garlaschi l’aveva molestata nel sonno. Gli agenti, una volta arrivati, l’avevano trovata per strada. Faoro aveva detto che Garlaschi aveva un rapporto strano e ambiguo con la sorella (che in realtà, infatti, era sua moglie), aveva spiegato che doveva tornare in casa a prendere gli zaini e il cane e che non voleva più restare lì. I carabinieri erano saliti con lei senza trovare niente che li allarmasse. Lei aveva rifiutato di denunciare Garlaschi. Faoro aveva la febbre e quella stessa notte era andata al Pronto Soccorso dell’ospedale San Paolo, dove le avevano detto che non sarebbe potuta restare con il cane. Da quel momento in poi non è ancora chiaro che cosa sia successo: soprattutto quando e perché Jessica fosse tornata a casa di Garlaschi, dove è morta dopo sette giorni. Diversi giornali hanno raccontato la cronaca di quell’ultimo giorno: il 6 febbraio Alessandro Garlaschi e Jessica Faoro erano entrati un negozio di ottica vicino al Castello Sforzesco intorno alle 18.32. Lui le aveva regalato delle lenti a contatto, come in altre occasioni in cui, sfruttando la convenzione di quel negozio con l’ATM per cui lavorava, aveva regalato ad altre ragazzine montature e occhiali. Dopodiché i due sarebbero rientrati nell’appartamento di lui, in via Brioschi. Secondo le prime indagini, l’omicidio è avvenuto intorno alle 3.30 della notte tra il 6 e il 7 febbraio. Alle 6 del mattino Garlaschi aveva chiamato l’ATM per dire che non sarebbe andato al lavoro: non sapeva cosa fare con il corpo di Jessica, ha cercato di darle fuoco con dell’alcol, quindi di metterlo dentro una borsa. Alle 11 ha chiamato il 118 parlando della presenza di una ragazza ferita in casa sua; poi è stato arrestato. Cristina De Michele, presidente della Cooperativa sociale Comunità Progetto, da vent’anni attiva a Milano, docente a contratto di scienze pedagogiche alla Bicocca dove insegna Progettazione e valutazione dei servizi e degli interventi educativi, dice: «É evidente che quindici anni di lavoro dei servizi non hanno prodotto un risultato che permettesse a Jessica di vivere, invece di finire in via Brioschi. I giovani in condizione di fragilità, di estrema precarietà sono tantissimi. Se non hanno famiglia sono completamente allo sbando». Jessica Faoro aveva un padre e una madre, ma non aveva cercato aiuto da loro. «Quasi non la conoscevo», ha detto il padre, Stefano Faoro. «Quando era piccola potevo vederla una volta ogni due mesi, un’ora in una stanza di quattro metri per quattro. Negli ultimi tempi comunicavamo attraverso la chat di Facebook. Per un po’ era tornata qui, ma non ce la facevo. Sono un incapace. Non sono stato aiutato. Ho chiesto aiuto per imparare a fare il padre, non è arrivato». La madre, Annamaria Natella, negli ultimi giorni ha detto ai giornali che lei e la figlia erano molto vicine, ma è certo che Jessica, pur nel bisogno, non è andata da lei. L’assessore Majorino con onestà ha ammesso: «Certo, qui c’è un fallimento. E non sta tanto nel fatto che questa ragazza ha bussato alla nostra porta e non le abbiamo aperto, piuttosto che non ci percepiva come utili. Se una ragazza cresce in comunità, poi esce e finisce in questa tragedia, c’è una debolezza nel suo percorso educativo. É motivo di dolore e di riflessione per tutti noi». Non è vero, garantisce Majorino, che quando Jessica Faoro ha compiuto 18 anni i servizi sociali se ne sono disinteressati. «Abbiamo forme di sostegno, lei ha le ha rifiutate. Poi, un mese fa, si è fatta viva con i servizi sociali chiedendo aiuto. Le hanno fissato un appuntamento con l’assistente sociale per il giorno successivo, ma non si è presentata. Come dimostra la vicenda del fratello Andrea, che ha 19 anni ed è ancora in carico ai servizi nonostante la maggiore età, eravamo ben lontani dall’abbandonarla. Però non siamo proprio riusciti ad agganciarla». Quelli come Jessica sono ragazzi e ragazze invisibili, racconta Cristina De Michele. I servizi non li intercettano. Vivono in posti occupati, sovraffollati, degradati. «A Milano un pezzo di periferia è infilata nel centro. È la zona di Stadera, Meda, Brioschi, al limitare dei Navigli. I ragazzi e le ragazze come Jessica Faoro vivono lì, fra legalità e illegalità». Lei valuta che la fascia d’età a rischio sia fra i 18 e i 30 anni: «Sono persone che non fanno parte della società, della sfera pubblica. Non sono cittadini, sono abbandonati alla loro disperazione personale, alla loro povertà. Si muovono fra lavori miserabili e precari, un mese non hanno reddito, quello dopo prendono 250 euro. Perdono la speranza. Mi dicono: non ce la farò mai, sarà così per sempre. A vent’anni sono stanchi, rassegnati, senza competenze, senza desideri. Non sono nemmeno in grado di formulare una domanda ai servizi. Una ragazzina in quella situazione è carne da macello, le può succedere qualunque cosa. Potrei dire che a Milano ce ne sono almeno mille come Jessica, è una stima realistica. Non è una categoria sociale, è una condizione esistenziale dove l’eroina dilaga». Ma Jessica Faoro non si faceva e non si prostituiva, come ha insinuato invece subito dopo la sua morte il Corriere della Sera. Il padre, Stefano Faoro, anche lui dipendente dell’ATM, lo dice con rabbia: «Se si fosse venduta non sarebbe morta. Se fosse stata una prostituta avrebbe ceduto a Garlaschi e sarebbe ancora viva». Il padre ha anche fatto un appello a Chi l’ha visto per sapere che fine abbia fatto il cane Zen, «che era parte di Jessica». Poi dagli amici della figlia ha scoperto che Jessica lo aveva affidato a una famiglia. «Ha messo al sicuro il cane e non è riuscita a mettere al sicuro se stessa». Leggi anche: – «Lei trova sexy gli uomini che indossano una divisa?» – Buoni consigli per non farsi stuprare – La violenza sessuale e il consenso
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Bufera sul web per l'ultima canzone del rapper Emis Killa. Il tema è quello del femminicidio e il titolo è "3 messaggi in segreteria..." ma a leggere bene il testo le polemiche sembrano pretestuose. Le frasi sono molto forti perché la canzone inizia raccontando le paranoie dello stalker. "Lo che sei in casa però non rispondi/ Finestre chiuse tu lì che mi ascolti/ Io con le idee confuse, tu che confondi /Tutte le mie scuse per stalking”, si legge. E ancora: “Ieri era il mio compleanno lo sanno anche i muri/ Io ti aspettavo, tu nemmeno mi hai fatto gli auguri/ Eri stata avvertita, ricordi quegli scleri/ Io te l’avevo detto vengono i problemi seri/ E ora hai paura perché tutti quei brutti pensieri/ Da qualche giorno hanno iniziato a diventare veri". Per finire con: “Lo so sono egoista, un bastardo, ma preferisco saperti morta che con un altro”.
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Mercoledì 19 ottobre è stata una giornata storica che ha coinvolto tutta l'America latina, con quasi un milione di donne scese in piazza per protestare contro la crescente violenza contro di loro, nonostante di femminicidio in questo continente si parli già dagli anni 90, quando a Ciudad Juárez, in Messico, cominciarono a sparire e a venire uccise centinaia di giovani ragazze, indifese perché di classe più umile. Una giornata storica perché a dare il là a questo «sciopero femminile» che l'altroieri ha fatto fermare molte donne di Lima, in Perù, e di Santiago del Cile, ma anche di Città del Messico e del Nicaragua è stato un paese come l'Argentina ed una città come Buenos Aires, capitale di una nazione che già oltre mezzo secolo fa aveva regalato al mondo un'icona politica del femminismo come Evita Perón, la madre dei descamisados, molti dei quali emigranti italiani che dopo la Seconda Guerra avevano sfidato l'Oceano per «fare l'America». A loro Evita concesse un'istruzione pubblica che - nonostante crisi e dittature - ancora oggi è tra le migliori dell'America latina, per i figli dei lavoratori dipendenti aprì le prime colonie gratuite, diede pensioni degne alla nuova classe media ma, soprattutto, insegnò agli argentini il rispetto nei confronti delle donne. Non esistevano ancora le tematiche di genere ma nessun altro paese, in quel secondo dopoguerra, trasmise come l'Argentina al suo popolo tanto rispetto verso quel sesso «debole» solo a parole, proprio grazie al mito vivente ma mantenutosi post mortem - di Evita. Da allora, purtroppo, in tutto il Sudamerica il machismo ha continuato a mietere vittime come nella messicana Ciudad Juárez, ma tanto a Buenos Aires come a Santiago del Cile ed a Brasilia si sperava che la consacrazione di tre donne alla presidenza servisse ad emancipare definitivamente l'altra metà del cielo ed a ridurre il dramma del femminicidio. Né l'argentina Cristina Kirchner, né Michelle Bachelet l'unica ancora in carica in Cile - né la brasiliana Dilma Rousseff sono riuscite nel miracolo di trasmettere quei valori di rispetto verso le donne che dovrebbero essere congeniti in ogni uomo degno di essere definito tale. E così, nell'ultimo mese e proprio nella patria di Evita, criminali, quasi sempre drogati e/o ubriachi, hanno trucidato in media una donna al giorno. Un numero che l'altroieri ha portato a quello che i media hanno ribattezzato il «mercoledì nero» latinoamericano grazie al «traino argentino». L'ultimo delitto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell'indignazione, è stato quello di una 16enne, Lucía Pérez, violentata e uccisa da una banda di delinquenti il classico branco di cui anche in Italia si parla, purtroppo, sempre più spesso che poi hanno tentato di far credere che la giovane fosse morta di overdose. Il tutto a Mar del Plata, città considerata ai tempi di Evita il simbolo della nuova Argentina, quella delle pari opportunità e delle prime vacanze democratiche e di massa, oggi vittima sacrificale di un'inspiegabile follia machista. Per questo solo a Buenos Aires 100mila tra studentesse ed impiegate, casalinghe e madri con i bambini sono scese in strada vestite di nero, sfidando una pioggia battente, stringendo tra le mani cartelli con lo slogan «#NiUnaMenos», non una di meno. Scene identiche in altre 120 città: «Fermare il femminicidio» è stato il grido che ha unito tutta l'America latina.
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Un monito a non dimenticare, l’invito a considerare la violenza un problema che non ci è lontano e un messaggio per i genitori di Filippo Turetta. Gino Cecchettin torna a parlare e usa parole accorte. Il padre di Giulia, la 22enne assassinata a Vigonovo dall’ex fidanzato reo-confesso, racconta al Corriere della Sera cosa intenda con quello che negli scorsi giorni ha definito la necessità di impegnarsi in chiave civile, dopo il ‘rumore’: “Ciò che mi preme ora è fare in modo che, finita l’emozione, non ci si torni ad assopire. Noi italiani siamo bravi ad avere slanci civili ma siamo anche capaci di dimenticare in fretta. Il rumore è il campanello che ogni mattina ci deve tenere svegli e farci chiedere cosa abbiamo fatto per far finire i femminicidi. Quando ho parlato di un impegno civico ho voluto dire che, con una Fondazione o in altro modo, io voglio dedicare la mia vita a far sì che non ci sia un’altra Giulia. Per me bisogna partire dall’educazione”. La violenza, aggiunge, “non è un problema di altri”. E rivolge una riflessione alla famiglia Turetta: “Prendi le due famiglie coinvolte in questa vicenda: due ragazzi universitari, cresciuti in determinate famiglie. Sembra un ambiente al riparo, invece no. Per i genitori di Filippo non provo odio, ma tristezza e persino tenerezza. Io ho già ricominciato a camminare nella vita, per loro sarà più difficile. Li abbraccio virtualmente, hanno avuto, se possibile, una disgrazia più feroce della mia. In questi giorni non ho provato né odio né rabbia. Quando sono riuscito a leggere gli articoli sull’aggressione ho provato solo dolore per mia figlia che era lì, sola, spaventata, senza che io potessi aiutarla”. Gino Cecchettin è tornato anche sul discorso sul patriarcato dell’altra figlia, Elena, pronunciato nei giorni successivi al ritrovamento del corpo di Giulia, e che le era costato da un lato ingiustificate critiche e dall’altro un forte sostegno: “Ha ignorato gli assurdi attacchi che ha ricevuto, ma si è sentita riscaldata dall’immensa ondata di coscienza civile di affetto che le sue parole hanno determinato nel Paese”. Un passaggio è dedicato anche allo stesso Turetta: “Ci era sembrato timido, un po’ freddo”, ha ricordato. E riguardo alla sua personalità, sottolinea: “Ho saputo tutto solo dopo. Mi hanno detto che lui, la penultima volta che si sono visti, l’aveva spaventata urlando in modo forsennato. Su spinta di Giulia aveva accettato di farsi vedere da un terapeuta. Ma ne ha cambiati quattro e sempre ha fatto scena muta”. “Elena aveva capito e le aveva detto il suo giudizio su Filippo – aggiunge – Forse per questo, per timore della disapprovazione della sorella maggiore, Giulia non l’aveva informata dello stato d’animo poi rivelato, anche per noi, dal messaggio trasmesso da Chi l’ha visto“.
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Oggi che Silvio Berlusconi non è più un senatore della Repubblica italiana, mi piace ricordare il giorno in cui il suo regno ha cominciato a scricchiolare.Era il 13 febbraio 2011 e nelle piazze italiane un milione di donne all'unisono gridarono "basta": a ministre uscite da cene eleganti, alle finte nipoti di capi di Stato, a certe signorine che si proponevano come modello assoluto dagli schermi della televisione. Alle strizzatine d'occhio e agli ammiccamenti, di destra come di sinistra. Quel giorno le donne ruppero l'incantesimo magico in cui sembrava precipitata l'Italia di re Silvio.Poi sono arrivati i referendum, Beppe Grillo, gli scissionisti: e tutto quello a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, che ci sia piaciuto o meno. Ma prima c'erano state le donne.Cosa hanno fatto negli ultimi due anni quel milione di giovani e anziane che avevano invaso le piazze? Molte sono tornate nelle loro case: parecchie con una consapevolezza maggiore, qualcuna come se nulla fosse cambiato. Se non ora quando - il gruppo che aveva organizzato quell'evento - si è diviso, perduto in tanti rivoli, alimentati da interessi diversi, divisioni, rivalità politiche e personali in cui le donne sono specialiste: ma parte di quel nucleo originario - soprattutto quella che aveva radici in città grandi e piccole, ma lontano da Roma e Milano - ha resistito, ed è stato fra le forze che hanno costretto i media ad accettare il concetto di femminicidio per indicare la morte violenta di una donna da parte di un uomo: usare questa parola oggi sembra scontato ma solo due anni fa quasi nessuno lo faceva.Altre hanno ripreso a lavorare da sole, in silenzio, ma per obbiettivi condivisi. Dietro alle tante iniziative che hanno sottolineato la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, c'erano spesso le donne che erano scese in piazza l'11 febbraio del 2011. Personalmente, non le ho apprezzate tutte quelle iniziative: non mi sono piaciuti i manifesti con le ragazze dagli occhi pesti, le frasi fatte che invitavano a proteggere e accudire le donne, quasi fossimo deboli animali in via di estinzione.Mi è piaciuta invece la scelta fatte da Snoq Factory, un collettivo di artiste, intellettuali e donne comuni nato da una costola del gruppo che aveva organizzato la manifestazione del 13 febbraio: al museo Macro di Roma per parlare di violenza, hanno scelto di ridere, ballare, recitare e sottolineare, una volta per tutte, la forza e l'energia delle donne, non il loro essere vittime. La stessa forza e energia che avevano invaso le piazze italiane quasi tre anni fa, la stessa che ci servirà da oggi stesso per girare pagina davvero. Questo video la riassume benissimo: lo prendo in prestito per usarlo come augurio per un domani diverso.Twitter: @francescacaferr
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Dalla cattura di Matteo Messina Denaro al femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla strage di migranti a Cutro al bus precipitato dal cavalcavia a Mestre: il brogliaccio dei fatti di cronaca del 2023 ha registrato lunghe cacce all'uomo e riproposto emergenze irrisolte come quella dei femminicidi e degli sbarchi di migranti, senza dimenticare la sicurezza dei trasporti. Questi 10 tra i casi più significativi dell'anno. 16 GENNAIO: LA CATTURA DI MATTEO MESSINA DENARO L'ultimo stragista si trova in una clinica di Palermo per essere sottoposto a una terapia per un grave tumore. Il Ros trova il potente e fragile boss mafioso seguendo la serie di ricoveri e prestanome, interrompendo una trentennale latitanza dorata e protetta. Il 25 settembre muore in ospedale, a L'Aquila. Due giorni dopo e' tumulato nella natia Castelvetrano. Fine corsa per 'Diabolik', condannato per le Stragi del 1992 e del 1993, oltre che per svariati omicidi, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo. Continua la caccia alla vasta rete di fiancheggiatori e al suo immenso tesoro. 26 FEBBRAIO: LA STRAGE DI MIGRANTI A CUTRO Viaggiano sul "Summer Love", un caicco lungo 25 metri, partito da Smirne, i 180 migranti che nella notte del 26 febbraio naufragano a pochi metri dalla costa di Steccato di Cutro: 94 i morti, 35 minori. Molti i dispersi. Restano parecchie domande sul fronte dei soccorsi del barcone in balia per ore del mare forza 8 e di onde alte tre metri. A fine novembre, mentre vara il nuovo provvedimento d'urgenza dopo il Decreto Cutro, il governo decide di costituirsi parte civile nel processo di Crotone nei confronti degli scafisti. Sono circa 154 mila i migranti sbarcati nel 2023, erano poco piu' di 100 mila l'anno precedente. Secondo l'Oim, nel Mediterraneo centrale sono morte 2.271 persone, +60% rispetto allo stesso periodo del 2022. 7 MARZO: LO SCONTRO FRA DUE AEREI MILITARI A GUIDONIA A Guidonia Montecelio, alle porte di Roma, due U-208 del 60mo Stormo dell'Aeronautica militare, in volo nell'ambito di una missione addestrativa prepianificata, entrano in collisione per cause da accertare e precipitano al suolo in un'area nei pressi dell'aeroporto militare. I due piloti, Giuseppe Cipriano e Marco Meneghello, muoiono nello schianto. L'aereo di Cipriano finisce su un'area rurale, Meneghello con una manovra disperata riesce a evitare gli edifici ai lati della strada e, di conseguenza, una possibile strage. 2-17 MAGGIO: LE ALLUVIONI IN TOSCANA E EMILIA ROMAGNA Diciassette morti, oltre 20mila sfollati, danni stimati per 10 miliardi. Un evento 'senza precedenti' per portata, intensita' e vastita' del territorio interessato: cosi' l'alluvione dello scorso maggio in Emilia Romagna, secondo quando emerge dal report della commissione tecnico-scientifica incaricata dalla Regione prima della nomina a commissario per la ricostruzione del generale Francesco Paolo Figliuolo. Nelle 98 pagine dedicate all'analisi puntuale di quanto accaduto con le piogge torrenziali tra il 2 e il 17 maggio 2023 si parla dei 23 fiumi esondati contemporaneamente, per un volume di esondazione stimato in circa 350 milioni di metri cubi (circa 11 dighe di Ridracoli) che ha provocato allagamenti in pianura su circa 540 chilometri quadrati quadrati di territorio (distribuiti pressoche' nell'intera area romagnola, con interessamento anche della regione in destra del Reno e, per il primo dei due eventi, anche dei bacini del Panaro e del Secchia); alle 65.598 frane - scivolamenti rapidi in terra o detrito, colate di fango, scivolamenti in roccia - censite su un'area di 72,21 chilometri quadrati; alle 1.950 infrastrutture stradali coinvolte da dissesto (il 3,6% dell'intero tracciato stradale delle sei province colpite, di cui il 36,2% delle comunali e il 35,7% di quelle vicinali a uso pubblico, e il 18,5% delle private). Dalla primavera all'autunno: dal 2 al 5 novembre anche la Toscana viene colpita dall'alluvione, con piogge torrenziali, esondazioni, danni e vittime (8 morti, 300 sfollati, danni stimati per quasi 2 mld). Sette le province interessate agli eventi, la piu' colpita quella di Prato, dove la prima sera, in appena tre ore, cadono circa 180 millimetri di pioggia, mentre diversi comuni fiscono allagati. Il 3 novembre viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale e il presidente della Regione Eugenio Giani viene nominato commissario. 10 GIUGNO: LA SCOMPARSA DELLA PICCOLA KATA Il 10 giugno Kataleya Alvarez, per tutti Kata, sparisce nel nulla dall'ex hotel Astor a Firenze. Un vecchio stabile occupato da anni da una comunita' multietnica, dove la bimba peruviana di 5 anni vive con la madre e il fratello. La procura apre le indagini. Al lavoro carabinieri, genetisti e superconsulenti. Un video riprende per l'ultima volta la bimba nell'ex albergo, alle 15,12 quando sale da sola le scale interne del cortile fino al terzo piano e successivamente, alle 15,13, quando torna giu', sempre da sola. Poi scompare. La madre, Katherine Alvarez, il 20 novembre e' stata denunciata per lesioni aggravate. Avrebbe ferito ripetutamente con un coltello una connazionale nei bagni di una discoteca. 25 AGOSTO: LO STUPRO DELLE CUGINETTE A CAIVANO Il 25 agosto si viene a sapere che due cuginette di 10 e 12 anni del Parco Verde di Caivano (Napoli) nei mesi precedenti sono state vittime di reiterati abusi da parte di un gruppo di giovanissimi. E' il fratello di una delle due ad apprendere da un account social anonimo dell'esistenza di video delle violenze: l'inchiesta porta a misure cautelari nei confronti di 7 minorenni e 2 maggiorenni. Pochi giorni prima, a Palermo, 7 giovani erano stati arrestati per lo stupro di una 19enne: anche in questo caso la violenza era stata filmata. 30 AGOSTO: STRAGE DI BRANDIZZO, IL TRENO TRAVOLGE GLI OPERAI Il 30 agosto, poco prima di mezzanotte, un treno travolge una squadra di operai impegnati in lavori di manutenzione nella stazione di Brandizzo, a 20 km da Torino: 5 di loro - il piu' giovane ha solo 22 anni - muoiono, due restano miracolosamente illesi. Immediate esplodono le polemiche sulla sicurezza: errore di comunicazione? Binario 'sbagliato'? Intervento anticipato? Vengono indagati l'addetto Rfi, uno dei sopravvissuti, e i vertici della Sigifer, l'azienda delle vittime. A novembre si aggiungono anche due dirigenti di Rfi. 3 OTTOBRE: BUS PRECIPITA DA UN CAVALCAVIA A MESTRE La sera del 3 ottobre un pullman con a bordo turisti diretti a un campeggio di Marghera precipita dal cavalcavia di Mestre: il tragico bilancio finale e' di 21 morti e 15 feriti. Tra le vittime - tutte straniere, tranne l'autista - un neonato di un anno, una bambina di 12 anni e una ventenne incinta in viaggio di nozze. L'inchiesta si concentra su tre elementi: lo stato di manutenzione del guard-rail, un eventuale guasto meccanico del bus a trazione elettrica di produzione cinese e un possibile malore del conducente. Ma quasi tre mesi dopo gli esiti sono ancora incerti. 11 NOVEMBRE: LA SCOMPARSA E L'OMICIDIO DI GIULIA CECCHETTIN Giulia Cecchettin, laureanda in Ingegneria biomedica, scompare da Vigonovo l'11 novembre assieme all'ex fidanzato Filippo Turetta. Una settimana dopo il suo corpo senza vita viene trovato a Barcis, in Friuli e, nelle ore successive, il ragazzo, fermato a Lipsia dopo una fuga di 1000 chilometri, confessa agli agenti tedeschi di averla uccisa. "Ho fatto una cosa orribile, non accettavo fosse finita"ribadisce nel carcere di Verona al pm. Nel nome di Giulia fanno 'rumore' le piazze italiane gremite di donne e uomini per dire basta ai femminicidi. Ai funerali a Padova, davanti a diecimila persone, il padre Gino Cecchettin si augura che la storia della figlia segni "un punto di svolta" auspicando "leggi e programmi educativi per proteggere le vittime". 20 DICEMBRE: LE CONDANNE PER L'OMICIDIO DI SAMAN Tre condanne e due assoluzioni nel processo per l'omicidio di Saman, la ragazza pachistana uccisa a 18 anni la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 a Novellara dopo che rifiuto' un matrimonio combinato. La Corte d'Assise di Reggio Emilia infligge l'ergastolo al padre Shabbar Abbas e alla madre Nazia Shaheen, ritenuti i mandanti, e 14 anni allo zio Danish Hasnain, considerato l'autore materiale. Assolti i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Cade per tutti l'aggravante della premeditazione e, in parte, viene smentita la ricostruzione della Procura. Risarcimenti per alcune associazioni islamiche e a tutela delle donne, nessuno per due figure chiave della vicenda, il fidanzato e il fratello minore di Saman.
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Il procuratore di Venezia Bruno Cherchi, che coordina l'inchiesta sull'omicidio di Giulia Cecchettin, rischia il trasferimento e dunque di dover lasciare le sue funzioni per essere destinato a un'altra sede. Motivo, i suoi rapporti con un perito, il professore Massimo Montisci, ex presidente dell'istituto di Medicina legale di Padova, coinvolto in vicende giudiziarie. Rapporti che secondo la minoranza della prima commissione del Csm (due consiglieri su 6) avrebbero appannato l'immagine di imparzialità di Cherchi. La relazione di maggioranza (3 voti) chiede invece l'archiviazione. Il procedimento dura da oltre un mese e a decidere sarà mercoledì prossimo il plenum del Consiglio superiore della magistratura. Domani i funerali di Giulia Dopo che le sorti di Giulia Cecchettin hanno tenuto l'Italia col fiato sospeso per una settimana e dopo l'epilogo peggiore, domani è il giorno dell'ultimo saluto alla studentessa di 22 anni, uccisa brutalmente dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Migliaia di persone si riuniranno fuori dalla chiesa di Santa Giustina a Padova per il suo funerale. Le esequie cominceranno alle 11 e saranno officiate dal vescovo di Padova, Claudia Cipolla. A seguire, alle 14, un momento di preghiera nella Chiesa Parrocchiale di Saonara per un saluto da parte della comunità. Dopo le esequie, Giulia riposerà accanto alla mamma Monica, morta a 51 anni a ottobre dello scorso anno per malattia. Serena Dandini: “L’indipendenza di Giulia fa paura, gli uomini non riescono ad accettarla” La capienza della chiesa sarà ridotta a 1200 posti, all'esterno e in Prato della Valle sono stati allestiti dal Comune due maxi schermi per dare a tutti la possibilità di seguire la cerimonia. I funerali saranno trasmessi in streaming anche sul nostro sito a partire dalle ore 10 circa. In Veneto è stato proclamato il lutto regionale e il presidente Luca Zaia, che sarà presente al funerale ha chiesto «un segnale corale, forte e chiaro, contro la violenza di genere. Una giornata che diventi indelebile, che segni il passo perché fatti come questo possano non ripetersi più. Lo dobbiamo a Giulia, nel cui ricordo, e nel ricordo di tutte le donne uccise senza un perché, continueremo a lavorare stretti gli uni agli altri nel combattere la violenza di genere». Delitto Cecchettin, l’abbraccio e le lacrime in carcere di Turetta con i genitori: “Filippo sollevato” Mentre a Vigonovo, la città in cui la giovane viveva con la famiglia è stata tolta la gigantografia affissa sul Municipio. La foto della giovane sorridente verrà infatti spostata nella basilica di Padova. E proprio quel sorriso è «il regalo più bello»- scrive la famiglia Cecchettin sul manifesto che annuncia le esequie e «il tuo amore un messaggio per il mondo» per la loro amata Giulia «tolta al nostro grande affetto». Affetto che sicuramente domani non mancherà, ne è certo anche il papà Gino che nei giorni scorsi ha spiegato di aver deciso di celebrare i funerali nella grande basilica di Santa Giustina perché «arrivi un messaggio di grande partecipazione». Domani il papà di Giulia leggerà un messaggio scritto perché «non sono bravo con le parole» per salutare per l'ultima volta la sua bambina. Filippo Turetta e gli altri, quando il male è dentro casa Per i funerali è prevista anche la diretta tv su Rai1. «Il tuo sorriso è il tuo messaggio più bello, il tuo amore un messaggio per il mondo» sono le parole scelte per l'epigrafe accompagnata da un vaso di fiori disegnato dalla ragazza che sognava di diventare un'illustratrice dopo gli studi in ingegneria. Filippo Turetta domani, in teoria, potrebbe essere tra le migliaia di persone che assisteranno ai funerali di Giulia attraverso le dirette televisiv. Richiuso dal 25 novembre nel carcere veronese di Montorio Turetta gode degli stessi diritti di tutti gli altri detenuti e dunque può leggere e guardare la tv. E' in cella con un altro detenuto, un uomo tra i 50 e 60 anni, che già in precedenza a Montorio si era segnalato per essersi preso cura dei reclusi più in difficoltà, dei 'primari' come vengono definiti nel gergo della reclusione quelli che arrivano per la prima volta in una cella. Una sorta di supervisore che, su richiesta della direzione di Montorio, ha accettato di stare in cella con Filippo, per seguirlo ed evitare gesti estremi da parte del giovane. «E' un detenuto come tutti gli altri altri. Ora sta prendendo le 'misure' di questa realtà, shoccante per chi vi entra la prima volta», riferiscono fonti qualificate.
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Meli Ascoltata in video a Palazzo Madama Olga Stefanishyna senza toni enfatici racconta l’orrore. La sua voce s’incrina soltanto quando passa alle violenze sulle donne e sui bam,bini. Liliana Segre, da remoto: di fronte a ciò dobbiamo temere l’indifferenza La voce è piana, senza toni enfatici perché gli orrori che racconta parlano da soli, non c’è bisogno di aggiungere altro. La vicepremier ucraina Olga Stefanishyna elenca i crimini commessi dall’esercito russo davanti alla Commissione Diritti umani, Femminicidio e Anti discriminazione di Palazzo Madama. Denunciando gli stupri commessi dalle forze ucraine ha detto che l’obiettivo «non è solo quello di far soffrire le donne, ma anche di umiliare gruppi di donne in modo da eliminare la resistenza. La maggior parte degli stupri viene commessa di fronte agli occhi dei figli delle vittime». In video la vice di Zelensky La senatrice a vita Liliana Segre la segue da remoto, commossa. In video la vice di Zelensky appare calma, benché provata, volto struccato, maglioncino giallo, enumera le «atrocità» commesse dagli invasori: «La città di Mariupol non esiste più, nella città di Bucha più del 90 per cento delle vittime sono state giustiziate sul posto perché riportano ferite da armi da fuoco. Abbiamo contato 36 crimini di guerra diversi». La voce si incrina solo quando riferisce dei casi di stupro: «Madri violentate davanti ai bambini, bambini violentati davanti alle madri». Sì i crimini di guerra non hanno risparmiato i più piccoli: «Una ragazza di 14 anni ê stata stuprata da 5 soldati russi ed è rimasta incinta, un ragazzino di undici anni è stato violentato davanti alla madre, che era stata legata a una sedia…». Un atto di accusa Stefanishyna continua a parlare e il suo atto di accusa non è rivolto solo a Putin che «vuole il genocidio, che punta a cancellare l’Ucraina come nazione indipendente». L’indice è puntato anche contro il popolo russo: «Ognuno di quegli stupri, ognuna di quelle torture sta rivelando la vera faccia non solo di Putin ma anche dell’esercito russo, di ogni singolo soldato russo. E anche la popolazione russa è consapevole di quello che sta succedendo». Il ricordo di Liliana Segre Quando termina il suo racconto, Segre la ringrazia e ricorda: «Alla stazione di Milano c’è uno spazio dedicato alla memoria, è il binario 21 dal quale nel 1943, partivano i treni per i campi di concentramento. In questo luogo che custodisce ricordi di dolore e sofferenza campeggia una parola che oggi dobbiamo temere: indifferenza». Quindi la senatrice a vita aggiunge: «La sua testimonianza che oggi abbiamo ascoltato onorevole Stefanishyna, così come le immagini e le parole dei racconti di questa folle guerra, scuotono le nostre coscienze e ci impediscono l’indifferenza. La capacità di indignarci davanti alle violenze è la cifra della nostra umanità».
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TORINO. Tra fastidio e senso di colpa Claudio Marchisio sceglie la responsabilità e nei giorni carichi di pensieri, dopo l’ennesimo femminicidio, l’ex giocatore di Juve e nazionale ci mette la faccia, la sua, da bravo ragazzo: «Sembrare per bene non può essere un lasciapassare». Ha scritto su Instagram: «Il problema sono gli uomini». «È un dato oggettivo: 105 donne ammazzate da uomini. Tocca a noi dire basta, perché c’è un problema culturale e coinvolge tutti. Per questo ho messo il mio volto in quel post e il piede che c’è davanti sta a significare che va dato un calcio allo stereotipo della persona considerata per bene a priori». Molti non lo hanno capito. «Non ho la pretesa di essere accettato da tutti, però ho sentito l’urgenza di non sottrarmi. Sono autoironico, gioco con la mia bellezza, ma su certi temi sono rigoroso. Invece mi hanno accusato di superficialità: forse i social sono feticisti e lì basta vedere un piede per fraintendere». Riprovi, rifaccia la denuncia. «Penso all’uomo accusato della morte di Giulia, a quel classico “Chi se lo poteva immaginare?”. Probabilmente si poteva perché ho letto che i genitori lo vedevano aspettare il passaggio di lei per ore e altri hanno ricordato segni di ossessione. Nessuno ha detto nulla perché era percepito come bravo ragazzo, aveva una faccia come la mia, però si sentiva minacciato dai successi della ex. Va demolito lo schema». Come si fa? «Solo con l’educazione e l’attenzione. Pesando ogni parola. Ho due figli maschi, il più grande ha 14 anni e un giorno io sono la sua guida, quello dopo è uno sconosciuto. Non possiamo avere il controllo sulle loro vite ma dobbiamo mantenere la comunicazione e la partecipazione sempre. Pure quando sembrano non ascoltarci tengono in considerazione quello che diciamo». Ha parlato della morte di Giulia ai suoi figli? «Certo. Spiego che l’uomo ha una sua forza, una fisicità di cui è ben consapevole e che resta sempre un errore immaginare di usarla, anche per un attimo, per fermare, per rallentare, qualsiasi gesto di quel tipo implica sapere di poter prevaricare. Dico di stare attenti alle battute in chat: se un ragazzo o una ragazza scrivono qualcosa che può turbare è giusto farlo notare. Spero nella scuola, nello sport». Lei viene dal calcio: lo considera un mondo sessista? «È un mondo che cambia. La parte femminile, da quando ha spazio e ha ottenuto il professionismo, ha allargato lo sguardo. Le arbitre hanno obbligato a rivedere il repertorio anche se si torna ancora alla presunta uscita innocente che non lo è mai. Se c’è una guardalinee, il “ma stai a casa” esce». Si riferisce ai tifosi, i professionisti non parlano spesso con leggerezza? Certi commenti di Sarri, la frase infelice di Giuntoli per cui ha subito chiesto scusa. «La leggerezza viene ancora spontanea, però le scuse sincere sono importanti perché c’è immediatamente l’ammissione di uno sbaglio, la consapevolezza di doverlo evitare, per rispetto a noi stessi, perché siamo migliori di così». La nazionale di calcio spagnola ha vinto un Mondiale e non lo ha festeggiato per un bacio molesto che ha svelato una situazione problematica. Che reazione ha avuto davanti alle denunce delle calciatrici? «Wow. Non certo di entusiasmo, proprio di incredulità. Come si poteva accettare quel comportamento? Per fortuna c’è stata una reazione adeguata, con provvedimenti severi». Portanova, oggi alla Reggiana, in serie B è stato condannato in primo grado per stupro e ancora gioca. «E per casi così che ho postato quell’immagine, che ci ho messo la faccia. Portanova ha diritto di aspettare il giudizio definitivo, il calcio non può limitarsi all’idea del suo bravo ragazzo. Questa impalcatura deve venire giù».
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Elena GaiardoniNel giorno in cui la libertà profuma di mimosa e del suo inimitabile genere matriarcale, l'8 marzo, Mariastella Gelmini, capolista alle prossime elezioni comunali, cita Giorgio Gaber: «La libertà è partecipazione», elogiando il curriculum femminile di Forza Italia. E ringraziando il lavoro di molte politiche, soprattutto di Mara Carfagna, ex ministro alle Pari opportunità (dicastero cancellato dal Governo Renzi), attualmente portavoce del gruppo di Fi alla Camera e della deputata Daniela Santanchè. «Oggi Fi non ha problemi di quote rosa ma di quote azzurre, chiaro segnale di quanta partecipazione ci sia stata data. Questa è cultura. Ci tengo a questa parola, cultura, perché con Stefano Parisi stiamo lavorando a un grande progetto che lavori sul tessuto culturale di Milano: una valore di generazioni che donne e uomini hanno costruito e che dobbiamo incrementare con interventi specifici in modo particolare nelle periferie» ha detto Gelmini, aprendo il dibattito al Circolo della Stampa, insieme appunto a Carfagna e Santanchè dopo aver visitato il centro contro la violenza del Niguarda. Al tavolo Giulio Gallera e Valentina Aprea, assessori in Regione e Licia Ronzulli.Protagonisti due progetti di legge: uno depositato nel 2014 che prevede un fondo per le vittime della violenza contro le donne, vittime che spesso non possono far fronte alle cure mediche. Il secondo riguarda gli orfani di femminicidio, privati non solo della madre ma anche del padre, perché l'autore del delitto spesso si suicida oppure finisce in carcere. «Nel mio impegno politico sulle donne - spiega la Carfagna illustrando le proposte di legge - ho imparato che non bisogna mai abbassare la guardia. Trasversalità e continuità sono fondamentali, principi entrambi non osservati da Renzi. In questi giorni si aprirà a New York un summit sulla condizione femminile a cui l'Italia non partecipa». Proprio ieri spopolava su Twitter l'immagine di una signora con fumetto: «Dove è finito il ministero delle Pari opportunità?». Nessuno lo sa, forse si è perso nei boschi, verrebbe da dire. E oggi Cappuccetto Rosso non ha più quel colore, ma il cappuccetto è azzurro, perché l'impegno delle azzurre è da prima linea contro ogni lupo. «I nostri diritti insegnano che la politica ha un solo diktat: non avere paura. La paura è l'opposto della luce che vogliamo in questa città che ha spento le sue luci. Si entra quindi nel tema sicurezza - ha commentato la deputata azzurra Santanchè -. A Milano c'è una rete di telecamere pubbliche e private che, se unite, potrebbero fare delle nostre strade vie sicure, come non è stato durante l'amministrazione Pisapia. La grandezza di un popolo si misura dalla libertà della sua forza femminile». Più idee sono nate, tra cui quella della Ronzulli «di aprire uno sportello in Comune a cui le donne potranno accedere per esporre difficoltà e minacce». Donna non è solo sinonimo di «problema», ma di «risorsa» come ha ricordato l'assessore regionale all'Istruzione Aprea. «Expo è stata il progetto di Letizia Moratti, un sindaco donna da cui Milano ha avuto un'apertura politica e economica internazionale. Ritorno al termine cultura. Rileggiamo libri come Le italiane per apprendere dal nostro passato quanto può edificare il nostro futuro». La chiusura della mattinata è stata di Stefania Bartoccetti che ieri festeggiava i ventiquattro anni di Telefono Donna, dando dal Niguarda i primi aiuti a chi non sa che nessuna deve sfuggire al pericolo di non essere se stessa, autrice di bellezza.
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Cianfrusaglie, soprammobili, un posacenere. Li sposta, li accarezza, nella sua casa di Londra. Parla sulle note degli oggetti, Paula Hawkins, 43 anni, inglese nata in Zimbabwe e da un po' scrittrice adorata e milionaria. Il suo La ragazza del treno (Piemme) è tra i libri più venduti in Italia da oramai 60 settimane, è appena tornato in vetta in Inghilterra, l'attesissimo film con Emily Blunt è in uscita.E lei, Paula, la nuova papessa del noir domestico e del thriller psicologico, con un solo libro è già nel club degli scrittori più ricchi al mondo: undici milioni di copie vendute, già dieci milioni di euro in banca, secondo Forbes. Come J.K. Rowling, Stephen King e James Patterson. Sembra la lunga fama di Open di Agassi e Moehringer. In realtà, quella di Hawkins è un'impresa più ardua. Non la conosceva nessuno. Fare la giornalista non le bastava. Si era ridotta a romanzetti rosa su commissione cambiando nome, Amy Silver. "L'ultimo libro di quella serie ci avevo messo due anni a scriverlo, senza convinzione. Non ha venduto neanche mille copie. Un disastro", ricorda oggi con pesante sollievo. "Ho dovuto chiedere persino soldi a mio padre. Quante notti ho pensato di non farcela ". Poi l'ultimatum dell'agente: "È la tua ultima chance. Se fallisci pure questa, trovati un altro lavoro"."No. Ho scritto per sei mesi, senza sosta. Dicono che gli scrittori danno il meglio nelle difficoltà. È vero. Non avrei mai scritto in quel modo se non avessi avuto quella tensione, quel baratro così vicino"."C'è del voyeurismo vecchio stile. Mi piace molto immaginare le vite delle persone sui treni, come Rachel e gli altri pendolari del romanzo. E poi spiare le persone da un buco, da un finestrino o su Internet è qualcosa che piacerà sempre. Anche se oramai sui social network siamo così falsi, sembriamo tutti felici"."È un romanzo veloce. E scrivo semplice, "economico", dico io. Il che è perfetto per un genere commerciale. Inoltre, il lancio del film, a pochi mesi dal libro, ha certamente aiutato. Ci vuole fortuna, tanta. Il mio agente, Lizzy Kremer, mi ha seguita, consigliata. Come gli editor. Mi hanno modificato diverse parti, per renderle più accessibili"."Per me non è un problema. Mi piace ascoltare, guardare da un altro punto di vista. Per esempio, io sono contro la Brexit. Ma capisco le ragioni di chi ha votato per l'uscita dall'Europa, di tutti quelli che sono stati dimenticati dalle élites. Io vivo in un meraviglioso quartiere multiculturale a Londra e ne sono felice. Ma capisco che altrove l'integrazione non è così facile"."Molto. Ero depressa. Avevo addosso una pressione enorme. La cosa difficile era mantenere la disciplina per andare avanti. Nella Ragazza del treno e nella protagonista Rachel ho disseminato tutta la mia tristezza, la miseria di allora"."Sì. Non ho ancora deciso il titolo, ma parlerà di due gemelle del Nord dell'Inghilterra. Stavolta le pressioni sono differenti, così come le aspettative. Mi leggeranno tutti in modo diverso. E questo mi inquieta molto"."Sono molto più impegnata: presentazioni, tour, festival. Spero di non distrarmi troppo. Mi piace molto incontrare i lettori. Però sono un'introversa. La notorietà mi fa anche male. A volte, quando ho di fronte una folla ad ascoltarmi, preferirei essere da sola a casa, nella mia stanza"."Non sono sposata. Non ho figli. Sto bene così"."In questo momento c'è molto appetito per il genere. Questi thriller raccontati da donne sono molto più vicini alla quotidianità. A differenza dei detective dei vecchi noir, qui ci sono personaggi reali, estremamente empatici, in cui possiamo identificarci: vicini, colleghi, anche i criminali. Chissà, forse sogniamo di meno. Come nella Ragazza del treno, se sei donna ( sospira, ndr) è più facile che tu subisca una violenza in casa che fuori. Questa, purtroppo, è la realtà"."È un problema enorme, in Italia come in Inghilterra. Da noi oltre cinquanta donne all'anno vengono uccise dal proprio partner in quanto donne. I giornali ne parlano poco, se non in casi eccezionali. Ma per fortuna ci sono persone altrettanto eccezionali che ogni giorno lottano per rompere l'attitudine che porta a questo tipo di violenza"."Al sessismo. E alla disuguaglianza di genere, dal numero di donne in Parlamento alla spaventosa misoginia che trasuda nei social network. C'è tanto da fare: educare i bambini alla parità, pubblicare gli stipendi per far capire a tutti che noi donne guadagniamo di meno, evitare fiction tv che glorificano i cadaveri delle donne. Ci vorrà tempo, forza e tanta volontà per cambiare. Ma bisogna farlo. Leggi più severe servono a poco. Bisogna investire nelle nuove generazioni, far capire loro che un uomo può anche essere "sconfitto" da una donna libera, non c'è niente di male. Il sessismo non è solo un atteggiamento triviale. È qualcosa da estirpare. Il femminicidio nasce anche dal sessismo. Finché non ce ne rendiamo conto, non cambieremo mai la nostra società".
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ROMA. «Il dolore non finisce mai. Si trasforma negli anni. All’inizio è sconvolgente, lancinante, distruttivo. Poi si nutre del bisogno di ottenere giustizia e diventa più razionale, anche se continua a divorarti dentro. Io chiedo verità e giustizia da quasi 34 anni e ancora non l’ho ottenuta perché finora hanno voluto coprire l’assassino di mia sorella. Per questo spero che non vengano archiviate né l’inchiesta su Mario Vanacore né quella su Francesco Caracciolo Di Sarno. Io non smetterò mai di lottare».
Paola Cesaroni, 60 anni, non parla volentieri dell’omicidio della sorella Simonetta, che, rimasto senza soluzione da quel lontano 7 agosto 1990, è uno dei cold case più drammatici del nostro Paese. Ma stavolta, attraverso la sua avvocata Federica Mondani, racconta la sofferenza per il fatto che «ogni giorno io e la mia famiglia siamo spettatori di notizie sconcertanti che tengono viva la disperazione come fosse il primo giorno».
Da oltre tre decenni “via Poma”, l’elegante strada del quartiere Prati dove si trova il palazzotto (oggi diventato un bed and breakfast) all’interno del quale avvenne il delitto, è sinonimo di “giallo”, di omicidio senza colpevole. Simonetta, uccisa con 29 coltellate, lavorava negli uffici dell’Aiag, l’ente che gestiva gli ostelli della gioventù. «All’epoca non era diffusa la parola femminicidio, ma di questo si tratta. E sono convinta che c’è sempre tempo per la ricerca della verità. Per tutte le giovani ragazze ammazzate deve esserci sempre tempo. E anche per mia sorella».
Sono due i fascicoli aperti nel marzo 2022 dalla procura di Roma dopo la richiesta di nuove indagini sollecitate da Paola Cesaroni (il padre Claudio, tranviere, è morto, la mamma, Anna, casalinga è ormai anziana e molto malata) grazie agli esposti degli avvocati Federica Mondani e Giuseppe Falvo. Uno riguarda Mario Vanacore, figlio di Pietro, detto “Pietrino”, portiere dello stabile di via Poma, l’altro l’avvocato Francesco Caracciolo Di Sarno, all’epoca presidente dell’associazione Alberghi della Gioventù, morto nel 2016.
Nel caso di Vanacore un’informativa dei carabinieri della polizia giudiziaria della Procura lo inchioda come il responsabile, pur non evidenziando prove o indizi concreti, tanto che la pm Gianfederica Dito ha chiesto l’archiviazione. Ma anche per Caracciolo è stata richiesta l’archiviazione. E Paola Cesaroni si oppone con forza a entrambe le possibilità. Per quanto concerne Caracciolo, la trasmissione Quarto Grado, Retequattro, ha scoperto l’esistenza di una ventenne che 30 anni fa era stata abusata da Caracciolo.
«La donna, ormai ultracinquantenne - precisa Paola - ha confessato in Procura le molestie subite. Non aveva denunciato all’epoca dei fatti perché i suoi genitori lavoravano per Caracciolo e temeva che li licenziasse. Questa notizia ci ha riportato indietro di 34 anni, quando già dicevamo che quello di via Poma, di quelle palazzine, degli Ostelli, era un ambiente di dubbia moralità. È lì dentro che va cercato l’assassino, per questo il processo al fidanzato di mia sorella, Raniero Busco, prosciolto in via definitiva, ci aveva sempre lasciati perplessi».
Ma Paola non ha certezze granitiche e quindi spera che non vengano accantonate neppure le indagini su Mario Vanacore: «Mi chiedo come mai, se gli inquirenti credono in quella pista, non abbiano proceduto, attraverso altri mezzi investigativi, a trasformare la congettura in qualcosa di almeno indiziario, senza omissioni od errori come nel corso delle lunghe trascorse indagini. Voglio dire perché si sono basati solo sugli atti e non hanno fatto altro, tipo intercettazioni ambientali, telefoniche o perquisizioni?».
Nonostante tutte le incognite e i misteri di questa drammatica storia, Paola Cesaroni non si arrende: «Lo devo a mia sorella, uccisa all’età di 20 anni. Spero non si arrenda la Procura che rappresenta lo Stato».
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Roma - Gli ultimi fatti di cronaca parlano di un'emergenza senza precedenti. La violenza sulle donne assume contorni aberranti e inaspettati. E l'allarme sociale è dietro l'angolo. Poco importa se la fredda verità delle statistiche dice altro (secondo i dati Istat nei primi sei mesi dell'anno si sono consumati 60 omicidi di donne, mentre nel 2015 sono stati 128 e nel 2013 addirittura 179). L'impatto mediatico di queste ultime vicende fa capire che qualcosa si deve fare e subito. Come denuncia Mara Carfagna (Forza Italia), già ministro delle Pari opportunità nel quarto governo Berlusconi. Onorevole Carfagna si può parlare di emergenza? «Non si può. Ormai è un problema strutturale. Rosaria Lentini e Vania Vannucchi sono state barbaramente uccise e noi siamo qui a piangerle ma dobbiamo dire basta a tutto questo». Di questa drammatica situazione cosa la colpisce di più? «Rimango sorpresa quando il governo si limita a parlare di cabina di regia da attivare a settembre». Insomma per il governo non è proprio un'emergenza. «Non lo è mai stata. Il governo Renzi ci ha messo due anni per scegliere un responsabile delle Pari opportunità. Anzi non l'ha nemmeno scelto. Ha consegnato soltanto a maggio scorso la delega al ministro Boschi. Sembra che per questo governo la difesa della donna non sia una priorità. La strada da seguire non è questa. Non può essere questa». Cosa bisognerebbe fare? «Intanto bisognerebbe considerarla una priorità. Come abbiamo fatto noi quando eravamo al governo. Ricordo soltanto un paio di traguardi che abbiamo raggiunto allora, ma che non sono stati accompagnati da ulteriori passi in avanti da parte di chi è arrivato dopo di noi. Abbiamo fatto approvare una legge contro lo stalking e abbiamo aggiunto aggravanti contro i reati di violenza sessuale. Di fatto, insomma, abbiamo rafforzato la tutela pena contro questi reati». Da più parti si suggerisce che anche le campagne di sensibilizzazione potrebbero essere utili allo scopo. «Sicuramente sono utili noi le abbiamo promosse, ma oggi sono interrotte basti pensare che tante donne ignorano che c'è un numero per chiedere aiuto: il 1522. E soprattutto devono essere mirate ed efficaci. Noi abbiamo ospitato a Roma una Conferenza mondiale sul tema e abbiamo introdotto nelle scuole programmi e lezioni per far conoscere il tema della violenza sulle donne ai ragazzi». Cosa suggerisce a chi oggi può prendere delle decisioni in merito? «Di non rimandare queste decisioni settembre, innanzitutto. La battaglia contro la violenza sulle donne si combatte 365 giorni l'anno. Altrettanto importante è ripristinare poi i fondi per i centri antiviolenza (altra nostra conquista). E poi tutti devono fare la loro parte. Dai magistrati, alle istituzioni e al governo. Ognuno di noi è, infatti, soltanto un ingranaggio in questo complesso sistema ma non si deve fermare altrimenti tutto si inceppa».
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Il femminicidio di Giulia Cecchettin, la studentessa 22enne trovata morta sabato dopo essere scomparsa insieme all’ex fidanzato Filippo Turetta, ora indagato, ha riaperto l’ampia discussione pubblica sui femminicidi e su tutte le violenze subite dalle donne da parte degli uomini sui social newtork, sui giornali e in televisione. Una delle cose più condivise in questi giorni è un testo molto usato dalle attiviste femministe di varie parti del mondo, e in particolare nelle sue ultime frasi: «Se domani sono io, mamma, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima». Negli ultimi anni queste frasi sono state spesso scritte sui cartelloni delle manifestazioni di protesta del movimento femminista Ni una menos, nato in Argentina nel 2015, e della sua espressione italiana Non Una Di Meno (NUDM), oltre che in numerosi post online. È molto usata anche la variante «se domani non torno, brucia tutto», citata da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere del Veneto: «Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto». L’autrice del testo è Cristina Torres-Cáceres, un’architetta e attivista femminista peruviana. Nella sua versione originale in spagnolo tradotta dal Post il testo completo è: Se domani non rispondo alle tue telefonate, mamma. Se non ti dico che torno per cena. Se domani, mami, vedi che il taxi non arriva. Può darsi che io sia avvolta nelle lenzuola di un albergo, su una strada, o in un sacco nero (Mara, Micaela, Majo, Mariana). Può darsi cha sia in una valigia o abbandonata su una spiaggia (Emily, Shirley). Non spaventarti, mamma, se vedi che mi hanno pugnalata (Luz Marina). Non urlare se vedi che mi hanno trascinata (Arlette). Mammina, non piangere se ti dicono che mi hanno impalata (Lucía). Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, che era l’alcol nel mio sangue. Ti diranno che è stato per l’orario, perché ero da sola. Che quello psicopatico del mio ex aveva dei motivi, che lo avevo tradito, che ero una puttana. Ti diranno che ho vissuto, mamma, che mi ero permessa di volare troppo in alto in un mondo senz’aria. Ti giuro, mamma, che sono morta combattendo. Ti giuro, cara mamma, che ho urlato davvero forte mentre volavo. Si ricorderà di me, ma’, saprà che sarò stata io a rovinarlo, perché mi riconoscerà nel volto di tutte quelle che gli urleranno contro il mio nome. Perché so, mamma, che tu non ti arrenderai. Però, per quanto tu possa volerlo fare, non imbrigliare mia sorella. Non rinchiudere le mie cugine, non vietare niente alle tue nipoti. Non è colpa loro, mamma, così come non è stata nemmeno colpa mia. Sono loro, saranno sempre loro [ellos, gli uomini, ndt]. Lotta per le loro ali, visto che le mie me le hanno tagliate. Lotta perché siano libere e possano volare più in alto di me. Combatti perché possano urlare più forte di me. Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho fatto io. Mammina, non piangere sulle mie ceneri. Se domani sono io, mamma, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima. Torres-Cáceres aveva scritto il testo nel settembre del 2017, dopo il femminicidio di Mara Castilla, una studentessa di 19 anni uccisa a Puebla, in Messico, dall’autista di un servizio di noleggio con conducente a cui si era rivolta per tornare a casa dopo una serata con gli amici. Il nome di Castilla è uno di quelli che compaiono tra parentesi: sono tutti nomi di donne vittime di femminicidio. Nella versione originale il testo non ha un titolo, ma oggi è noto come “Se domani non torno” e se ne parla come di una poesia. «Dopo il femminicidio di Mara ho visto un post in cui una ragazza chiedeva a sua mamma di non fare niente, se le fosse successo qualcosa», racconta Torres-Cáceres, che non è una poeta e ha scritto “Se domani non torno” di getto, appuntandoselo sul proprio telefono mentre tornava dall’università su un autobus: «Così mi sono messa a pensare alla mia: mia mamma non avrebbe taciuto, avrebbe cominciato a dar fuoco a tutto se mi fosse successo qualcosa, e allora ho pensato a quello che le avrei detto se fossi stata io. È una cosa che sfortunatamente non suona estranea a nessuna, e probabilmente a cui tutte abbiamo pensato prima o poi: se fossi io, cosa direi a mia mamma? Nasce tutto da lì». Nei mesi successivi moltissime donne avevano condiviso e usato il testo di Torres-Cáceres nelle manifestazioni contro la violenza sulle donne, anche senza sapere chi ne fosse l’autrice, prima nei paesi sudamericani e successivamente anche in . «So da un po’ di tempo che il testo gira per il mondo, e mi sembra incredibile», continua Torres-Cáceres: «So che è arrivato in perché varie amiche mi hanno scritto per dirmelo, per chiedermi il permesso di usarlo o per raccontarmi che reazione aveva suscitato in loro. L’impatto che è riuscito ad avere su così tante persone continua a sembrarmi sorprendente». In Perù Torres-Cáceres ha partecipato attivamente a Ni una menos per diversi anni; attualmente lo fa «solo attraverso i social, per questioni di lavoro», ma continua a sentirsi parte del movimento femminista. In un post del 2018 aveva commentato la diffusione del suo testo dicendo che la emozionava aver scritto qualcosa in cui molte altre donne si riconoscevano pur non essendo una vera scrittrice: «Ma allo stesso tempo mi dispiace che sia per una cosa così triste. È un peccato che un testo così forte, dopo quasi un anno, sia ancora così attuale. C’è molto da fare, sorelle». Nell’attuale discussione pubblica sul femminicidio di Cecchettin il testo di Torres-Cáceres è stato ricondiviso e diffuso da molte donne e gruppi di donne che usano abitualmente i social network per parlare di questioni di genere, sessismo, patriarcato e femminismi e hanno decine di migliaia di follower: oltre agli account di Non Una Di Meno, l’hanno condiviso ad esempio Federica Fabrizio (@federippi su Instagram), Carlotta Vagnoli e Claudia Fauzia (@la.malafimmina). Il testo però poi è stato ripostato da molte altre persone. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Lu (@faida.acquifera) – Leggi anche: Un libro per provare a dare giustizia alla vittima di un femminicidio
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Il pescatore sessantatreenne di Castelvetrano Ernesto Favara, arrestato la vigilia di Natale per l'omicidio della moglie 29enne, era già sotto processo a Marsala per lesioni, minacce e maltrattamenti a danno della compagna uccisa
Il pescatore sessantatreenne di Castelvetrano Ernesto Favara, arrestato la vigilia di Natale per l'omicidio della giovane moglie Maria Amatuzzo, di 29 anni, è già sotto processo, davanti il Tribunale di Marsala, per lesioni, minacce e maltrattamenti in danno della stessa donna. I fatti contestati risalgono al 2021.
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Ha ucciso la moglie a martellate, poi ha chiamato la polizia. Si tratta di un pensionato che ha fatto scattare l’allarme, telefonando al 112 verso le 3 e mezza di notte tra domenica 25 e lunedì 26 ottobre.
Sul posto, un’abitazione privata in via Pola a Marina Centro, Rimini, è arrivata la squadra mobile, coordinata dal pm Luigi Sgambati, che si sta occupando degli accertamenti. L’anziano, che ha confessato, è sottoposto a interrogatorio..
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Lei, donna marocchina di 50 anni, musulmana credente ma non praticante, voleva essere libera di vivere la sua vita senza imposizioni: di camminare per strada senza il velo in testa, di salutare "all'occidentale", magari con un bacio sulla guancia, amici e conoscenti, di indossare jeans e di poter decidere da sola quando avere rapporti sessuali con il marito.Lui, marocchino, di 9 anni più grande, l'aveva sposata nel 1988 ma negli ultimi anni viveva la libertà della moglie come una vergogna, soprattutto di fronte agli uomini che, come lui, frequentavano la moschea. È per questo motivo, e perché lei avrebbe rifiutato di fare sesso con lui, che nel dicembre del 2014, nella casa di Mozzo (provincia di Bergamo) dove la coppia viveva, si è sfiorato l'ennesimo femminicidio: mentre la moglie davanti allo specchio si stava preparando per andare a lavorare, il marito l'aveva colpita con tre coltellate alla pancia, alla schiena e al petto. Lei era fortunatamente riuscita ad aprire una finestra e a chiedere aiuto, salvandosi così la vita.L'uomo, che in questi giorni deve rispondere di un'accusa di tentato omicidio davanti al Tribunale di Bergamo, non sarebbe sempre stato violento nei confronti della moglie: la loro vita coniugale era peggiorata da quando aveva cominciato a frequentare assiduamente la moschea. Da allora, per evitare il giudizio degli altri, aveva cominciato a insistere perché la sua compagna indossasse il velo e salutasse le donne velate che incontravano, che preparasse da mangiare per gli uomini della moschea, che ai figli (la coppia ne ha tre, due dei quali ancora minorenni) fosse impartita un'educazione musulmana. Il tentato omicidio, come spesso avviene nei casi di violenza coniugale, era stato preceduto da una serie di minacce. Sgozzando una pecora davanti alla figlia, l'uomo avrebbe detto alla ragazza: "La prossima sarà tua madre".
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I femminicidi riempiono i giornali, i femminicidi sono in calo. Due notizie entrambe vere, due notizie in apparente contrasto. Ma forse no. Dall'inizio dell'anno sono state 59 in Italia le donne uccise in quanto donne. In quanto cioè esseri più deboli, in quanto persone che noi uomini vorremmo intestarci e invece ci sfuggono, ci lasciano, ci tradiscono, ci dicono di no, ci smentiscono. Che fanno insomma quello che ogni persona di qualsiasi sesso ha diritto di fare: scegliere. Anche quello che a noi uomini non piace. Cinquantanove donne uccise per il più diabolico alias dell'amore: la gelosia. Cinquantanove donne uccise dagli uomini sono pur sempre cinquantanove di troppo. Eppure non sono di più che negli anni precedenti, malgrado la nostra percezione ci dica il contrario e ci faccia pensare a un'epidemia di misoginia. Proiettando il dato su tutto l'anno porterebbe a 136 vittime nel 2016. Ovvero lo stesso numero di donne uccise da uomini nel 2014. Appena qualcuna in più rispetto al 2015, quando le vittime dell'omicidio di genere furono 128. Ma meno rispetto al 2013 (179) e al 2012 (157). Se poi allarghiamo il raggio temporale di indagine il dato è ancora più evidente. Nel 2003 ci furono 0,65 massacrate per la colpa di essere donne libere ogni 100mila abitanti, mentre nel 2014 il dato è sceso a 0,47. Nessun negazionismo, si badi bene. Il fenomeno resta angosciante e ingiustificabile. Ma i numeri sono numeri. I femminicidi stanno lentamente diminuendo proprio nel momento in cui sembrano aumentare. Com'è possibile tutto ciò? Questo certamente deriva dal difetto di prospettiva a cui ci induce l'orrore di alcuni episodi che - vedi quello di Roma - per le modalità raccapriccianti dell'assassinio e per l'ambiente «normale» in cui è maturato, colpiscono ciascuno di noi più di altri casi borderline, liquidati come frutto di contesti malati. La colpa naturalmente è anche di noi giornalisti, per cui a dispetto degli slogan grillini uno non vale uno. E poi purtroppo c'è una cinica legge dell'informazione, quella in base alla quale ci sono filoni di notizie che fanno tendenza, come fossero tailleur: e nella primavera-estate 2016 il femminicidio va su tutto. Ma l'emergenza non è di oggi. L'emergenza c'è da sempre. Certe cose non iniziano a esistere solo perché diamo loro finalmente un nome buono per titoli e sommari. Certe cose abitano nelle nostre teste al di là degli slogan, perché per tanti uomini ancora è inaccettabile pensare che la donna non sia come un'auto che si registra al Pra con il proprio nome, e poi guai a chi te la tocca. L'emergenza non è di oggi, dunque. Epperò è bene che ci sia questa lieve miopia per quanto parzialmente falsa. È bene urlare qualche titolo, inventare slogan, fare reportage, anche a costo di sembrare allarmisti. Perché questo non guarirà gli uomini ammalati di gelosia, ma magari aiuterà qualche donna a individuare nei comportamenti del suo uomo geloso, del suo marito mollato, del suo ex insistente i semi di ciò che oggi chiamiamo femminicidio e che un tempo chiamavamo follia. Forse così quei diminuiranno ancora. Fino allo zero.
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Il momento più coinvolgente nella Marcia delle Panchine Rosse di ieri è arrivato davanti al Tribunale, quando i performer dell’Opificiodellarte hanno invitato tutti a muoversi, a seguire il ritmo e a dimostrare anche in questo modo la propria adesione alla lotta contro la violenza sulle donne. E' seguita la performance teatrale da parte degli studenti del Liceo Scientifico di Cossato, ispirata al monologo «Lo stupro» di Franca Rame. Prima il centinaio di studenti arrivati da Bona, Liceo Artistico e Scientifico aveva assistito all’inaugurazione della panchina davanti alla Provincia voluta dai sindacati. «Il nostro impegno vuol essere teso a contrastare la cultura della violenza contro le donne e formare ragazze e ragazzi consapevoli che l’amore non è controllo, non è possesso o violenza ma libertà e spensieratezza – hanno spiegato Daniele Mason, Elena Ugazio e Alessandra Sitzia -. Abbiamo scelto l’opera realizzata da Francesca Palma che ben simboleggia questo pensiero, rappresentando una donna che piange con le mani posate sul corpo che aiutano ad evocare la violenza subita. I corpi dei riquadri sono altre fotografie di donne soggette a violenze, il nastro adesivo simboleggia i cerotti usati per stigmatizzare il dolore e di nascondere le ferite». Tra gli interventi particolarmente sentito quello del presidente della Provincia Emanuela Ramella, che ha chiesto un applauso per il dipendente, ora in pensione, Fabrizio Preti, padre di Erika, vittima di femminicidio, che ha accompagnato tutto il corteo per le vie del centro cittadino. Fino al giardino del Fondo Tempia, dove la presidente Simona Tempia ha inaugurato la seconda panchina. «Da mesi – ha detto - avevamo in mente di dare una testimonianza anche nel giardino della nostra sede di quanto sia importante sostenere la causa femminile anche su questo fronte – ha spiegato -. Mai come in questi giorni se ne sta parlando, con il dolore di un’ennesima tragedia: se anche solo una persona, leggendo il cartellino che sarà accanto alla panchina, trovasse una via per ottenere aiuto, sarebbe un successo. Anche se il vero successo sarebbe arrivare a una società in cui questo aiuto non sia più necessario». Il tempo di attraversare via Marconi e davanti al palazzo di giustizia terza inaugurazione, per la panchina voluta dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati. «Questo è forse il luogo in cui più mancava una panchina rossa – ha spiegato la presidente Erica Vallera - che io vedo come un promemoria. Dove mettiamo i post it per ricordarci le cose importanti? Io li attacco al frigo così a forza di leggerli me li ricordo. Questa panchina è un promemoria per tutti ma soprattutto per gli operatori della giustizia, per tutto quello che essa rappresenta. Ogni giorno prima di entrare nelle aule di giustizia serve a tutti noi».
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Lucia Caiazza non è morta per le conseguenze di un incidente stradale, ma per i traumi dovuti ai calci e pugni del compagno. La 52enne è stata picchiata a morte ed è deceduta lo scorso 14 maggio all’ospedale di Frattamaggiore (Napoli), dov’era arrivata due giorni prima in preda a forti dolori all’addome. La causa è stata una lacerazione traumatica della milza, dovuta alle percosse dell’uomo. Le indagini dei Carabinieri della stazione di Casavatore hanno scoperto che la vera causa della lacerazione traumatica della milza, che ha ucciso la donna, sono state le lesioni mortali provocate dal compagno. Inizialmente il decesso venne messo in relazione a un incidente stradale, avvenuto l’11 aprile, mentre Caiazza era in auto con la sorella. Il medico di base al quale la donna (che non denunciò mai le violenze) si era rivolta a causa dei dolori aveva ipotizzato in un primo momento che si trattasse di calcoli renali, invece, anche alla luce dell’esame autoptico, è emerso che il decesso è riconducibile alla lacerazione traumatica della milza. Il gip del Tribunale di Napoli Nord, accogliendo l’ipotesi e la richiesta della Procura aversana, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’uomo, un 47enne residente ad Arzano (Napoli), per omicidio preterintenzionale. L’ordinanza è stata eseguita questa mattina dai Carabinieri della stazione di Casavatore. La dinamica dei fatti è stata ricostruita dagli investigatori attraverso intercettazioni ambientali e telefoniche e anche attraverso le dichiarazioni persone informate sui fatti.
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E' stata colpita con due coltellate, una alla schiena e una dietro l'orecchio sinistro Nadia Zanatta, la donna di 57 uccisa ieri dal marito, Antonino Santangelo, 64 anni, nella loro abitazione, in via Niella a Savona. L'uomo poi si è ucciso lanciandosi da una finestra dell'appartamento, al quinto piano di una palazzina. L'uomo ha vegliato per ore la moglie: dopo averla uccisa ha avvolto il corpo in un tappeto e lo ha adagiato sul letto matrimoniale. Così lo hanno trovato i poliziotti, entrati in casa con l'aiuto dei vigili del fuoco. Gli agenti qui hanno trovato anche un indumento maschile macchiato di sangue e tracce ematiche sono state rinvenuti anche nella camera dei figli. A innescare il femminicidio - suicidio sarebbe stata la fine del loro rapporto al quale l'uomo non voleva rassegnarsi. Santangelo, agente di commercio in pensione, ha lasciato sul tavolo della cucina un messaggio per i figli in cui ha scritto "Raggiungo la mamma". Al momento, però, in base alle testimonianze raccolte, non c'erano evidenze di un rapporto in crisi. L'omicidio suicidio ha sorpreso amici e parenti. Chi conosce la coppia ha raccontato che Antonino accompagnava tutti i giorni la moglie al lavoro, in Comune a Savona, insieme al loro cane, un pastore maremmano. Intanto proseguono le indagini della Squadra mobile di Savona. Non è chiaro quando sia avvenuto l'omicidio e la risposta arriverà dalla autopsia a cui verrà sottoposto anche il corpo dell'uomo. Non è escluso che il delitto possa essere avvenuto addirittura il giorno prima e che quindi Santangelo abbia vegliato la moglie per almeno un giorno. L'uomo si è suicidato nel pomeriggio di ieri, intorno alle 15.30. A dare l'allarme è stata una vicina di casa che, dopo aver sentito un tonfo provenire dal cortile, si è affacciata a una finestra è ha visto il corpo dell'uomo. Il Comune di Savona ha esposto la bandiera a mezz'asta e sospeso per tutta la giornata le attività istituzionali. "Siamo tutti sconvolti da questa immane tragedia che lascia da soli due giovani e che ha scioccato l'amministrazione comunale e tutta la città. Il rammarico di tutti è di non aver saputo cogliere segnali di disagio per poter essere d'aiuto", dice il sindaco Marco Russo. Gli sportelli dei Servizi Demografici e dei Tributi, dove lavorava Nadia Zanatta, sono rimasti chiusi al pubblico.
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Elena Gaiardoni Grazie a Jo Squillo il «Muro della bambole» di via De Amicis diventa un film documentario di 40 minuti, presentato con successo al festival del cinema di Roma. «The wall of dolls - Il muro delle bambole contro il femminicidio» verrà proiettato allo spazio Oberdan venerdì alle 18.45 nella sala Alda Merini, per ricordare la giornata mondiale contro la violenza sulla donna. Durante la serata il Comune di Milano e l'associazione «Fermati Otello» lanceranno l'iniziativa: «Il muro delle bambole per ogni Municipio di Milano». Non è un caso che la parola wall, muro, sia associata alla parola pink, rosa, come insegnano i Pink Floyd nel loro successo più riuscito. La muraglia più forte che l'umanità abbia mai eretto è coperta di sangue rosa, il sangue delle donne, che per varcare l'ostacolo che impedisce loro la libertà perdono la vita. Bambole di ogni dimensione e colore sono state appese allo schermo di mattoni e cemento in via De Amicis: vi stanno inchiodate, come ogni tre giorni, questa è la statistica, una donna subisce violenza. Sul grande schermo di Jo Squillo parlano donne come Lucia Annibali, l'avvocato sfigurata dall'acido da un uomo mandato dal suo ex fidanzato. Proprio stasera su Rai1 andrà in onda Io ci sono, con Cristina Capotondi, il film che racconta la storia di Lucia. «Il muro delle bambole sta diventando uno dei luoghi più fotografati di questa città, impegnata a contrastare i soprusi contro la dignità della donna su vari fronti» ha detto l'assessore alle Politiche produttive Cristina Tajani. Arte e creatività sono indispensabili per sensibilizzare le coscienze e cercare di comprendere la rabbia e l'odio che l'uomo sviluppa verso l'individuo più diverso, il vero diverso da lui, la donna. «Ottanta casi di femminicidio dall'inizio dell'anno - ha dichiarato Angelica Vasile, presidente della commissione politiche sociali - un numero che ci spinge ad avviare un'educazione fin dalle scuole». Saranno proprio le scuole ad essere presenti venerdì. I muri vanno abbattuti fin dalla più tenera età. Per Rosaria Iardino, presidente di Donne in rete onlus «è un orgoglio che riprendano il nostro muro delle bambole in altre città, come Bologna e Roma». «Il nostro prossimo passo - ha annunciato Francesca Savoldini dell'associazione Fermati Otello - sarà di portare questo documentario all'interno delle classi». Perché Milano «deve essere in prima linea in questa battaglia, deve assumersi la responsabilità di rappresentare l'inizio di una città movimento». Se lo è augurato Daria Colombo, delegata del sindaco per le pari opportunità. A Jo Squillo è stata consegnata una bambola da Marinella Rognoni, presidente dell'Udi (Unione donne italiane) di Quarto Oggiaro.
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Due famiglie, una all'oscuro dell'altra. Aveva una doppia vita Alessandro Impagnatiello, l'uomo che ha ucciso a coltellate e ha poi tentato di bruciare il corpo di Giulia Tramontano, la compagna incinta di sette mesi trovata morta in un terreno a Senago. Ed era stata la fidanzata "parallela" di Impagnatiello, una ragazza - sua collega di lavoro - che ha vissuto una relazione col barman rimanendo all'oscuro della convivenza ufficiale a Senago, e che aveva interrotto pochi mesi fa la sua gravidanza, a farla emergere.
Lei, stanca delle bugie, ha cercato e ottenuto con forza un incontro con Giulia per capire la verità. Perché lui le faceva credere che quella relazione era finita, screditava Tramontano (per esempio dicendo che aveva problemi mentali), parlava male di lei e gettava ombre sulla sua gravidanza. Tutto per cercare di continuare a tenere in piedi la sua doppia vita..
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È veramente doloroso pensare agli ultimi momenti di Saman Abbas, bellissima ragazza diciottenne pachistana, mentre difende con la forza della disperazione quella sua libertà, che si era conquistata da sola, frequentando le nostre scuole e i ragazzi della sua età. Una libertà, la sua, pagata a caro prezzo. Per averla, si era allontanata e contrapposta alla cultura tribale, misogina e sessista, che dominava nella sua famiglia, madre compresa, e che ha reso i suoi familiari degli assassini.
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Niente giustifichi un femminicidio. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha voluto commentare, sul suo profilo Facebook le ultime sentenze riguardanti casi di violenza sulle donne, spesso culminate nella morte delle vittime. " Nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso, può giusticiare o attenuare la gravità di un femminicidio ", scrive il capo dell'esecutivo giallo-verde. Che ha aggiunto: " Le sentenze dei giudici si possono discutere. Anzi, in tutte le democrazie avanzate il dibattito pubblico si nutre anche di questa discussione. L'importante è il rispetto dei ruoli e, in particolare, la tutela dell'autonomia della magistratura ". " Negli ultimi giorni ", ha continuato Conte, " sui giornali, abbiamo letto di sentenze per episodi di femminicidio, nelle quali è stata tirata in ballo una presunta reazione 'emotiva' e la relativa intensità, ai fini di un'attenuazione della pena. Si è fatto riferimento a una 'tempesta emotiva', a un sentimento 'molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile'. In realtà, per cogliere appieno e criticare il significato di una sentenza occorrerebbe una specifica competenza tecnica. Ma vi è un aspetto di più ampia portata culturale, che riguarda il dibattitgo pubblico e su cui la forza politica può e anzi deve legittimamente intervenire ".
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Chimamanda Ngozi Adichie racconta che all’aeroporto di Roma l’addetto al controllo dei documenti, dopo aver visto il suo passaporto nigeriano, l’ha trattata «come se stessi mentendo, ancora prima che dicessi qualcosa»: era «decisamente freddo e poco amichevole», e le ha chiesto di vedere il suo biglietto di ritorno negli Stati Uniti. Adichie considera il comportamento dei funzionari aeroportuali come un indicatore dell’accoglienza riservata alle persone con un passaporto come il suo nei paesi europei – «probabilmente dovrei scriverci un libro, sul viaggiare con un passaporto nigeriano» – e l’ non ha fatto una bella figura. Anche in Danimarca le cose erano andate allo stesso modo e l’ipotesi di Adichie è che sia successo perché in entrambi i paesi si fa un’associazione immediata tra “nigeriana” e “prostituta”. «Io ho una posizione di privilegio quando si parla di classe. Non per quanto riguarda il genere e il colore della pelle. So cosa vuol dire fare parte della “classe degli oppressori” in molti modi. Ma la cosa interessante di arrivare in oggi è che non avevo il privilegio legato alla mia classe sociale perché al funzionario dell’aeroporto non importava. Il mio passaporto dimostra quanto spesso io viaggi; a lui importava solo che io fossi nigeriana, cosa che per lui significava una sola cosa specifica». Adichie racconta questo aneddoto a Mantova, di fronte a una grande platea al “Festivaletteratura” che vi si tiene ogni anno (per la maggior parte persone oltre i cinquant’anni, come nella maggior parte degli incontri di questo tipo: ma anche molti giovani, almeno tre dei quali neri), rispondendo a una domanda sulla differenza tra integrazione culturale e inclusione, e sul razzismo. Ha un completo gonna e camicetta nero con alcuni dettagli in verde chiaro e bianco, sopra al ginocchio, che lascia le spalle scoperte; sandali con il tacco alto, azzurri e pitonati; niente rossetto e capelli sciolti, voluminosi, tutti a destra. Gonna e camicetta sono di Gozel Green, un marchio nigeriano fondato da due sorelle gemelle: lo spiega il profilo Instagram di Adichie – gestito dalle sue nipoti – con cui la scrittrice dà informazioni sui suoi abiti, facendo pubblicità alla moda del suo paese. (Festivaletteratura) L’evento serale del Festivaletteratura dedicato ad Adichie, con Michela Murgia che la intervista, è tra i più attesi dell’edizione di quest’anno. Prima c’è una conferenza stampa con un ristretto gruppo di giornalisti: lei arriva un po’ in ritardo e stanca perché il suo volo da Washington non era puntuale, ma risponde con generosità alle domande anche se non vuole che le si facciano fotografie. Ci sono tre uomini e dieci donne tra i giornalisti e le domande sono quasi tutte sul femminismo, la ragione principale per cui dal 2013 si parla spesso di Adichie. Prima del suo arrivo una delle giornaliste – che ha cresciuto sua figlia senza imporle modelli femminili, e infatti ora fa un «un lavoro molto da uomo», occupandosi di manutenzione delle antenne – commenta che i libri di Adichie sul femminismo non dicono nulla di nuovo e si domanda perché abbia tanto successo tra le giovani donne. Per chi vive fuori dalla bolla per cui il femminismo è una cosa attuale, Adichie, che in questi giorni compie 40 anni, è la scrittrice che dopo aver tenuto una conferenza TED intitolata Dovremmo essere tutti femministi è finita in una canzone di Beyoncé, “Flawless”, e su una maglietta di Dior da 550 euro. È diventata un’icona femminista e un viso molto noto sui giornali di tutto il mondo, arrivando anche a fare da testimonial per una linea di cosmetici britannica, ma era già molto famosa nel mondo dei libri per i suoi tre romanzi e i suoi racconti. Parla di diritti delle donne, differenze tra i generi ed educazione delle bambine in modo divulgativo e narrativo, senza usare la terminologia degli accademici che si occupano dei cosiddetti “gender studies”, e per questa ragione i suoi messaggi sono molto accessibili. Lo ha raccontato Giulia Siviero del Post e lo pensa la storica di Harvard Phyllis Thompson, che in un’occasione ha detto a BBC che fa leggere a tutti i suoi studenti Dovremmo essere tutti femministi (che è diventato anche un libricino, così come la lettera su come educare una bambina femminista Cara Ijeawele) e che anche se Adichie non dice nulla di nuovo lo fa in un modo che la rende «straordinariamente influente». Per chi sapeva già queste cose, ma non conosce Adichie come scrittrice di narrativa, invece, lei ha scritto tre romanzi e una raccolta di racconti, Quella cosa intorno al collo, che è l’ultimo dei suoi libri usciti in italiano, per Einaudi come gli altri. Il suo romanzo di esordio si intitola L’ibisco viola e parla di una ragazza nigeriana di 15 anni, di etnia Igbo come Adichie, che scopre com’è la vita lontano dall’estremismo religioso (cattolico) di suo padre. Il suo secondo romanzo, Metà di un sole giallo, è ambientato negli anni Sessanta e racconta la storia di due sorelle della borghesia nigeriana Igbo prima e durante la Guerra del Biafra. Il suo terzo romanzo invece è Americanah: è ambientato tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, sia in Nigeria che negli Stati Uniti, e oltre a essere una storia d’amore racconta cosa significhi essere una donna nera africana in America, dove Adichie vive per gran parte dell’anno. I suoi romanzi hanno avuto un grande successo in tutto il mondo, e in Nigeria in modo particolare. L’editore nigeriano di Adichie dice che la vera misura del successo editoriale nel paese è se un libro venga contraffatto o meno in Cina: i romanzi della scrittrice sono tra i libri che più di tutti vengono diffusi in questo modo, insieme alla Bibbia e ai libri di un predicatore cristiano americano. I diritti cinematografici di Americanah sono stati acquistati per farne un film con Lupita Nyong’o e David Oyelowo (che era Martin Luther King in Selma), mentre da Metà di un sole giallo è stato fatto un film, che in non è uscito, con Chiwetel Ejiofor (il protagonista in 12 anni schiavo), Thandie Newton (Maeve in Westworld) e John Boyega (Finn in Star Wars: Il risveglio della Forza). Per chi infine si domanda come si pronunci, “Chimamanda Ngozi Adichie”: così, quasi come si scrive. Invece “Igbo”, la parola che indica una delle tre etnie principali della Nigeria e la sua lingua, si pronuncia senza dire la “g”, un po’ come se di “b” ce ne fossero una e mezzo. Adichie è carismatica e divertente. Quando le domande le vengono poste in quel modo goffo che mostra come in non ci sia una grande abitudine a parlare con gli intellettuali neri o comunque non europei, risponde a tono, ma anche dimostrando pazienza. Durante la conferenza stampa la giornalista madre dell’antennista le fa una domanda in cui dice «ci sono dei temi del femminismo che cozzano con la cultura africana da cui lei proviene». Adichie risponde «mi pare che ce ne siano che cozzano anche contro la cultura tradizionale italiana». Gli altri giornalisti ridono, quella che aveva fatto la domanda commenta con un «dipende». Poi Adichie, che mostra di essere informata sul problema italiano della violenza sulle donne, spiega che le discriminazioni sessuali e i modelli di genere imposti a bambine e bambini esistono in tutto il mondo. Pensa che dipendano più dalle religioni, sia dal cristianesimo che dall’Islam, che dalle culture; che interpretando il Corano e la Bibbia si può dire praticamente qualsiasi cosa. Si domanda anche se possa esistere un femminismo cristiano. Adichie è cresciuta in una famiglia cattolica, e gli Igbo sono per la stragrande maggioranza cristiani: forse perché in quando si parla di immigrazione si parla quasi sempre di Islam, però, le viene fatta una domanda sull’hijab e su quale sia la sua posizione di femminista su quelle tradizioni che riguardano le donne che non sono condivise dalle persone di origine europea. Adichie dice che «è facile avere un atteggiamento paternalistico nei confronti delle culture che non si capiscono», e di rispettare le singole donne che scelgono di mettere il velo per le loro convinzioni e non perché sono costrette. Che prima di occuparci del velo, dovremmo preoccuparci del femminicidio. Aggiunge anche che secondo lei quando in si parla del velo, in realtà si sta parlando dell’Islam, non delle donne, e che questo succede perché esiste «un disagio europeo nei confronti dell’Islam, una paura dell’Islam». Una paura comprensibile perché «gli esseri umani sono conservatori» e «hanno paura del cambiamento». Un’altra domanda è come può fare una persona bianca, in particolare europea, a interagire con le persone africane o di origine africana, sapendo molto poco sulle loro culture e sulla storia del loro paese ma avendo buone intenzioni e sincere curiosità, senza mostrarsi insensibile o prevenuta. Molti personaggi bianchi dei suoi libri – i fidanzati bianchi del racconto Quella cosa intorno al collo e di Americanah, a volte Richard di Metà di un sole giallo – hanno proprio questo problema. Prima di rispondere Adichie chiede quali siano i paesi da cui arrivano più persone in : non sappiamo dirglielo con precisione, ma sono i paesi dell’Africa occidentale (tra cui la Nigeria) e il Bangladesh, mentre per quanto riguarda gli stranieri residenti in le comunità più popolose sono quella rumena, quella albanese e quella marocchina. Poi consiglia: «Fai domande e semplicemente ascolta. L’ignoranza non è una cosa cattiva, siamo tutti ignoranti su qualcosa». E spiega: «Il sentimento di ostilità che provano alcune persone quando hanno a che fare con i bianchi del paese in cui sono andati a vivere dipende dal senso di superiorità e dall’arroganza che questi mostrano». Bisogna anche evitare l’atteggiamento di chi pensa «mi dispiace tanto per il fatto che vieni da quel terribile paese africano», consiglia. Per imparare qualcosa sui paesi africani – e riuscire a distinguerli, tra le altre cose – Adichie suggerisce di leggere giornali africani ma anche di seguire blog (un esempio), canali su YouTube e profili Instagram di artisti e musicisti africani. Le chiedo anche di consigliare altri scrittori e fa il nome del somalo Diriye Osman, che vive a Londra e parla soprattutto delle esperienze dei somali omosessuali, in Africa e nel Regno Unito. Durante la conversazione con Murgia, Adichie torna a parlare di femminismo, in particolare dei canoni di bellezza, della moda e dei cosmetici, anche perché in Dovremmo essere tutti femministi lei si definisce – scherzando, come fa spesso nei suoi discorsi – una «Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini». «In verità mi interesso anche di altre cose», ci tiene a precisare, e infatti il suo ultimo articolo pubblicato sul New Yorker parla di Adolf Hitler e di come da bambina avesse letto Memorie del Terzo Reich dell’architetto nazista Albert Speer. Si capisce che nonostante le sue rivendicate convinzioni femministe non debba essere facile essere diventata quel tipo di persona famosa da cui ci si aspetta che parli sempre dello stesso tema. Che in le si facciano domande solo a quel proposito è più comprensibile che altrove: non c’è nessun personaggio davvero famoso e sotto una certa età che si sia dichiarato femminista, come è successo in altri paesi (anche se Chiara Ferragni ha indossato la maglietta di Dior e ne ha fatta una sua, non ha mai preso posizione su questioni femministe) e certe discussioni rimangono limitate a gruppi su Facebook e blog di ragazze. Un’ultima cosa che non si può non dire di Adichie è che ha un sorriso illuminante ed è bellissima. Durante l’intervista Murgia le fa una domanda sulla lingua e sul sesso, per sapere quale sia la lingua dell’intimità per lei: «Hai mai fatto l’amore in igbo?». Adichie è reticente, ma la sua risposta sembra più un no che un sì, perché certe parole in igbo non esistono o sono troppo volgari per essere usate in certi contesti. «Le avrei detto che l’igbo io lo parlo», commenta un uomo con gli amici.
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Il primo ministro croato Andrej Plenkovic, di centrodestra, ha annunciato che nei prossimi giorni il suo governo presenterà in parlamento una legge per emendare il codice penale e introdurre un nuovo reato, quello di femminicidio. Il reato, che nelle intenzioni di Plenkovic dovrebbe entrare in vigore all’inizio del 2024, prevederà pene di minimo 10 anni; verranno inoltre aumentate le pene per i casi di stupro e per tutti i casi di violenza legati al genere. La Croazia diventerà così il terzo paese europeo a introdurre un reato specifico per i casi di femminicidio, dopo Cipro e Malta. In invece non c’è una vera e propria legge contro il femminicidio, ma nel corso degli ultimi anni sono state introdotte diverse norme per contrastare la violenza sulle donne: l’ultima è contenuta in un disegno di legge presentato a giugno dal governo, ma che deve ancora essere discusso e approvato dal parlamento. Va specificato però che in per il reato di omicidio volontario la pena minima è di 21 anni, mentre in Croazia le pene partono da 5 anni.
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Alle 19 il corteo in piazza Santissima Annunziata a Firenze organizzato dal movimento «Non una di meno»: «Portate tutto quello che può fare rumore». Sabato alle 12 il presidio in piazza Signoria «Di fronte alla violenza non servono i minuti di silenzio, bisogna fare più rumore, essere più visibili, più presenti». È la denuncia-appello che lancia il movimento Non una di meno di Firenze, che dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin convoca tutte e tutti alle 19 per un corteo con partenza da piazza SS. Annunziata in cui si chiede di «portare tutto quello che può fare rumore: tamburi, strumenti, perfino pentole». «La violenza è un fenomeno strutturale e i numeri parlano chiaro. Esplode il desiderio di rispondere a quello che sta succedendo – ha detto intervistata a Controradio Isabella Bruni di Numd – sentiamo l’esigenza di esprimere la nostra rabbia in un momento di condivisione che vede nella pratica delle passeggiate anche un simbolo di riappropriazione degli spazi, della notte, che si oppongono alla narrazione del lupo e cappuccetto rosso e dell’attribuzione di responsabilità alla donna per l’essere vittima». Nudm tornerà in piazza anche il 25 novembre prossimo, Giornata internazionale per l’eradicazione della violenza contro le donne, con due manifestazioni nazionali a Roma e Messina: «Da Firenze sono già stati organizzati 2 pullman, ma le iscrizioni sono ancora aperte», spiegano. LEGGI ANCHE Femminicidi, i simboli sono il passato «Sto pensando di partecipare a più di una delle manifestazioni» contro la violenza sulle donne «perché io credo che sia importante la presenza delle istituzioni a queste manifestazioni anche spontanee. Sono iniziative che danno il senso di una reazione eccezionale della società civile che non può più assistere inerte a quello che si consuma ogni giorno nel nostro Paese. Siamo al fianco dei manifestanti, sabato realizzeremo un flash mob in piazza della Signoria (ore 12, piazza della Signoria), cercheremo di essere presenti in tutte le occasioni». Lo ha dichiarato il sindaco di Firenze Dario Nardella, a margine di una conferenza stampa a Palazzo Vecchio, a proposito della morte di Giulia Cecchettin. «Mi piace l'idea delle manifestazioni rumorose, partita da Padova, perché il silenzio non basta più per quanto il silenzio possa esser associato al dolore, al cordoglio, alla sofferenza - ha aggiunto -. Non basta più l'irritazione, la rabbia. Occorre anche agire: auspico che la proposta di Schlein di avere una legge che sia a 360 gradi orientata sul tema della prevenzione verso tutte le forme di violenza di genere possa essere raccolta dal Parlamento e dal governo con un'iniziativa bipartisan». La proposta del Governo di introdurre un'ora di lezione sessuale a scuola in risposta ai femminicidi «può essere una strada, però l'importante è che non ci si limiti a misure spot, ci vuole un piano complessivo che tocchi la scuola, la società civile, il mondo del lavoro perché il problema non è solo la scuola», continua il sindaco di Firenze, Dario Nardella. «Ognuno deve fare la sua parte: le istituzioni, le famiglie, il mondo del lavoro, la scuola, perché il problema è davvero trasversale e diffuso, e speriamo che almeno questa volta la morte della giovane Giulia serva davvero a qualcosa e non al solito fuoco di paglia di poca durata che poi ci fa ripiombare nell'ordinaria follia dei femminicidi», ha aggiunto Nardella.
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Fratelli d'Italia chiede lo scrutinio segreto nel voto sul Regolamento e al Senato non passa l'emendamento della senatrice cinquestelle Alessandra Maiorino che chiedeva di adottare il linguaggio di genere nella comunicazione istituzionale dell'aula. La proposta che chiedeva l'introduzione di un "linguaggio inclusivo" nel Regolamento ha ottenuto 152 voti favorevoli che però non sono stati sufficienti a raggiungere la maggioranza assoluta necessaria per questa votazione. E subito si è scatenata la protesta anche di chi chiedeva che si ripetesse il voto una seconda volta. La presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati taglia corto: "A me sembrano tutte cose considerazioni pretestuose - ha detto Casellati -. Bisogna accettare che in Parlamento non si rifà una votazione perché il risultato non piace. Questa è una cosa inaccettabile". Questo era il senso del'emendamento: "Il Consiglio di presidenza stabilisce i criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell'attività dell'amministrazione sia assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l'adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l'utilizzo di un unico genere nell'identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne". Insorge il M5S. "Al Senato oggi si è persa una grande occasione per rendere inclusivo e paritario il linguaggio istituzionale con la mancata approvazione dell'emendamento Maiorino al regolamento che aveva lo scopo di aprire all'uso della distinzione di genere nel linguaggio delle comunicazioni istituzionali e nel Regolamento. FdI lo ha ritenuto una questione 'etica e di coscienza', chiedendo il voto segreto che la presidente Casellati ha prontamente concesso. È evidente la misoginia di chi ha votato contro rifiutando l'utilizzo del femminile e confermando così l'imposizione del solo maschile. Una vergogna a cui si dovrà porre rimedio nella prossima legislatura": scrivono in una nota le parlamentari e i parlamentari del Movimento del gruppo Pari opportunità. E c'è chi lo interpreta immediatamente come un fosco presagio. "Se questo è l'anticipo del nuovo Parlamento - scrive in un tweet la senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti del Pd -, abbiamo un motivo in più per lottare con forza. La nostra Italia crede nell'eguaglianza". "La destra chiede il voto segreto per affossare l'emendamento per introdurre nel Regolamento del Senato la parità di genere nel linguaggio ufficiale. Questa è la destra reazionaria che vuole guidare il Paese: per loro le donne non esistono neanche nel linguaggio". Così su Twitter la presidente dei senatori del Pd Simona Malpezzi. E Anna Rossomando (Pd): "E' evidente che di parità di genere non ne vogliono sentire neanche parlare. O con il loro oscurantismo o con noi. La scelta è tutta qui". Anche la ministra alle Pari opportunità giudica grave quel che è accaduto oggi in Senato. "L'ennesimo esempio di come ci si riesca a sottrarre a comuni responsabilità verso il Paese pensando che le cittadine e i cittadini non vedano e non sappiano mai - dice Bonetti -. Realizzare la parità tra donne e uomini è creare sviluppo, è crescita, è democrazia per il nostro paese. È stato ed è l'impegno del presidente Draghi e del governo". Ma il commento più duro è quello di Laura Boldrini, deputata Pd e presidente del comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo. Boldrini accusa direttamente il partito di Giorgia Meloni: "Oggi un altro colpo basso inferto alle donne: mettere al bando l'uso del genere femminile quando si tratta di ruoli apicali, vuol dire fare una ulteriore discriminazione ai danni delle donne". E la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio, dice: "I nodi vengono al pettine. Il linguaggio è un fattore fondamentale di parità. Verbalizzare la differenza vuol dire riconoscerla, negarla vuol dire chiedere alle donne l'omologazione a modelli maschili. Il ruolo declinato al maschile non è neutro, è semplicemente maschile e nega la differenza. Impedire alle donne di essere riconosciute nel ruolo per quello che sono vuol dire continuare a concepire quei ruoli e quelle funzioni come qualcosa unicamente appannaggio degli uomini, e presentarli come neutri è sbagliato oltre che furbesco. Il tema non si è mai posto per maestra o infermiera, chiediamoci perché si pone per parlamentare o presidente. Negare questo passo di civiltà e di progresso a una delle più importanti istituzioni del paese racconta molto dei rischi che una cultura reazionaria può innescare".
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Nessuno mi può giudicare: già à metà anni ‘60 una canzone poneva la questione dell’equità di genere: la cantava una ragazza con caschetto biondo, Caterina Caselli. Caterina Caselli Caterina Caselli Aveva capito che la canzone era vessillo di libertà al femminile? «Lo è diventata. All’epoca non c’era questa consapevolezza né da parte degli autori né da parte mia, il femminismo come fenomeno di massa era ancora lontano, era piuttosto una affermazione caparbia del diritto di ognuno di “ vivere come può”. Credo di essere stata percepita come una sorella vivace, diretta, con le idee chiare sulla libertà. In fondo sono nata nel 1946 quando le donne italiane hanno potuto votare per la prima volta. Sarà un caso o un segno?». Allora come l’ha vissuta? «In quel fatidico 1966 vivevo come in una bolla felice, mi sentivo amata, avevo tante soddisfazioni, ho raggiunto l’autonomia economica, mia madre non mi osteggiava più. Ero a Ischia per i fanghi e una donna, non giovane, mentre mi spalmava il fango sulla schiena mi disse “Signurì, voi mi piacevate così tanto perché eravate prepotente”. Forse il più bel complimento che abbia mai avuto, una donna che in qualche modo si sentiva riscattata da quella canzone: possiamo anche sbagliare ma nessuno deve giudicarci male». Le donne hanno saputo comunicare il bisogno di parità? «Passi da gigante ne sono stati fatti, eppure il tasso di femminicidi è in crescita, ed è spaventoso perché nasconde una idea tribale dei rapporti basata sul possesso. Una parola chiave è: fare sistema». I diritti si ottengono marciando uniti, uomini e donne? «Senza fare tante storie qui si tratta di rivedere consuetudini e leggi per eliminare ogni differenza nei diritti fondamentali di accesso al lavoro, all’educazione, a una vita libera e auto-determinata… Uomini e donne insieme, il problema riguarda tutti». L’equilibrio con suo marito, Piero Sugar, su cosa era basato? «C’è sempre stato rispetto e questo l’ha rafforzata anche nei momenti delicati della nostra vita insieme, che non sono mancati». Prima cosa da fare per le donne? «Vorrei che ogni donna potesse essere libera di istruirsi, di scegliere la propria religione. A proposito di diritti mi viene in mente una canzone di Andrea Satta, che sintetizza: non è un diritto l’amore, “l’importante è lasciarsi bene, molto più che amarsi follemente, pensando al proprio passato insieme come un dono”». Il Tempo delle donne 2022 Leggi qui tutte le protagoniste e tutti i protagonisti della nona edizione del Tempo delle Donne. Qui il programma
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Si è aperto all'Auditorium Parco della musica di Roma 'Libere di essere', il festival promosso dal 7 al 9 maggio dalla rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re in collaborazione con Hero e con la coproduzione della Fondazione musica per Roma. La diretta streaming dalla Sala Petrassi è senza pubblico per via delle restrizioni anti-Covid 19. Sul palco si confrontano attiviste, artiste, scrittrici, professioniste, ricercatrici, economiste, giornaliste, attrici: da Lella Costa (che riporta all'Auditorium il monologo di "Ferite a morte" contro il femminicidio) a Michela Murgia, da Margaret Atwood a Serena Dandini. E proprio Serena Dandini l'8 maggio alle 19.30 porterà in scena lo spettacolo "Vieni avanti, cretina!". Il festival nasce all’interno del progetto "Libere di essere: informazione e comunicazione per prevenire la violenza", finanziato attraverso un bando del Dipartimento per le Pari opportunità.
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25 novembre 2017 Link Embed [[URL]] Copia Copia Violenza sulle donne, in migliaia a Roma per il corteo "Non una di meno" È partita da piazza della Repubblica la marcia "Non una di meno" per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. "Io sono mia, voi siete vostre", "Siamo le pronipoti delle streghe che non siete riuscite a bruciare", queste alcune delle scritte apparse sugli striscioni durante il corteo Video di Cristina Pantaleoni
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Riduzione delle corse anche sulla rete di superficie. Ironie e polemiche sulle motivazioni delle sciopero collegate alla condizione delle donne Foto d'archivio La metro principale, la A, chiusa. Riduzioni sulla linea blu. E poi i soliti disservizi del trasporto pubblico locale che oggi, 8 marzo, sono appunto aggravati dallo sciopero di 24 ore indetto dai sindacati (Cub trasporti e Slai Cobas). «Per lo sciopero dei mezzi pubblici indetto oggi a Roma - annuncia infatti Atac - rimangono attive le metro B/B1 e metro C insieme alla ferrovia Termini-Centocelle. In chiusura invece la metro A. Possibili riduzioni o sospensione di corse sulla rete di superficie». L'astensione avverrà dalle 8,30 alle 17 e dalle 20 fino alla fine del servizio. Ma subito il blogger esperto di trasporti, Mercurio Viaggiatore, dati alla mano denuncia: «Non sono mai rispettate le fasce di garanzia, soprattutto 17-20, e il servizio inizia a crollare prima delle 8,30». Un nuovo disagio, per i romani, che già si trovano a dover gestire - per lavori di ammodernamento - la chiusura anticipata della linea A alle 21. «Non spingete, basta, uscite!!!»: le ultime corse del mattino sulla linea rossa sono lunghe e affollate. Sulle banchine di San Giovanni in direzione Termini la folla cerca di entrare a tutti i costi, facendosi spazio coi gomiti, e dall'interno v0lano pure gli insulti. Passeggeri esasperati che si sfogano anche sui social. «Non è possibile che ogni mattina devo rimanere bloccata a Tiburtina perché la metro è sempre strapiena e non ci si entra e le corse sono a distanza di 10 minuti l'una dall'altra», twitta Matilde. «Stamattina lo sciopero e vabbè - scrive sempre su Twitter Sdnerd -, ma il mio diritto di viaggiatore pagante ad avere un servizio che non sia aspettare un treno metro dai 5 minuti in su e viaggiare schiacciato ai vetri che più non si può, quando? Sempre peggio!». Ci sono messaggi anche per il sindaco Roberto Gualtieri: «E' con questi mezzi che dovremmo affrontare il Giubileo?». Ma tornando allo sciopero, c'è molta ironia sulle motivazioni che hanno spinto l'agitazione, pubblicizzate anche sul sito ufficiale di Atac: «La motivazione dello sciopero proclamato - si legge - in collegamento con la giornata internazionale delle donne dell’8 marzo, riguarda il peggioramento della condizione generale di vita delle donne a partire dalla condizione di lavoro nel nostro paese ma che investe tutti gli altri ambiti, sociale, familiare, culturale, una condizione di lavoro/non lavoro, salute e sicurezza, salario/non salario, peso del lavoro di cura per la mancanza di servizi pubblici e gratuiti e gravi tagli alle risorse per la scuola pubblica, la sanità pubblica, una condizione di tragica violenza sulle donne/femminicidi, di attacco al diritto di libera scelta della maggioranza delle donne in tema di maternità e/o di aborto». Tornando ai disservizi, durante tutto il giorno i mezzi hanno funzionato a singhiozzo. La metro A è stata riattivata intorno alle 12, per poi richiudere tra Ottaviano e Battistini per un problema tecnico, e infine riaprire definitivamente. Sempre sulla A chiuse per lo sciopero del personale di stazione e poi riaperte anche le fermate di Ponte Lungo, Re di Roma, Vittorio Emanuele e Spagna. L'adesione allo sciopero è stata del 17,3 per cento. Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di Roma iscriviti gratis alla newsletter "I sette colli di Roma". Arriva ogni giorno nella tua casella di posta alle 7 del mattino. Basta cliccare qui.
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In città un terzo ambiente «confortevole e discreto» riservato alle donne vittime di violenza che vogliono denunciare e ai loro bambini. Al Tribunale di Napoli, invece, inaugurata una panchina rossa nella piazza coperta I carabinieri del Comando Provinciale di Napoli e Soroptimist International Club hanno inaugurato nella caserma Podgora, sede del comando Gruppo carabinieri di Napoli e della compagnia Stella, una nuova «Stanza tutta per sé» dedicata all'accoglienza e all'ascolto delle vittime di violenza di genere, la quarta della provincia dopo quelle di Capodimonte, Caivano ed Ercolano. Presente all'inaugurazione anche il procuratore aggiunto di Napoli, Raffaello Falcone. Si rinnova così l'intesa tra il Comando generale dell'Arma e la presidenza dell'associazione nell'ambito di un Protocollo nazionale sottoscritto il 22 novembre 2019. Cos'è la "Stanza": un ambiente riservato allestito con arredi più accoglienti e caldi, distinti da quelli degli uffici generalmente utilizzati per la raccolta delle denunce. In linea con gli obiettivi del Protocollo, il Soroptimist Club Napoli ha donato gli arredi e i materiali informatici offrendo mobili, illuminazione e altri arredi che richiamano quelli di un ambiente domestico, per favorire l'empatia tra le vittime e gli operatori della sicurezza. Questi progetti si inseriscono nelle iniziative adottate dall'Arma dei Carabinieri, con l'istituzione, a livello nazionale sin dal 2009, di una Sezione Atti Persecutori nell'ambito del Raggruppamento Investigazioni Scientifiche, con la realizzazione di una rete nazionale periferica di personale specializzato nella violenza di genere e con la diffusione di un Prontuario tecnico-operativo che fornisce al personale un riferimento qualificato per la gestione dei casi. La collaborazione comprende anche il «Mobile Angel», lo smartwatch che lo scorso 18 novembre ha concluso con successo il primo anno di sperimentazione garantendo alle vittime un contatto immediato con le Centrali Operative dell'Arma. Nell'occasione, il comandante provinciale dei Carabinieri, generale Enrico Scandone, spiega meglio: «Questo spazio rappresenta un impegno tangibile e umanitario nel contrasto alla violenza di genere. La sua apertura nel cuore di Napoli riflette la nostra volontà di fornire un luogo accogliente e sicuro per le donne vittime di violenza. La "Stanza tutta per sé" è concepita come un rifugio rassicurante, dove le donne possono condividere le proprie esperienze in un ambiente discreto e riservato. Vogliamo creare un legame di fiducia con la collettività, sottolineando che siamo qui non solo per preservare l'ordine, ma anche per difendere i diritti fondamentali e il benessere delle vittime». E la presidente del Soroptimist Club Napoli, Elvira Lenzi, così commenta l'inaugurazione della terza «Stanza tutta per sé» dopo quelle di Capodimonte ed Ercolano, «già da noi realizzate presso le rispettive Caserme con la collaborazione dell'Arma. L'arredo e l'allestimento sono stati curati scegliendo i colori suggeriti dalla cromoterapia, lo stile dei mobili e dei complementi d'arredo è all'insegna di una auspicabile atmosfera di distensione, senza dimenticare di attrezzare anche una parte del locale dedicata ai bambini che spesso si accompagnano alla madre». «Un segnale prezioso che arriva in giorni segnati da tanto dolore ma anche dalla crescita di consapevolezza. Complimenti ai Carabinieri del Comando Provinciale e al Soroptimist International Club Napoli». commenta infine in una nota la senatrice campana del Pd Valeria Valente, componente della Commissione bicamerale sul femminicidio. Sempre oggi, una panchina rossa è stata inaugurata stamani nel Tribunale di Napoli. All'iniziativa promossa nella piazza coperta del Palazzo di Giustizia dall'Adgi, l'Associazione donne giuriste Italia, erano presenti la presidente del tribunale Elisabetta Garzo, quelle degli ordini degli avvocati di Napoli e Benevento, Immacolata Troianiello e Stefania Pavone, Paola Russo della sezione napoletana dell'Adgi, la vicepresidente del Consiglio regionale Loredana Raia e Domenica Lomezzo consigliere di parità della Regione Campania. «Non a caso inauguriamo questa panchina all'interno del Tribunale - ha detto Troianiello - perché questo è il luogo frequentato tutti i giorni da avvocati e magistrati: siamo noi il primo baluardo a cui si rivolgono le vittime e siamo noi che dobbiamo indicare la via che porta alla giustizia e all'abbattimento di ciò che non deve esistere». La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici [[URL]]
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Cultura come luogo d’incontro, lotta all’antisemitismo, educazione affettiva nelle scuole, restituzione dei beni culturali fra Paesi. Questi i temi discussi dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e dalla presidente del Museo egizio di Torino Evelina Christillin, intervistati dal vice direttore de La Stampa Marco Zatterin nella tappa finale, dal grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino, de L’alfabeto del futuro, iniziativa de La Stampa e delle testate del gruppo Gnn. Tra gli argomenti anche Tolkien, l’autore della saga del Signore degli anelli che, a cinquant’anni dalla morte, è protagonista di una mostra a Roma ma soprattutto del dibattito politico italiano. «Noi di Tolkien vogliamo mutuare il valore della solidarietà e la difesa dell’umano - sottolinea il ministro in collegamento da Roma -. Le polemiche e gli attacchi del mainstream gli hanno fatto solo bene a giudicare dalla fila che c’era alla mostra» nel fine settimana. In un libro di Fernando Gentilini si ricorda come Bergoglio, quand’era arcivescovo di Buenos Aires, abbia fatto ricorso a Tolkien come elemento di cultura per andare dalla nicchia al grandissimo. Invece, ministro, in Italia una parte politica si è impossessata della sua figura. Forse Bergoglio non sarebbe d’accordo… Sangiuliano: «Non credo proprio, so che Bergoglio ha un ottimo rapporto con il presidente del Consiglio. Nella mostra abbiamo inserito il pensiero del Papa su Tolkien. E il giudizio positivo che di lui danno in tanti, da Paul McCartney a Barack Obama. Noi vogliamo mutuarne il valore della comunità, della solidarietà. E la difesa dell’umano contro il tentativo nichilista di farci perdere la nostra dimensione esistenziale e ridurci a codici a barre, consumatori. Invece le persone hanno dignità umana, questo è il grande messaggio di Tolkien». La cultura come luogo di incontro. A Torino nel 2024 il Museo egizio compirà 200 anni. Christillin, che segnale darete per l’anniversario? Christillin: «L’obiettivo è restituirlo al territorio. Avremo una grande Piazza egizia, aperta a tutti e gratuita, tra due piazze storiche della città. E poi un giardino che ricostruirà filologicamente, grazie ai papiri, la vegetazione che c’era in Egitto 2-3-4.000 anni fa, la restituzione del Tempio di Ellesija, il rifacimento della Galleria dei re e una sala immersiva che ricostruirà il paesaggio con il metaverso». Domani (oggi per chi legge, ndr.) a Roma ci sarà la marcia contro l’antisemitismo. Parteciperà ministro? Come può la cultura aiutare a combattere questo male ed educare la coscienze al rispetto degli altri? Sangiuliano: «Abbiamo il Consiglio dei ministri ma proverò a partecipare. È un tema che ritengo fondamentale e lo prova il disegno di legge che tengo qui incorniciato (aggiunge mostrandolo in video, ndr.) con cui abbiamo approvato la legge istitutiva del Museo della Shoah, che nascerà a Roma. In tanti lo avevano teorizzato in passato, il governo Meloni lo ha fatto ed è stato approvato all’unanimità dal Parlamento. L’antisemitismo va combattuto perché l’oscurità della storia non si riproponga mai più». È favorevole a usare la cultura per insegnare l’educazione affettiva a scuola e contrastare femminicidi e violenza? Sangiuliano: «Non solo sono favorevole, ma ho siglato con i ministri Roccella e Valditara un provvedimento che va in questa direzione, per portare a scuola il valore del rispetto delle donne e in generale dell’altro». Il governo parteciperà ai funerali di Giulia Cecchettin? Sangiuliano: «Questo lo deciderà il governo. Penso di sì, che ci sarà un rappresentante del governo». La cultura può migliorare il rapporto con i giovani? Christillin: «Io credo moltissimo nella formazione. Quella che si fa guardandosi negli occhi. Servirebbe po’ meno di potere dei social, perché sono un di più non un unicum. La cultura deve essere a disposizione di tutti, non una cosa lontana, riservata a chi è colto o ricco». Ministro, sui casi del Discobolo Lancellotti o dei fregi del Partenone, rivendicati da alcuni Paesi, pensa che le opere debbano tornare a casa o che stiano bene dove sono? Sangiuliano: «Serve buon senso. Dove c’è stato un trafugamento, cioè un’azione illecita, possiamo valutare le restituzioni sulla base del diritto internazionale. Da quando sono ministro dagli Usa ci sono stati restituiti 400 reperti, e altrettanti dalla Gran Bretagna. Così come io ho restituito al Messico beni acquisiti in maniera illecita. Poi però non si può andare troppo indietro nella storia. La vicenda del Discobolo Lancellotti è assurda, è vero che fu acquistato da Hitler ma in modo fraudolento: parliamo di due regimi dittatoriali, il fascismo e il nazismo. Con una battuta ho detto che per riaverlo dovranno passare sul mio cadavere. Diciamo che i tedeschi farebbero bene a ridarci anche la base, che è del ’700».
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Debutta l’Expo “rosa”, l’Expo delle donne che sono al centro di molte iniziative pensate per valorizzare il loro ruolo centrale per il tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e hanno come motore propulsore We-Women for Expo. Da oggi fino a venerdì 10 luglio, il mondo femminile è protagonista dell’Esposizione Universale con dell’iniziativa L’altra metà della Terra – Women’s Weeks che per due settimane propone spettacoli e eventi internazionali aperti al pubblico. “L’altra metà della terra - Women’s Weeks” nasce da Women for Expo, progetto di Expo Milano 2015 in collaborazione con il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori che per la prima volta pone le donne al centro di un’Esposizione Universale. Il programma delle Women’s Weeks - realizzato anche grazie alla collaborazione di Fao, World Food Program - Programma Alimentare Mondiale), Valore D, Oxfam, Save the Children, Aspen Institute Italia, Human Foundation e Action Aid alterna incontri di approfondimento e di intrattenimento con ospiti femminili provenienti da tutto il mondo. Apre le “Settimane delle Donne” il Women’s Forum Italy 2015, due giorni di incontri dal titolo “Nutrire un futuro sostenibile”, in calendario lunedì 29 e martedì 30 giugno organizzato dal Women’s Forum for the Economy and Society Italy e da Valore D, lcon la partecipazione, tra gli altri, di Emma Bonino, Claudia Parzani, Jacqueline Franjou, Kristalina Georgieva, Vandana Shiva, Ertharin Cousin. Tra spettacoli teatrali, letture e approfondimenti, il palinsesto propone altri eventi Lunedì sera la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto leggerà nella sua lingua il racconto che ha scritto per il Novel of the World di Women for Expo. Seguiranno le lettura del testo in italiano e una conversazione tra Giovanna Zucconi e la scrittrice sul tema del cibo come nutrimento per il corpo e per la mente. Martedì 30 giugno l’appuntamento con Ferite a morte, il progetto teatrale sul femminicidio scritto e diretto da Serena Dandini. Allo spettacolo parteciperanno Arisa, Emma Bonino, Lella Costa, Serena Dandini, Isabella Ferrari, Chiara Francini, Ornella Vanoni. Lella Costa è protagonista, mercoledì 1° luglio, de Il pranzo di Babette. E ancora, giovedì 2 luglio l’Ambassador di Expo Milano 2015 Maurizia Cacciatori e la tennista Francesca Schiavone rifletteranno sugli stereotipi femminili nel corso dell’incontro Challenging Role models through sport, a cura di Oxfam, mentre venerdì 3 luglio, si parlerà del ruolo chiave che le adolescenti ricoprono nei Paesi in via di sviluppo nell’appuntamento Starting from girls: they are the source to trigger a change!, organizzato da Save the Children. Sabato 4 luglio maratona di Lettura Reading Marathon – The Novel of the World, durante la quale alcuni racconti del Romanzo del Mondo saranno letti dalle autrici: Simonetta Agnello Hornby, Dacia Maraini, Lilia Bicec, Cristiana Capotondi, Anilda Ibrahimi, Anita Nair, Sonya Orfalian, Camila Raznovich, Ayana Sambuu, Clara Sánchez, Robka Sibhatu, Quartetto Euphoria. La sicurezza alimentare sarà al centro dell’incontro di Human Foundation Social Impact Investments for Food Security lunedì 6 luglio, e dei workshop e degli eventi del Forum Aspen, da mercoledì 8 a venerdì 10 luglio. Food Security, Nutrition and Global Health è il tema che sarà sviluppato nei tre giorni. Venerdì 10 luglio concluderanno le Women’s Weeks due eventi. “Empowering women – The road from Beijing to New York”, discussione dedicata all’agenda Pechino +20 nel quadro delle attività Women for Expo, che celebra il 20° anniversario della Quadra Conferenza Mondiale sulle Donne. All’evento, a cura di Action Aid, saranno presenti il ministro per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, Marta Dassù, Valeria Fedeli, Paola Severino, Orietta Maria Varnelli. In serata l'incontro conviviale La tavola del mondo ospiterà circa 400 donne provenienti da oltre 40 Paesi del mondo. Donne comuni, ma anche scrittici, artiste, volti noti dello spettacolo, della cultura dello sport e della politica, l’una accanto all’altra, insieme alle rappresentanti dei Paesi partecipanti a Expo Milano 2015, sfileranno sul Decumano per arrivare in Piazza Italia dove sarà allestita una speciale Tavola del Mondo. Tutte le informazioni e i programmi delle Women's Weeks su [[URL]]
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Sottrarsi all’odio. Nella complessità degli scenari mondiali che caratterizzano il presente, la battaglia e lo sforzo intellettuale da compiere secondo la giornalista Lucia Annunziata è “non cadere nei cliché dell’odio”. Il dialogo su “Italia, occidente, guerre” con l’editorialista di Repubblica Massimo Giannini, all’Arena Repubblica Robinson alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, è iniziato parlando delle donne vittime di violenza e torture da parte di Hamas il 7 ottobre. Un odio estremo di cui però non si parla abbastanza: “Non c'è una ragione al mondo per cui non si debba e non si possa protestare considerando anche lo stupro, la decapitazione e la mutilazione delle donne israeliane, come un femminicidio di massa”. Per Lucia Annunziata si tratta di un silenzio “tra il cauto e l’opportunista”, perché “non si può non accettare, anche se si sostiene la causa palestinese, che le donne israeliane sono state anche loro vittime”. Alla domanda di Giannini sul perché questo silenzio venga soprattutto da sinistra, Annunziata ha risposto spiegando che “quello che sta succedendo oggi ha a che fare con 10 anni se non 15 di distruzione di ogni possibilità di pace in medioriente per via del premier israeliano Netanyahu. Nei territori palestinesi non c'è più lo spazio. I coloni hanno reso impossibile avere uno stato, ma anche il passaggio tra un paese palestinese e l'altro. Questo all'esterno si sente moltissimo”. Il che però non giustifica l’odio: “Se l'antisemitismo dipende dalle circostanze vuol dire che abbiamo un problema - continua Annunziata - Una vittima è una vittima. Se invece si comincia a dire che le vittime sono solo da una parte facciamo un'operazione per cui sdoganiamo l'odio”. Non aiuta il fatto che “il dibattito italiano è intossicato da un'urgenza di spaccare il fronte" ha aggiunto Giannini, secondo cui però “non si può non notare la reazione spropositata di Israele”. La questione mediorentale, dopo l’11 settembre e la guerra della Russia in Ucraina, è l’ultimo tassello di un cambiamento globale che “rende marginale l’occidente”, continua Giannini secondo cui “l’America non è più il gendarme del mondo”. Palla passata e schiacciata da Lucia Annunziata: "Lo schema che abbiamo in mente per cui esistono due grandi potenze una a Ovest e uno a Est è superato. Stanno diventando importanti soprattutto gli Stati del Sud del mondo e quindi Africa, Cina, Sud America, India, per ciò che aggiungono al mercato globale”, mentre il medioriente è ancora il cuore della produzione globale di petrolio. Ed ecco che torna il tema dell’odio, anticipato dalla paura. “Dell’instabilità energetica, della ‘congiura pluto giudaico massonica’, dei terroristi islamici, paure - conclude Giannini - su cui il populismo imprime la sua leva ideologica, convertendola in odio”. Così, mentre l’editorialista ricorda che il generale Vannacci “rivendica il suo diritto all’odio”, è proprio da questo sentimento che ora più che mai, conclude Annunziata, “bisogna sottrarsi”.
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La sfida / 5: porre fine alla discriminazione di genere L’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), che riunisce oltre 160 organizzazioni e reti della società civile, ha promosso quest’anno il primo Festival dello sviluppo sostenibile. Obiettivo: disegnare e realizzare politiche e strategie volte a conseguire i 17 obiettivi e i 169 target su cui tutti i Paesi del mondo si sono impegnati. Ecco il goal #5: raggiungere l'uguaglianza di genere
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L’ambiente in cui viviamo – la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro ma anche la politica, il linguaggio, l’arte, gli esempi, i modi di dire e di fare: tutto quello che appunto definiamo col termine cultura – agiscono sul nostro cervello sin da quando siamo bambini. Nessuno di noi è impermeabile all’ambiente culturale nel quale cresce. Ed è difficilissimo riuscire a riconoscere i condizionamenti che abbiamo subito e, eventualmente, liberarsene. Fino alla soglia dei 40 anni, sulla questione del patriarcato, il mio pensiero non era forse troppo dissimile da quello di Giorgia Meloni. Ero una donna del sud del Paese, due volte madre, che senza aiuti e senza spintarelle ma con impegno e volontà, si era fatta strada da sola nel mondo scientifico, raggiungendo una solida reputazione e carriera. È vero, la maggior parte dei miei colleghi era dell’altro sesso, ma – pensavo – se io ce l’ho fatta significa che chiunque lo voglia e si impegni ce la può fare; e quindi dov’è il problema? Perché preoccuparci della scarsa presenza femminine nelle posizioni apicali? C’è il merito, e conta solo quello! Certo i miei colleghi maschi continuavano a ripetermi che io in realtà ero un uomo, che avevo gli attributi, che sapevo impormi nelle discussioni come un maschio…ma a me suonava persino come un complimento. Ritenevo una stupidaggine irrilevante la discussione che iniziava a farsi sentire sul linguaggio, una non-questione indegna del mio tempo, e probabilmente se avessi ottenuto la carica di Direttrice Scientifica che invece ho ottenuto qualche anno più tardi, avrei optato per Direttore, perché la parola Direttrice mi sarebbe sembrata non adatta. Nonostante io non abbia vissuto in una famiglia patriarcale e i miei genitori mi abbiano sempre lasciato la libertà di scegliere chi volessi essere, l’ambiente in cui ero vissuta aveva agito su di me, facendomi sembrare normale quello che normale non può essere. Poi, intorno ai 40 anni, sono casualmente entrata in contatto con una collega dell’Università di Padova che si occupa di linguaggio e questioni di genere. Confesso che davanti alle sue forti prese di posizione sulle pari opportunità, sulle quote rosa, sull’importanza del linguaggio giusto e inclusivoho dapprima sollevato un sopracciglio, pensando che bisogna avere proprio molto tempo libero per perdersi dietro a queste cose e che in fondo l’unica cosa che conta e fa la differenza è l’esempio ed io, con la mia realizzazione personale e professionale, facevo molto di più per le ragazze che lei con tante chiacchiere. Un po’ quello che dice oggi la nostra Presidente del Consiglio: io, donna e madre, partita dal basso e venuta su grazie alle mie capacità, volontà e impegno, non posso che essere la dimostrazione dell’assenza di una cultura patriarcale in Italia. Ma mi sbagliavo e parlavo - e pensavo - con superficialità e arroganza. Nel tempo, grazie ai nuovi stimoli culturali che ho trovato a Padova uscendo dalla mia stretta cerchia di colleghi, ho iniziato un’operazione di smantellamento degli stereotipi, condizionamenti e pregiudizi che operavano in me. Ho capito che l’eccezione non può essere la regola e che se in un Paese in cui la popolazione è divisa al 50% tra maschi e femmine solo l’8% delle posizioni dirigenziali è coperta da donne, il problema c’è. Ho guardato alla mia Università ed ho visto che a fronte di una netta maggioranza di ricercatrici precarie, le posizioni a tempo indeterminato vengono assegnate agli uomini. Ho notato che quando mi siedo al tavolo del consiglio degli ordinari del mio dipartimento, ci sono 3 donne e 10 uomini. Ho notato che nei concorsi si usano spesso due pesi e due misure, e che il lavoro delle donne è spesso sminuito da argomenti che risentono degli stereotipi di genere.
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«Purtroppo, le notizie dei femminicidi che ci giungono così frequentemente, anche negli ultimi giorni, sono un triste promemoria di quanto intenso sia lo sforzo ancora da compiere per realizzare un cambiamento radicale di carattere culturale. Cambiamento che chiama in causa le famiglie, l'intera società e gli stessi governi'». Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando al Quirinale i componenti del Comitato di Monitoraggio dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Schlein: “Contro i femminicidi lavoriamo con Meloni” «Tra gli strumenti di cui si è dotato il Consiglio d'Europa, per contrastare le discriminazioni nei confronti delle donne e per valorizzare il loro ruolo nella società, spicca la Convenzione di Istanbul -ha ricordato il Capo dello Stato- alla base della quale vi è la convinzione che il raggiungimento dell'uguaglianza di genere de jure e de facto costituisca un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne». Il presidente ha poi parlato delle guerre in corso. «'Non possiamo dimenticare che, mentre siamo qui riuniti, due guerre sono in atto, nel continente europeo e alle sue porte», ha sottolineato. «Abbiamo il dovere di non arrenderci alla guerra. Di non disperdere il patrimonio accumulato, di non rinunciare alla tutela dei diritti umani, anzitutto di quello alla vita, e all'affermazione dello Stato di diritto. Di fronte a una violenza che non si arresta, trovare una via d'uscita appare, a tratti, impresa quasi disperata. Ma questa ricerca non deve essere abbandonata e può essere coronata da successo se sapremo dare valore alla collaborazione e al dialogo nell'ambito delle istituzioni multilaterali». «La loro voce», ha aggiunto il Capo dello Stato, «appare, talvolta, affievolita, ma non lo sono le ragioni che esprimono, le sole a poter garantire una sicurezza duratura accompagnata da garanzie di rispetto, in pace, dei diritti di libertà».
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Negli ultimi giorni su Instagram sono stati pubblicati milioni di fotografie in bianco e nero di donne – famose e non – accompagnate dall’hashtag #ChallengeAccepted e dai nomi di una o più amiche, per invitarle a partecipare alla campagna e a fare altrettanto. Finora sono state condivisi più di 3 milioni di foto, accompagnate anche dall’hashtag #womensupportingwomen: le donne si sostengono a vicenda. Sull’origine e lo scopo dell’iniziativa sono state fatte varie ipotesi, e spesso sembrano non essere chiare nemmeno a chi pubblica le fotografie: alcune la legano semplicemente alla solidarietà femminile (ma non è chiaro quale sarebbe il “challenge”, la sfida), un’altra la lega alle recenti manifestazioni in Turchia contro il femminicidio, criticando di conseguenza il fatto che il senso della “campagna” sia andato perso. Non ci sono conferme sull’origine turca, però, e le prime foto di questa campagna non hanno legami con la Turchia. La sostanza dell’iniziativa sembra essere esattamente quella che è: pubblicare una propria foto con un generico messaggio a sostegno delle donne. E se anche l’obiettivo dell’iniziativa fosse quello di promuovere in modo vago il cosiddetto “empowerment” femminile, non è chiaro come e se ci riesca. L’hashtag Un responsabile di Instagram ha fatto sapere che il primo post di questa “campagna” è stato pubblicato una settimana e mezzo fa dalla giornalista brasiliana Ana Paula Padrão, che taggando un’altra donna ha scritto in portoghese “Desafio aceito” (“sfida accettata”) con l’hashtag #womensupportingwomen. L’hashtag #ChallengeAccepted era già stato utilizzato in passato: nel 2016, per esempio, per una campagna di sensibilizzazione sul cancro. Il successo dell’iniziativa, oltre al fatto che vi hanno partecipato alcune attrici e celebrità, potrebbe poi avere a che fare con un episodio recente: Cristine Abram, dirigente di una società di marketing sui social media, ha spiegato che il video con la risposta della deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez alle offese di un collega ha portato a un picco di post che parlavano di femminismo e di emancipazione femminile. In molte e molti hanno poi condiviso il fatto – a partire dalla spiegazione di un attivista turco – che l’iniziativa avesse a che fare con le manifestazioni femministe in Turchia nate dal femminicidio, da parte del suo ex compagno, di Pinar Gültekin, studentessa universitaria di 27 anni il cui corpo è stato ritrovato la scorsa settimana in un bosco dentro a un bidone coperto di cemento. È stato fatto notare che sui giornali o nelle tv turche le immagini delle vittime di femminicidio vengono spesso pubblicate o mostrate in bianco e nero: e quindi, da qui, la condivisione di ritratti non a colori. Sul New York Times e poi su Twitter, però, la giornalista Taylor Lorenz ha raccontato di aver studiato l’hashtag #ChallengeAccepted in turco e in Turchia, scrivendo che non sembra avere alcuna correlazione con l’iniziativa diffusa in questo momento sui social. Alcuni in questi giorni stanno dicendo che le foto pubblicate in bianco e nero senza avere consapevolezza di quello che accade in Turchia avrebbero tradito il “significato originario” della campagna, ma sembra che non ci sia nessun “significato originario” legato alla Turchia. [[URL]] Qual è il senso? Lorenz scrive che i post che accompagnano le foto sono piuttosto insignificanti: danno la sensazione di essere parte di qualcosa senza che in realtà chi vi partecipa dica (o faccia) qualcosa di realmente efficace. Una critica, quest’ultima, che viene rivolta anche dalle attiviste femministe a un certo “femminismo mainstream”, patinato e molto popolare sui social, su alcuni giornali o tra le cosiddette celebrità: «Gli influencer e le celebrità adorano questo tipo di “sfide”, perché non richiedono un vero sostegno o una reale esposizione», scrive Lorenz. Al di là della sua origine e del suo senso, l’iniziativa in sé è stata criticata da molte donne e femministe: la scrittrice Alana Levinson ha suggerito di cominciare a praticare realmente il femminismo, anche facendo un semplice gesto nella propria vita quotidiana, piuttosto che fare cose che non hanno alcun significato o approfittarne per postare una propria foto. C’è chi ha chiesto di non condividere un selfie ma libri, articoli o informazioni sulle associazioni che lavorano con le donne; altre hanno scritto che se questa iniziativa includesse donne trans o diversamente abili, o se desse risalto alle donne nella storia avrebbe più senso; altre ancora si sono chieste se l’iniziativa non sia partita dagli uomini. [[URL]] Non è male parlare della Turchia, comunque Nonostante non ci siano correlazioni, l’iniziativa ha fornito comunque l’occasione di parlare della violenza contro le donne in Turchia. Secondo gli ultimi dati, lo scorso anno in Turchia ci sono stati almeno 474 femminicidi, e 40 solo nello scorso luglio. La Turchia ha sottoscritto nel 2011 la Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere e della violenza domestica. Tuttavia da allora il numero di donne uccise nel paese è più che raddoppiato: i movimenti femministi e le associazioni che lavorano con le donne denunciano da tempo la mancata attuazione della Convenzione da parte del governo. Inoltre – come in Polonia, in Ungheria e in Slovacchia, solo per citare gli esempi più recenti e di cui si è parlato – in Turchia ci sono gruppi e organizzazioni ultraconservatrici, antiabortiste, antifemministe e anti-LGBTQI che stanno esercitando una forte pressione politica affinché il governo esca dalla Convenzione, sostenendo che il suo contenuto influenzi negativamente i valori della famiglia tradizionale (cioè patriarcale ed eterosessuale). [[URL]]
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Alle donne non è data l’implacabilità, non è concessa la freddezza. Non c’è eroina, icona, guru, principessa ribelle, che sia impermeabile all’amore romantico, alla passionalità febbrile, alla combattività tumultuosa. Non c’è regina delle nevi che non si sciolga, cuore in inverno che non conosca primavera. Non c’è donna che rifiuti l’amore. Tranne una: Turandot. La maestosa eccezione che stasera apre la stagione lirica del Teatro San Carlo di Napoli, con la regia di Vasily Barkhatov (fantastico: la capitale dell’Italia mediterranea e sciupafemmine, porta in scena un’opera raggelante, cyberpunk, una storia anfibia e futuribile, mentre la capitale del grande nord sceglie Verdi, la Spagna, l’Inquisizione, una lotta antica tra maschi antichi, un dramma caldo e d’assetto, inchiodato allo status quo: Napoli salta, Milano si siede). Turandot, ultima opera di Puccini, che muore prima di riuscire a ultimarla, è la principessa di Pechino che manda a morte chi non risolve i tre enigmi che propone a chi la chiede in moglie: il primo che li risolve, diventa marito. Naturalmente, è un’ecatombe. Gli enigmi sono raffinati, difficilissimi, tortuosi. E non c’è modo di convincere Turandot a concedere una grazia, oppure a scegliere una strada meno violenta, un duello più umano, e non perché lei sia una spietata sanguinaria, un’inclemente assassina assetata di potere, ma perché ha giurato di fare giustizia del femminicidio di una sua ava, assassinata molti anni prima da uno straniero durante la dominazione tartara. Sono gli anni Venti del Novecento. Puccini è consapevole della straordinarietà di un personaggio così, dell’unicità di una donna che escogita un trucco tanto spietato per fare giustizia senza perdono. È un uomo: sa che alle donne è assegnato il destino e il dovere della bontà, del sentimento (sempre lo stesso: l’amore). Sa, quindi, di aver dato vita a un’eroina che spegne invece di ardere, respinge invece di sedurre. La virtù di Turandot è la sua imperturbabilità, il cuore di ghiaccio bollente. Ed è per questo che Puccini non riesce a concludere l’opera: non sa decidersi sul finale perché sa che sciogliere quel suo cuore, facendola innamorare, significa snaturarla, omologarla. Significa dire: tutto l’universo obbedisce all’amore perché la natura delle donne obbedisce all’amore. Significa arrendersi alla narrazione consueta del femminile, quella che fece scrivere a Matilde Serao, in una lettera alla sua migliore amica: «Non credo al femminismo perché credo che nessuna donna rinuncerebbe a un uomo, all’amore e alla famiglia». Puccini sa altrettanto bene, però, che riconoscere alla freddezza di Turandot il valore di un sentimento nuovo e possibile, e di usarlo come fondamento di una nuova idea di femminile, comporta misura: quello che non può fare è tratteggiare un’eroina sopraffatta, inclemente fino alla cattiveria. Sa, Puccini, che proteggere l’unicità di Turandot significa anche non renderla prigioniera di sé, sorda alla vita, ottusa. Farla innamorare, in questo senso, offre una soluzione appropriata: cedendo all’amore, Turandot dimostrerebbe di non essere ottenebrata da se stessa, intontita dal suo scopo. Ma il punto non è cedere all’amore: il punto è rifiutarlo. Il punto è che Turandot ha progettato di vivere senza amore e, per difendere il suo progetto, ha ideato un terribile stratagemma, che le permette anche di compiere giustizia. Siamo autentici quando restiamo fedeli a noi stessi o quando ci tradiamo? Che succede quando, nella nostra vita, irrompe l’altro? Turandot è la più maestosa storia di un eroismo che consiste nella difesa della propria soggettività: gli eroi e le eroine (soprattutto le eroine) fanno ciò che devono e non ciò che vogliono, disonorano il desiderio, onorano la funzione. Il 25 aprile del 1926, quando la Turandot va per la prima volta in scena, alla Scala di Milano, Toscanini, che dirige l’orchestra, si ferma alla metà del terzo atto e dice: «Qui Giacomo Puccini morì». Il finale, con Turandot che sposa Calaf, l’unico che è riuscito a risolvere i tre enigmi, e quindi scioglie il suo cuore, è opera di Franco Alfano, il compositore napoletano al quale, dopo la morte di Puccini, nel 1924, viene affidata la conclusione del libretto, cui q il maestro s’era applicato negli ultimi mesi della sua vita, senza mai venirne a capo, forse perché aveva scelto di rappresentare l’ambiguità e di certo perché non era riuscito a scoprire quale fosse il bene di Turandot: preservarne l’innovazione, farne una capostipite, o usarla per raccontare che siamo umani nella cedevolezza e nella clemenza, anche quando l’altro ci rovina i piani, ci smentisce, e di fatto ci dimezza. La cosa più potente che Puccini fa per Turandot, però, non è salvarla dal lieto fine (dopotutto, ci ha pensato qualcun altro), ma fare innamorare di lei Calaf, al punto da spingerlo a rischiare la vita provando a risolvere i tre enigmi, quando la vede nella sua massima spietatezza. È il secondo atto, e lei entra finalmente in scena (in nessuna opera la protagonista entra in scena così tardi): ha appena deciso di non graziare il principe di Persia, sebbene la folla glielo abbia chiesto, impietosita, perché è un ragazzo giovanissimo, bello, dolcissimo. È la stessa folla che, quando si era saputo che quel principe aveva fallito, aveva esultato pregustando l’esecuzione in piazza: Turandot non cede alla volubilità del popolo. Ed è nel momento della sua massima spietatezza e implacabilità che Calaf si innamora di lei: la riconosce libera, unica, intoccabile. La ama nel momento in cui tutti, in lei, vedono soltanto un mostro. La ama quando non cede, perché non cede. Ed è questa la lezione che ci serve imparare.
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Cinquant’anni fa stava per uscire Let It Be, il primo disco postumo dei Beatles. Cinquant’anni dopo eccoci qua, senza che nessuno che lo chiedesse abbiamo iniziato a raccontare le canzoni dei Beatles dalla più bistrattata alla più ammirata e con oggi abbattiamo il muro del 100! Vi immaginate quale sarà la canzone n. 100? No, non ve l’immaginate. Puntate precedenti: (#254-235), (#234-225), (#224-215), (#200-181), (#180-166), (#165-156), (#155-146), (#145-136), (#135-121), (#120-111). La playlist su Spotify. 110. If I Needed Someone (Harrison, Rubber Soul, 1965) Se avessi bisogno di qualcuno da amare, tu sei la persona che mi verrebbe in mente – e sottolineo “se”. Fino a questo momento George Harrison era riuscito a incidere coi Beatles quattro sue canzoni, di cui qui riporto i titoli perché messi in fila mi hanno sempre fatto ridere: Non seccarmi, Ho bisogno di te, Ti piaccio troppo (e anche tu mi piaci), Pensa per te (perché non sarò con te). Insomma per George fino a tutto il 1965, scrivere una canzone significa rivolgersi direttamente a qualcuno, con lo scopo specifico di prendere le distanze. Se la musa del giovane John è la gelosia, potremmo dire che quella del primo George è l’autonomia: anche quando la sacrifica, come in I Need You, lo fa proprio perché la considera il suo bene più prezioso. If I Needed è l’ultima canzone del periodo, l’unica che Harrison sia riuscito a portare nelle scalette dal vivo, e riassume felicemente tutta la striminzita ma coerente poetica ur-harrisoniana: magari mi piaci, ma non ho bisogno di te. Siamo autorizzati a leggerci un sottotesto autoironico: in fondo se John con I’ll Cry Instead stava prendendo in giro il sé stesso geloso, anche Harrison aveva abbastanza spirito per sorridere di questo personaggio che ufficialmente non ha bisogno di nessuno, non ha tempo per nessuno, ma ti chiede comunque di scribacchiare il numero di telefono sulla tappezzeria (molto rock’n’roll quest’esigenza di dissimulare l’interesse) (e poi, certo, George si stava per sposare e sentiva l’esigenza di chiedere scusa a tutte le ragazze che se solo si fossero fatte vive un po’ prima di Pattie, chissà). Se Rubber Soul è il disco centrale dei Beatles, If I Needed si trova in particolare in un affollatissimo crocevia. Da una parte c’è una strada che arriva dritta dalla California: George non si preoccupa di far sentire il tipico jingle-jangle dei Byrds, e a buon diritto, visto che i Byrds erano stati i primi a riconoscere l’influenza degli accordi spennati da George sulla Rickenbaker a 12 corde in A Hard Day’s Night: la strada insomma si percorre in due sensi e a quest’altezza il giovane Harrison ha più bisogno che mai di mostrare che anche lui ha uno stile distintivo che vantava tentativi d’imitazione. La canzone andò anche in classifica, grazie a una cover degli Hollies che a Harrison non piaceva troppo. Sull’altro lato dell’incrocio c’è una via che porta ancora più lontano, verso l’India: If I Needed è la prima canzone di Harrison a suggerire un’interesse per i raga indiani, senza nessun bisogno di appariscenti oggetti di scena come il sitar o la tabla – fondamentali, invece, i cori e il basso ipnotico di Paul McCartney, e bisogna dire che sia qua che in Taxman che in I Want to Tell You sembra essere Paul il guru che sviscera l’essenza dravidica di canzoni apparentemente ancora del tutto occidentali. È come se Paul sapesse già che la strada di George porta verso l’India, quando ancora George sta fingendo di guardare da tutt’altra parte. 109. Birthday (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968) Yes we’re going to a party, party. Prima di lanciarsi in pista, un po’ di numeri a caso: abbiamo già scoperto qual è il disco in assoluto meno apprezzato dai critici (With the Beatles). In particolare, il secondo lato di quel disco lo abbiamo già completamente coperto: nessuna canzone compare nelle prime 110. Sembra insomma il lato di 33 giri più scarso di tutta la storia dei Beatles. E invece qual è il lato migliore? Onestamente non lo so – bisogna fare la media e non credo che ne valga la pena – però posso dirvi qual è l’unico lato dei loro dischi che non abbiamo ancora cominciato ad ascoltare, ovvero quello in cui non c’è neanche una canzone sotto il 110: ebbene sì, è proprio quello che comincia con Birthday, il terzo lato del Bianco. L’avreste mai detto? In generale non credo che nessuno lo consideri il miglior lato di quel disco: non contiene nessun grande classico, la canzone più famosa è Helter Skelter e non è famosa per i motivi giusti. Però non c’è nessun riempitivo inutile – a meno che non sia proprio Birthday, il primo brano che incontriamo risalendo. E però come si fa a considerare inutile Birthday? È veramente il punto centrale del Disco Bianco, quello che mette le cose in chiaro una volta per tutte: questo album è una festa, e come in tutte le feste non è che tutto vada alla perfezione, anzi. Fanculo alla perfezione, Birthday arriva a metà, dopo il minuto di raccoglimento per Julia, ed è più o meno il momento in cui accendono la luce e servono la torta con le candeline, il che significa che un sacco di gente è già ubriaca. E va bene così, sono felice che è il tuo compleanno. Se Sgt. Pepper era la risposta a Pet Sounds, questo pezzo è un breve e fortunato tentativo di fare qualcosa di paragonabile all’altro disco iconico dei rivali californiani, Beach Boys’ Party. Nei primi anni le feste erano lo sfondo in cui si incontravano i personaggi del beatleverso, più che altro per ballarsi o tenersi la mano o evitarsi. I tempi passano, i ragazzi crescono, ora sta ai Beatles non tocca più partecipare a una festa, ma organizzarla. E ci riescono alla grande, secondo me, come quelle famiglie che sprizzano energia anche quando litigano. Birthday può sembrare un brano inciso alla svelta e lo è, ma è anche il vero manifesto del disco, la dichiarazione d’intenti: per quanto ci abbiano messo mesi a registrarlo, la maggior parte delle canzoni suona proprio come Birthday, che invece fu scritta e incisa in un giorno, buona la prima. Considerato che erano il gruppo più famoso del mondo e stavano scrivendo una canzone sul compleanno (giova ricordare che Tanti auguri a te è stata per lungo tempo una delle canzoni più redditizie), la scelta di buttar giù un rock’n’roll ridanciano non era affatto scontata. Da un punto di vista musicale poi Birthday è molto più interessante di quanto sembri. La prima parte è un solido blues basato su un riff semplice e martellante, suonato all’unisono da chitarra e basso. Niente di strano, insomma, salvo che è il 1968. L’idea di costruire canzoni sui basici riff di chitarra non era originalissima e aveva già regalato grandi soddisfazioni ai primi Kinks (You Really Got Me) e ai Rolling Stones (Satisfaction), ma nel 1968 sia Kinks che Stones facevano già altro – la fiaccola è passata ai Cream. Al termine della sbornia psichedelica, i Beatles tornano ai riff col Disco Bianco. Di lì a poco, un altro quartetto inglese imporrà i riff semplici e potenti su progressioni blues sempre più ossessive: stanno già provando da qualche parte a Londra, a un certo punto decideranno di chiamarsi Led Zeppelin. Ebbene sì, Birthday è il brano che assomiglia più a Heartbreaker. 108. The Word (Lennon-McCartney, Rubber Soul) In the beginning I’ve misunderstood. But now I’ve got it, the word is good. Quelli che preferiscono Rubber Soul, hanno buon gusto. Forse troppo buon gusto per essere veri beatlemani. Rubber Soul è il disco cool, quello che pur senza smettere di fare passi avanti, non ne fa nemmeno uno falso, nemmeno uno più lungo della gamba. Gli esperimenti sono tutti controllati e rigorosi e somministrati a un pubblico già testato dai due dischi precedenti. I rischi (che ci sono), sono minimizzati, e forse è l’unico caso in cui Lennon e McCartney si sono detti ok, contentiamoci di fare al massimo quello che sappiamo già fare. Per esempio il blues come lo facciamo noi – un po’ di plastica? E sia. Un blues, però col bridge. Non era nemmeno la prima volta che ci provavano: quel che cambia è una maggiore consapevolezza dei limiti e delle capacità, una coolness che si taglia col coltello e ti può anche lasciare un po’ freddo se ti piacciono i Beatles maldestri e scavezzacollo. Più di un compositore, al massimo delle sue capacità, si è lasciato tentare da quell’esibizione di coolness suprema che è la canzone su una nota sola. Rossini il più rigoroso, Elio il più situazionista, e chissà se Lennon aveva in mente l’esempio di Jobim: in comune con la Samba de uma nota só c’è l’idea di variare il monomelodismo della strofa con un bridge più movimentato. E se Jobim si faceva scrivere un testo autoreferenziale, Lennon è più sottile: la canzone che gira intorno a una nota sola anche dal punto di vista del contenuto dovrà girare intorno a un solo concetto, a una sola Parola. Questa Parola – ne siamo sicuri ben prima del ritornello – non può che essere “amore”, l’argomento del 99% delle loro canzoni fin qui. Sarebbe incredibile a questo punto che Lennon avesse qualcosa di nuovo da dirci, eppure succede. La necessità di trattare l'”amore” come una parola astratta lo porta sugli imprevisti sentieri retorici del predicatore, da cui il divertente paradosso: la prima canzone composta durante l’assunzione di cannabis (secondo la testimonianza di McCartney) è anche la prima canzone in cui compare nei testi di Lennon una reminiscenza evangelica: “Say the word” viene nientemeno che da Matteo 8,8, la sfida tra Gesù Cristo e i Beatles è appena stata lanciata e Lennon comincia già a scopiazzare. Nel vago messianismo del testo sarà poi riconosciuta la profezia del flower power prossimo a sbocciare. 107. Mother Nature’s Son (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968). All day long, I am sitting singing songs for everyone. Quando viaggi non sai mai cosa ti porti a casa, ma qualcosa comunque te lo porti. I Beatles andarono in India a cercare l’Assoluto; non lo trovarono; ci rimasero male; se la presero con il Maharishi. Tornarono a casa con splendide canzoni arpeggiate alla chitarra acustica. Niente assoluto, ma in compenso avevano scoperto il Fingerpicking. Buttalo via. Ne sarebbe valsa la pena anche solo per quello: non per le sedute col guru, ma per le pause sigaretta-chitarra con Donovan. Il motivo per cui ho iniziato questa cosa è che riascoltando i Beatles mi sono accorto che per me ogni canzone era una storia. A volte anche più storie. Mi sembrava un’idea interessante raccontarle. Quasi sempre può essere un modo per convincere qualcuno ad ascoltarla, o riascoltarla, quindi perché no. Ci sono però casi in cui le storie danneggiano la canzone. Mother Nature’s Son è un breve idillio campestre tratteggiato da Paul alla chitarra e sostenuto da un’orchestrazione minimale (suggerita da Lennon), se posso usare “incantevole” una volta sola ogni venti canzoni me la gioco con questa. Una splendida mattina sotto un cielo terso, con appena qualche nuvola all’orizzonte, bianca, inoffensiva. Qualsiasi cosa io possa aggiungere la renderà più incantevole? Per esempio: è la canzone che ha buttato fuori dal Disco Bianco Child of Nature di Lennon, perché erano entrambe ispirate a un sermone del Maharishi e quindi decisero di tenerne una sola. E a questo punto il cielo comincia ad annuvolarsi, cominciamo a domandarci se è stata la scelta migliore, ovvio che no! Child era più ispirata… ma forse proiettiamo, perché più che Child abbiamo in mente quello che sarebbe diventata, ovvero Jealous Guy, ma alzi la mano chi si immaginava nei primi anni ’70 che Jealous Guy sarebbe diventata una delle più iconiche canzoni di Lennon? Non è stato un po’ grazie ai Roxy Music? Non è stata la somiglianza a Imagine, la perfetta aderenza all’immagine di sé che Lennon volle dare da un certo momento in poi? Potremmo aggiungere che Mother’s Nature Son è la prosecuzione di The Fool On the Hill, che contribuisce a costruire quell’immagine eremitica di Paul che a sua volta sarebbe diventata la sua identità ‘pubblica’ nei primissimi anni postbeatlesiani; che sviluppa con più serenità più o meno le stesse trovate di Blackbird e all’interno del Disco Bianco si trova in una curiosa dialettica con Sexy Sadie, il brano che irride lo stesso Maharishi. Nel frattempo il cielo si è fatto plumbeo, si vedono già i primi fulmini dietro a quelle nuvole nere là in fondo, ecco fatto. Ogni canzone ha una storia, ma certe canzoni non ne hanno alcun bisogno. 106. This Boy (Lennon-McCartney, lato B di I Want to Hold Your Hand, 1963). Quel ragazzo mi ha portato via l’amore, ma se ne pentirà; questo ragazzo invece ti rivuole. Cosa ci fa così in alto questa? This Boy prosegue la tradizione del lato B lento da suonare dopo aver stancato la ragazza saltellando sul lato A; in particolare è il lento che accompagna I Want to Hold Your Hand, il 45 giri che proiettò i Beatles nel mercato americano: e questo credo spieghi l’affetto particolare dei critici americani che la beatlemania fecero in tempo a viverla nei suoi primi giorni acerbi e incomprensibili, la loro passione per certi precoci momenti della ditta Lennon-McCartney che noi ascoltatori europei troviamo francamente datati. Abbiamo un orecchio diverso: This Boy per noi sembra un tentativo non troppo originale di muoversi sui sentieri del doo-wop, dei quartetti vocali anni Cinquanta – il che tra l’altro fa a pugni con l’idea abbastanza inglese e in generale continentale, secondo cui i Beatles costituirebbero una frattura tra i Cinquanta e i Sessanta, il pop dei nonni e il rock dei padri, il medioevo e la contemporaneità. Che Lennon possa essere stato tentato di ricostruire le atmosfere languide di qualche emulo dei Platters ci sembra un dettaglio secondario, da nascondere sotto il tappeto. In America non la pensano così. In America questo tipo di emulazione suonava così strana, quasi oltraggiosa, da costituire qualcosa di nuovo. Come scrive Dylan di I Wanna Hold Your Hand: quegli accordi erano un oltraggio, ecco, anche l’idea che i coretti vocali potessero farli tre zazzeruti ragazzi inglesi, aveva qualcosa di inconciliabile col buon gusto. Noi vorremmo che la Storia procedesse a scatti: vorremmo dimostrare che i Beatles hanno fatto la Storia inventando qualcosa di nuovo, il che è un po’ vero ma equivochiamo il senso di cosa sia un’invenzione: per noi dovrebbe essere una specie di creazione dal nulla. I Beatles non creavano dal nulla: prendevano tutto quello che sapevano, lo mescolavano un po’, lo eseguivano al meglio delle loro capacità ma fraintendendo questo o quell’elemento, e non facendo attenzione a dettagli che invece per gli ascoltatori tradizionali erano fondamentali. Il risultato è sì, qualcosa di nuovo, ma ottenuto attraverso un procedimento accidentale, evolutivo. Un aspetto originale di This Boy è che parla di un triangolo: una ragazza e due ragazzi: uno la rifiuta, l’altro la rivuole. Situazione abbastanza topica per le canzoni pop, ma non per i Beatles (mi viene in mente solo You’re Going to Lose That Girl, forse You Can’t Do That), e questo malgrado la gelosia, lo abbiamo già detto quella dozzina di volte, sia la musa specifica di John Lennon. Ma forse è una gelosia talmente insofferente che non tollera la presenza di un rivale: è una gelosia preventiva, la ragazza deve stare attenta anche solo a guardarli, i potenziali concorrenti. Al punto che ascoltando This Boy può venire il dubbio che “that boy” e “this boy” non siano che figure dello stesso Lennon, sospeso tra le due polarità del suo carattere: quel ragazzo non ti vuole più, quest’altro sì. This Boy è il fantasma che opprime Paul McCartney mentre si danna per registrare Oh! Darling, un’altra canzone in cui il triangolo è troppo imbarazzante e penoso per essere esplicitato. 105. The Ballad of John and Yoko (Lennon-McCartney, singolo, 1969). Succede tutto all’improvviso. Un mese prima Paul McCartney ha sposato Linda Eastman a Londra con una piccola cerimonia civile. Pochi giorni dopo, John Lennon, in vacanza a Parigi, chiede a Yoko Ono di condividere i cognomi. Lei dice di sì, ma si scopre che in Francia due sudditi di Sua Maestà non possono unirsi nel sacro vincolo. Che scemenze, bisognerebbe fare qualcosa per tutte queste frontiere inutili, che ne so, un’Unione Europea, seh, campa cavallo. Comunque contattano i loro agenti, che contattano le ambasciate e i consolati, che contattano qualcun altro e insomma alla fine si trova per questa capricciosa coppia di artisti-VIP una soluzione di compromesso: Lennon e Ono si sposeranno a Gibilterra, che non è Parigi neanche per sbaglio ma è abbastanza vecchia romantica senza smettere di essere territorio britannico. Il viaggio prosegue ad Amsterdam, dove i due novelli sposi organizzano uno dei loro primi e più riusciti happening, il bed-in. Tornato da quella che a questo punto è una luna di miele, John porta una canzone da registrare ai Beatles, salvo che non è affatto chiaro se esistano ancora, i Beatles. Dopo la deprimente conclusione del progetto Get Back! si erano dati una pausa: George Harrison è in vacanza, Ringo è impegnato sul set di un film; a Londra c’è solo Paul ma, a differenza di quello che succederà mesi dopo con Cold Turkey, Paul un singolo con John ha voglia di inciderlo. Suonerà il basso ma anche la batteria, che aveva già inciso in qualche pezzo del Bianco quando Ringo s’era eclissato temporaneamente. Sono momenti difficili per la Apple Corps: un singolo targato Beatles è comunque una rassicurante fonte di entrate, e una garanzia che tutto sta ancora in un qualche modo funzionando. E qualcosa sta funzionando. Non è certo la prima volta che gli artisti ancora noti col nome di Beatles incidono qualcosa in fretta e furia: non è più un’esigenza contrattuale ma forse è diventata un’esigenza esistenziale. Possiamo davvero immaginarci Paul che ascolta la canzone e pensa: se non lo assecondo stavolta, questo molla la ditta. E quindi Lennon avrà la sua canzone nuziale targata Beatles. Forse non ci teneva nemmeno. D’altro canto è probabile che se non l’avesse registrata con Paul, l’avrebbe mandata fuori da solo o con Yoko ai cori. Chi ha scritto su wikipedia che The Ballad non è una vera ballata non ha capito il senso del riferimento: Lennon ha in mente il senso del termine nel folk americano, in cui la Ballata è un brano più cronachistico che narrativo, che serve per informare il pubblico di qualcosa di importante e di appena successo; e quello che rende un filo imbarazzante l’ascolto di The Ballad of John and Yoko è che chi canta sembra davvero continuo di aver vissuto una genuina avventura, qualcosa di romantico e appassionante che dovrebbe interessarci. “Se vanno avanti così le cose, mi crocifiggeranno”, dice, e non è chiaro se stia scherzando o no. The Ballad è un’instant song, la prima di un mazzetto di instant song che Lennon comporrà nei mesi successivi con varie denominazioni: qualche mese dopo ci sarà Give Peace a Chance targata Plastic Ono Band (ancora attribuita a Lennon-McCartney!), in autunno Cold Turkey che avrebbe potuto essere ancora un brano dei Beatles se McCartney non si fosse opposto; in febbraio Instant Kharma, la sua prima collaborazione con Phil Spector. I brani – registrati sempre al volo, con un’urgenza che è percepibile nell’esecuzione – erano parte di una strategia di occupazione dei media da parte della coppia Lennon-Ono, insieme con gli happening per la pace. Oltre alla pace nel mondo, Lennon stava anche lottando più o meno consapevolmente per costruire la sua immagine pubblica post-Beatles, e col senno del poi stupisce quanto Paul fosse pronto ad assecondarlo, perlomeno fin qui. La canzone d’altro canto è piacevole, anche e soprattutto per quell’aria di fatto-in-casa: e dire che, con l’eccezione di un brano sui generis come All You Need Is Love, è il primo vero Lato A di Lennon dopo un biennio di trionfi di Paul. Il rischio che diventi una hit è comunque parzialmente scongiurato con l’inclusione di quella sillaba blasfema nel ritornello, “Christ”. Alle radio inglesi e americane fu distribuita una versione decristizzata, il che trasformava il primo ascolto del singolo appena acquistato in uno choc, una specie di esperimento sociale, condotto per lo più sullo stesso bacino di ascoltatori che non avevano gradito quella famosa uscita di Lennon sull’essere più famosi di Gesù. Ma insomma rimane sempre sospeso nell’aria quell’interrogativo: sta scherzando? Possono passare decenni dal primo ascolto prima di accorgersi che il testo è molto meno ironico di quando il tono di quella voce non autorizzi a pensare. A riscattarlo è l’attitudine con cui lo canta, quel tono beffardo con cui sembra prendersi gioco anche di sé stesso – come se da qualche parte nella sua testa ci fosse ancora quel ragazzo sfrontato che scrolla la testa davanti alle mattane dei due milionari. 104 Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise) (Lennon-McCartney, nel disco omonimo, 1967). Ha un senso trattare la Reprise del brano che dà il titolo a Sgt. Pepper come una canzone a parte? Secondo qualche critico sì, e chi siamo noi per opporci. Ultimate Classic Rock la inserisce in classifica più di cento posizioni sotto il primo brano; Vulture invece la mette quaranta posizioni più avanti! Al di là di tutto, è pur sempre il pezzo che ha introdotto nei dischi di musica leggera il concetto di reprise. Se non lo avessero fatto loro molto presto ci avrebbe provato qualcun altro, però oh, niente da fare, anche stavolta sono arrivati prima loro. Del brano iniziale mantiene soltanto il bridge, che si era sentito sul primo lato appena per ventiquattro battute, e lo ripresenta un po’ accelerato, quasi funky, come se Ringo avesse già capito che in certi casi più che un batterista serve una drum machine. Nella traccia vocale il falsetto di Lennon prende il sopravvento, causando nell’ascoltatore un misto di soddisfazione e rimpianto; soddisfazione, perché viene ripreso con più agio un tema che nel primo lato era stato abbozzato ma subito soppresso per introdurre altre cose più barocche e vistose ma non necessariamente migliori; rimpianto perché accidenti, allora è vero che sotto i costumi colorati c’è ancora una rock’n’roll band, e dispiace avere così poco tempo per sentirla. “We’re sorry but it’s time to go”, ma come? Siete appena arrivati! Sgt Pepper (il disco) funziona “perché noi abbiamo detto che funzionava” (Lennon): in un certo senso è vero; il momento preciso in cui l’ascoltatore ha la sensazione che il Concetto funzioni è proprio quello in cui i suoni della fattoria si mescolano al “One-Two-Three-Four” della banda. Per un minuto, tutto sembra al suo posto. Ascoltando la Reprise abbiamo la sensazione di aver trovato la cornice intorno al quadro – e di aver capito che è un quadro-nel quadro, una mise en abyme, una band dentro la band. Poi comincia A Day in the Life, ed è subito chiaro che siamo fuori dalla cornice, quasi fuori dal disco, in uno spazio nuovo che i Beatles stanno appena iniziando a creare. Non c’è più bisogno di travestirsi – ma è stato divertente. 103. Run For Your Life (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965) Non posso mica passar la vita a farti stare in riga. Il disco più rappresentativo della band più di successo di tutto l’Occidente, nell’anno di grazia 1965, si conclude con un abbozzo di femminicidio. Il disco che vola in classifica ed entra in gran parte delle case dei possessori anglofoni di giradischi comprende il verso: you know that I am a wicked guy and I was born with a jealous mind. Sì, senz’altro il rock and roll da classifica si era già dato un’aria da maudit, ed Elvis aveva anche ventilato trascorsi carcerari, ma qui davvero Lennon non si sta bullando, non recita, non si atteggia: sta tirando fuori da sé un’ossessione con una spietatezza che capovolge il senso di Run for Your Life: quella che al primo ascolto ci può sembrare la canzone più datata del mazzo (anche per l’arrangiamento country che dopo i primi cinque dischi associamo istintivamente ai brani tappabuchi) si rivela il brano più contemporaneo. Come suggerisce fortuitamente la copertina di Rubber Soul, Lennon fora la quarta parete, abolisce tutti i filtri tra il suo vissuto e il suo personaggio pubblico, si toglie per la prima volta la divisa da Beatle e confessa di essere un mostro, un un tizio da cui stare lontano. Oltre alle parole, è fondamentale il tono con cui le dice, il timbro quasi stridulo, satanico, di un tizio che ha deciso che è pazzo e che tutto sommato gli sta bene così. Non possiamo non pensare a Cynthia ma anche in questo caso, ricordiamo: Lennon canta soltanto di sé stesso ed è da sé stesso che propone a sé stesso di scappare. Certo, finire il disco con The Word sarebbe stato molto più rassicurante. Ma chi preferisce Rubber Soul forse ha ragione, c’è qualcosa di potente nell’idea di finire il disco con la canzone meno conciliabile, meno socializzabile: l’anno che era iniziato con un grido di Aiuto finisce con un Lennon braccato dalle proprie ossessioni: corri ragazzina, se vuoi salvare la pelle. In seguito ovviamente lo stesso Lennon si sarebbe pentito di tutta questa sincerità. In un’intervista si sarebbe addirittura ridotto a puntare il dito verso un compagno – l’atteggiamento tipico del molestatore messo davanti alle proprie responsabilità: non la volevo incidere, ma sapete, George ci teneva tanto. George Harrison in effetti aggiunge un buon assolo e un tocco di falsetto nei cori che aumenta il senso di dissociazione. Ma è buffo pensare che John avesse bisogno di essere istigato da lui, per incidere Run for Your Life. E allo stesso tempo, dietro a ogni bullo c’è sempre un gregario che istiga e pungola, che ha voglia di veder scorrere il sangue. 102. I’ll Cry Instead (Lennon-McCartney, A Hard Day’s Night, 1964). Quando sarà ora vi conviene nascondere tutte le ragazze del mondo, perché spezzerò il cuore a tutte, glielo spezzerò in due. Ma nel frattempo… invece piangerò. Non avrà portato la pace nel mondo, John Lennon, ma ha comunque fatto qualcosa di politicamente prezioso: è stato uno il primo macho a calare la maschera e rinunciare a un ruolo patriarcale che era stato quasi progettato per ricoprire. Sia all’interno del gruppo che nella sua vita privata, Lennon è stato un non-leader: il primo degli antieroi, il primo a svelare ed esibire la fatica che costa al maschio alfa nascondere dubbi e le paure sotto un ghigno. Lo ha fatto nel momento stesso in cui ha accettato nel gruppo una forza creativa come Paul, ben sapendo che non l’avrebbe mai potuta dominare. Come notava Philip Norman, tutti i gruppi del periodo si chiamavano “Tal dei Tali e Compagnia Bella”, vedì Gerry and the Pacemakers. Anche i Beatles avrebbero potuto chiamarsi John and the Moondog, o John and the Silver Beatles, e se non successe fu perché John, malgrado le sue pose da leader, non lo voleva. Fu John Lennon a inventare il concetto di Band che diamo per scontato da mezzo secolo, un pool di artisti-compositori legati da un sodalizio artistico senza nessun leader apparente: fu lui che lasciò a Paul la libertà di incidere Yesterday quando ancora poteva esercitare un qualche diritto di veto, e addirittura gli suggerì di ripescare l’arpeggio di Michelle: se i Beatles esplosero creativamente in modo incontrollabile, fu John che lo permise. Costa qualche fatica ammetterlo, visto che nessuno dei due John estremi risulta così simpatico: né quello femminicida di Run for Your Life, né quello ripiegato a larva sulla moglie-madre Yoko. E allo stesso tempo bisogna riconoscergli di essere stato l’autore che a un certo punto ha smesso di considerare la gelosia un simpatico argomento per canzoni da teenager, e si è accorto che somigliava più a una malattia. Questo in realtà succede all’altezza di Getting Better, non certo con I’ll Cry Instead, che è una più semplice variazione su un tema tipico di molte hit r’n’b: dietro la maschera da uomo c’è un ragazzino che piange. Ma nei brani di Smokey Robinson si tratta di un meccanismo funzionale a conferire al personaggio del cantante una maggiore profondità: mi vedi qui tutto allegro ma in realtà in segreto mi struggo, ecc. In I’ll Cry Lennon va più avanti in direzione dell’autoparodia, anche a causa dell’arrangiamento country: musica e parole sono esattamente quelle che ci si aspetterebbe dal solito macho possessivo che Lennon ha appena interpretato con molta convinzione in You Can’t Do That. La rivelazione arriva inattesa nel ritornello, proprio come una maschera che casca all’improvviso: tutto quello che posso davvero fare è… piangere. 101. The Night Before (Lennon-McCartney, Help!, 1965) Quando penso alle cose che abbiamo fatto, mi viene voglia di piangere. The Night Before descrive con più versi a disposizione la stessa situazione di Yesterday: ieri ero felice e innamorato, oggi è successo qualcosa di irreparabile. E come in Yesterday qualcosa non torna nella verbalizzazione: “trattami come mi trattavi la notte prima” non è meno incongruo di “Ieri arrivò all’improvviso” o “credo nello ieri”. Ma insomma siamo nella fase in cui Paul comincia ad accorgersi che le relazioni sono cose complicate, e “Treat me like you did the night before” è un verso di una goffezza disarmante e spietata: non potresti comportarti con me come se rispetto a ieri non fosse successo niente? Il machismo è finito, almeno sul versante di Paul: i personaggi maschili sono sempre più insicuri e smarriti. Sul versante John c’è ancora spazio per qualche scenata di gelosia, ma ormai si è capito che è quasi tutta scena. The Night Before è uno di quei brani composti e incisi dai Beatles col pilota automatico, al punto che gli stessi protagonisti hanno ricordi molto vaghi. Lo spezzone dedicato di Help!, ambientato a Stonehenge, colpisce per lo scarto sempre più notevole tra immagine e contenuto: anche quando cantano di amori difficili, i Quattro devono sorridere e scambiarsi smorfie di entusiasmo e soddisfazione. Che importa se la bruma è fredda e il vento soffia, ridete perdio, siete i Beatles. Lennon è ormai accreditato come l’organista del gruppo; Paul canta e doppia l’assolo di George (su un’ottava diversa). Probabilmente era una soluzione di compromesso per lasciare a George il ruolo di chitarra solista anche nei casi in cui Paul arrivava con un pezzo già completo di chitarra solista; da un punto di vista stilistico però è un modo di far sentire l’assolo come qualcosa di diverso; non più lo sfogo esibizionistico di un chitarrista, ma un breve movimento coordinato, una variazione. Più un riff che un assolo, ormai. 100. Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968). Take it easy! Il Disco Bianco è una festa. Non delle più riuscite, ma avresti comunque voluto esserci. Comincia a razzo, sbanda quasi subito, c’è chi è ubriaco prima della torta, c’è chi si apparta per fare sesso o farsi, chi litiga davanti a tutti e non gliene frega più un cazzo, chi se ne sta in un angolo a pensare alla mamma, chi ha preso la pastiglia sbagliata e vede tutto distorto, chi ha il mal di mare, e in mezzo alla stanza ci sono John e Yoko che ballano e sudano come due bambini in overdose da zucchero filato. Forse sono fatti anche loro, forse sono solo felici e spudorati. Non hanno niente da nascondere. Take it easy! C’è del metodo in questa allegria. Di tutti i brani del Bianco che predicano un ritorno al rock, Everybody è (con Birthday) il più programmatico. Sarà un rock libero dalle gabbie tradizionali, non più strutturato su un giro blues, ma imbastito intorno a riff di chitarra semplici e graffianti raddoppiate dal basso, e un Ringo scatenato (se Ringo torna). Sarà deliberatamente spensierato: basta lagne, la vita è già difficile, ora facciamo festa. È un rock che non assomiglia né a quello d’importazione delle cover beatlesiane fino al ’65, né a quello post-psichedelico, più torrido ma ancora blueseggiante che a questa altezza stanno perfezionando i Rolling Stones e gli altri gruppi della Seconda Invasione, Small Faces o Yardbirds. È un rock che se non fosse così gioioso sarebbe un filo più simile al quello melodrammatico di Tommy, che uscirà solo l’anno dopo, ma in linea di massima è un unicum, qualcosa che solo i Beatles stavano facendo in quel momento, e neanche loro ci credevano del tutto. È il rock di Everybody’s Got Something, Birthday, Hey Bulldog, I’ve Got A Feeling, Dig A Pony. È un prodotto più lennoniano che mccartneyano, ma Lennon non aveva più le forze per imporlo e Paul tradiva un approccio più derivativo: vogliamo fare un rock? Possiamo farlo alla Chuck Berry (Back in the USSR), o alla Fats Domino (Lady Madonna), o perfino alla Beatles prima maniera (One After 909). Se invece avessero deciso che quella di Everybody’s Got Something era la direzione giusta (e non si fossero sciolti), forse verso il 1969-70 avrebbero codificato un loro preciso stile rock, proprio come fecero i Rolling Stones tra Beggars’ Banquet e Sticky Fingers. Che rock sarebbe stato? Non possiamo saperlo, non è successo, e probabilmente non sarebbe potuto succedere. È una domanda oziosa. Ma tutto è ozioso qui, quindi take it easy e proviamoci: che rock avrebbero suonato i Beatles a cavallo tra Sessanta e Settanta, se invece di spaziare tra tutti i generi musicali di Occidente e Oriente fino a disperdersi, avessero deciso di delimitare un sound preciso e cristallizzarlo, come gli Stones e gli Who e tutti i ragazzini che negli anni ’60 avevano avuto la botta di culo di scalare le classifiche e negli anni ’70 volevano farne un mestiere? La butto lì: sarebbe stato un rock simile a quello dei primi Led Zeppelin. Estremo, spensierato, basato su riff graffianti, grandi esibizioni vocali e un Ringo fracassone e scatenato. Non ho ovviamente argomenti per sostenere questa cosa, ma provate nella vostra testa a immaginare Robert Plant che canta Everybody’s Got Something to Hide. Nel momento in cui prende la canzone in gola e la porta un gradino più su: Take it easy! e un altro gradino: Take it easy! Everybody’s Got Something è la finestra aperta su quello che avrebbero potuto diventare i Beatles, se avessero ancora potuto accontentarsi di diventare qualcosa. Il punto è che no, non era così facile, e lo sapeva John per primo. 99. Long Long Long (George Harrison, The Beatles, 1968). C’è voluto tanto, tanto, tanto tempo. Ogni canzone dei Beatles, abbiamo detto, è un esperimento. Long Long Long ne contiene parecchi, tra cui forse uno sul principio di indeterminazione, ovvero: esiste Long Long Long prima che la ascoltiamo? Probabilmente sì, ma dipende molto da cosa abbiamo ascoltato prima: i Beatles o Dylan? Il Disco Bianco o Blonde On Blonde? Siamo tra quelli che abbiamo semplicemente alzato il volume al massimo e pensato beh, ma questa canzone brevissima è stupenda! O siamo quelli che abbiamo riconosciuto con una smorfia di soddisfazione il riferimento, e ci siamo compiaciuti con George, bravo George, che idea infilare proprio alla fine del terzo magico lato una versione supercondensata di Sad Eyed Lady of the Lowlands. Un riferimento che non era così scontato nemmeno nel 1968 – certo, Dylan era già il recalcitrante Divo della Controcultura, e Blonde era il suo disco più venduto. Era una indiscussa celebrità, ma non paragonabile a quella dei Beatles. I Beatles se la giocavano con Gesù, Dylan poteva dirsi contento se Johnny Cash lo invitava in tv. Più che un plagio è l’ennesimo rimpallo di una lunga partita: quando Lennon aveva scritto Norwegian Wood Dylan aveva risposto con Fourth Time Around; quando i Quattro lo avevano cartonato sulla copertina di Sgt Pepper, Dylan li aveva nascosti in quella di John Wesley Harding. E insomma a partire dalla fine del 1968, per la maggior parte degli ascoltatori Sad Eyed Lady diventerà la versione estesa di Long Long Long. Un altro esperimento riuscito con Long Long Long ha a che vedere con la relatività, non nel tempo ma nello spazio, ovvero: sarebbe ancora la stessa canzone se non si trovasse esattamente dov’è, seminascosta al termine di quell’incredibile terzo lato che è tutto un saliscendi di pezzi fracassoni e intermezzi acustici, e proprio al termine del pezzo più frastornante di tutti, un pezzo che sembra non voler finire? Avrebbe ancora lo stesso significato, quel Long Long Long scandito eterealmente da George, se non venisse subito dopo l’urlo sdegnato di Ringo, “Ho le vesciche alle dita?” Il terzo esperimento ha a che vedere col volume, perché è probabile che durante Helter Skelter molti scandalizzati ascoltatori del 1968 l’abbiano abbassato, e che quindi non stiano ascoltando George, se non a livello subliminale. Long Long Long è la classica canzone di cui ti accorgi dopo un po’ che è iniziata, e forse l’ingresso rumorista di Ringo, oltre a riecheggiare sulle macerie di Helter Skelter, serve proprio ad avvertire: ehi, alzate il volume, c’è ancora una canzone su questi solchi. È incisa pianissimo, ma c’è. Era un espediente abbastanza originale per i tempi (e oggi nell’era della compressione dinamica lo è ancora di più): dopo aver dimostrato di poter suonare più forte di tutti, i Quattro decidono di suonare più piano di sempre, insomma di potersi permettere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. In realtà il momento è calcolatissimo e forse l’esperimento tiene anche conto di una variabile ormai sconosciuta: la fragilità dei solchi di vinile più vicini al centro del disco. Long è una canzone fragile nel punto più fragile del supporto. Qualcosa di simile alla pudica Sad Eyed Lady che Dylan aveva rinchiuso in un lato del disco tutto per lei, come una dama nella torre più alta del castello. È come se non volesse davvero essere ascoltata, e quando decidiamo che invece vogliamo farlo davvero, quando alziamo il volume come si punta un faro su un fuggitivo, Long si ribella ed esplode nell’ennesimo esercizio di caos. 98. Magical Mystery Tour (Lennon-McCartney, Magical Mystery Tour, 1967). That’s an invitation. Quando ho iniziato questa cosa, volevo semplicemente scrivere di un argomento che conoscevo abbastanza bene. I Beatles credevo di conoscerli, a causa di una frequentazione iniziata nella prima adolescenza. Ovviamente sbagliavo: primo perché tutto sommato tante cose mi sfuggivano (e mi sfuggono ancora), secondo perché non è una buona idea scrivere sulle cose che hai conosciuto nella prima adolescenza. Come ho potuto dimenticare uno degli assiomi fondamentali della mia esistenza, ovvero che gli adolescenti non capiscono niente? Come posso fidarmi delle mie opinioni sulle canzoni dei Beatles se molte di esse nascono da prime impressioni scaturite in un momento in cui non capivo niente e ascoltavo le cassette su un registratore portatile panasonic mono? Per dire, non sarà colpa del mio acerbo orecchio, della mia scarsa strumentazione, se ho sempre avuto la sensazione che Sgt Pepper sia mixato male? Come se non riuscisse a soddisfare le pretese che lo costruiscono – mentre Revolver è un superbo disco in bianco e nero, e Magical Mystery Tour è già una gioia di colori, sin da questo brano che è poco più che una sigla ma è splendido, la premessa di un mondo fantastico in cui sarebbe potuto succedere di tutto e i Beatles avevano la possibilità di farlo succedere. Cambia tempo, cambia timbro, cambia tutto e tutto ancora funziona. Poi un bel giorno scopro che il brano Magical Mystery Tour fu inciso durante le sessioni di Sgt Pepper – possibile? A me continua a sembrare che siano passati mesi, è come se lo stesse già citando, e allo stesso tempo suonasse già più addomesticato, più vicino al nostro orecchio, più technocolorato. Ho sempre immaginato nella mia testa Sgt Pepper come il primo disco a colori, e ho sempre immaginato i colori di Sgt Pepper un po’ maldestri, sbiaditi o ingialliti come le polaroid o i film mal restaurati del periodo. Invece Magical Mystery Tour comincia con quel suono di fanfara squillante che mette per un attimo tutto a fuoco. O forse nel frattempo mi ero comprato uno stereo decente? Waiting to take you away – take you today. 97. When I’m Sixty-Four (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper’s Lonely Heart’s Club Band, 1967). Granny songs, le definiva John. Le canzoni del nonno, il debole di Paul. When I’m 64 è la prima vera granny song ed è anche il manifesto di tutte quelle che seguiranno. Quello che stava iniziando come un divertimento, in realtà era una presa di posizione: io sono Paul McCartney, e un giorno avrò 64 anni. Come il Sergente Pepe, come mio padre. Forse capiterà anche a voi, ma non ci state pensando. Io invece ci penso da sempre. Hope I die before I grow old, cantava Roger Daltrey. You’ll be older too, risponde Paul. When I’m 64 è l’anti-MyGeneration, molto più di quanto Helter Skelter sia l’anti-I Can See For Miles. Io non rappresento una generazione, ci spiega Paul. Faccio rock perché sono giovane: quando sarò vecchio farò le cose che piacciono ai vecchi, musica inclusa. Gli ascoltatori ridacchiano, sembra uno scherzo. Ma non finisce con le risate, come il pur seriosissimo brano precedente. Paul scrisse When I’m 64 a 16 anni. La strimpellava col piano già al Cavern Club, mentre gli altri tre erano in pausa a fumare. Prima o poi avrebbe voluto registrarla, ma coi Beatles per molto tempo sembrava impossibile. Bisognava creare le premesse, trasformare una rock’n’roll band in qualcosa d’altro: ma anche dopo aver aggiunto i violini in Yesterday, il sitar in Norwegian Wood, questo brano sembrava unbeatlable. Da cui forse l’idea geniale di Sgt Pepper: e se invece di fare il solito disco dei Beatles, facessimo finta di essere un altro gruppo, un gruppo più eclettico? Poteva essere un modo per riciclare idee valide ma fino a quel momento troppo eccentriche. Alla prova dei fatti tuttavia l’unico vero ripescaggio operato in Sgt Pepper fu questo vecchio brano di Paul in cui Paul si immagina nonno: questo appunto poteva essere uno dei sensi della casacca del Sergente Pepe, un tizio che se “ha insegnato la banda a suonare”, lo ha fatto comunque almeno “vent’anni fa oggi”. Il Sergente potrebbe essere il vecchio Paul, coi baffi che lo fanno somigliare un po’ di più al padre (che aveva appena compiuto 64 anni). La Band del Club dei Cuori Spezzati potrebbe essere i Beatles tra vent’anni, barbuti e impolverati, molto oltre la parabola del loro successo, relegati a suonare marcette nei piovosi parchi del Merseyside. Gli altri tre non l’hanno ancora capito, sono convinti che il disco parli del loro passato; Paul lo sa, che passato e futuro sono illusioni: tutto era già scritto sin dall’inizio. Ringo è nato battendo il tempo col piede sbagliato, George era un guru a 16 anni, John un rocker che per sopravvivere doveva diventare un compositore, Paul un compositore che per sopravvivere doveva atteggiarsi a rocker. Alla fine hanno tutti regalato qualcosa agli altri: forse le migliori canzoni le ha composte John, e Paul ha cantato la migliore Long Tall Sally. Ma era tutto già predisposto, compreso forse chi dovesse soccombere a un successo insostenibile, e chi dovesse sopravvivere per raccontarcelo. 96. Within You Without You (Harrison, 1967, Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band). Stavamo parlando dello spazio tra di noi. Avete presente il film Inception, quel trucco per cui ogni sogno rallenta un po’ il tempo, quindi se all’interno del sogno sogno di sognare un altro sogno, alla fine posso vivere cento anni in un istante? Within You Without You non dura cent’anni ma è come se. È un sogno di George, chitarrista della banda di Sgt Pepper, che a sua volta è un sogno di Paul. Come tutti i brani harrisoniani del 1967, Within You è tra le canzoni più divisive dei Beatles. C’è chi all’inizio non capisce cosa ci faccia in Sgt Pepper e magari vent’anni dopo la trova l’unica cosa ascoltabile in tutto il disco, e chi fa il percorso inverso e speriamo tutti di incontrarci in qualche punto del percorso. Se Sgt Pepper è una parentesi (facciamo finta di essere un altro gruppo), Within You Without You è un inciso nella parentesi, uno spettacolo nello spettacolo: ci viene chiesto di immaginare che la Banda ceda temporaneamente il gazebo a un guru venuto dall’Oriente a predicare la vanità dell’Io. Era stato Paul McCartney il primo a forzare il concetto di gruppo al punto da introdurre nei dischi dei Beatles veri e propri siparietti solistici, canzoni come Yesterday registrate senza contributi dei tre colleghi. A questo punto però il gioco si fa escheriano: Within You è un siparietto di George al centro di un siparietto di Paul. Se i Beatles in Sgt Pepper sono temporaneamente sospesi, Within You è il momento in cui sembrano completamente dimenticati. Concentriamoci sulle cose più importanti, ci suggerisce George, e in qualsiasi altro contesto il suo tono saccente riuscirebbe irritante, ma inserito tra due numeri di varietà come Mr Kite e When I’m 64 risulta quasi un sollievo: finalmente c’è qualcuno che sta prendendo sul serio qualcosa. Qualsiasi cosa. Within You è il risultato della collaborazione della più improbabile coppia di compositori della Ditta Beatles: Harrison e George Martin. Il primo porta tre raga cuciti assieme, da suonare su sitar e tabla; al secondo tocca l’ingrato compito di traslitterare la composizione in qualcosa di suonabile per un’orchestra occidentale, e bisogna dire che ci riesce sorprendentemente bene: certo, tutti ricordiamo Within You per il suono così ben distinguibile del sitar: ma sono i violini a creare un salto di qualità rispetto all’esperimento, già riuscito, di Love You To: non sappiamo se Harrison se ne stesse rendendo conto, ma Within You è il suo divano occidentale-orientale: un tentativo di conciliare due universi musicali che sorprende ancora oggi. Per cinque minuti George si concede una seduta di meditazione, prima di congedarsi tra le risate: nessuno è profeta in patria, che ci fa quel guru seduto su un tappeto sotto il chiosco del Sergente Pepe? Ma lo conosciamo, suo padre non guidava l’autobus? Appena un istante di silenzio, e poi riparte la banda. Tutto ok, salvo che siamo invecchiati all’improvviso. Un istante fa eravamo giovani, ora di anni ne abbiamo… 64.
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Tra le cose più lette sul Post questa settimana c’è la storia del fotografo Oliver Morin e di come è riuscito a fotografare l’atleta giamaicano Usain Bolt mentre, dietro di lui, scoppiava un fulmine. Tra i personaggi va ricordato il fisico e matematico Erwin Schrödinger e il suo celebre “paradosso del gatto” e, a proposito di animali, questa settimana ne è stato scoperto uno nuovo, un tenero carnivoro che si chiama olinguito. Ci sono anche molte belle foto, tra cui tatuaggi vintage e indimenticabili copertine di dischi famosi. – Chi ha fatto la foto di Bolt col fulmine Oliver Morin ha raccontato come è riuscito a fotografare Usain Bolt mentre correva, dopo aver vinto la gara dei 100 metri maschili ai Campionati mondiali di atletica leggera a Mosca, e, sullo sfondo, il cielo illuminato da un fulmine. – Erwin Schrödinger: il paradosso del gatto La storia di Erwin Schrödinger, grande fisico e matematico celebrato in un doodle da Google per la sua nascita, 126 anni fa, e la storia di un suo famoso esperimento immaginario. – Maschi come noi maschi Beppe Severgnini ha scritto che i maschi dovrebbero occuparsi di più del femminicidio, per evitare che ne parlino e scrivano soltanto le donne. – I 50 vini più costosi al mondo La lista dei 50 vini più costosi (e migliori) al mondo stilata da Wine Searcher. – Il blindato della polizia caduto da un ponte al Cairo Le foto e il video del blindato della polizia egiziana caduto giù da un ponte, con dentro alcuni poliziotti, durante gli scontri di mercoledì 14 al Cairo, in Egitto. – Dite ciao all’olinguito È stato scoperto un nuovo carnivoro, l’olinguito: è descritto come un incrocio tra un procione e un orsetto. – Tatuaggi vintage Trenta belle foto di tatuaggi vintage: alcuni delle vere e proprie opere d’arte, altri campioni di cattivo gusto. – La verità sull’Area 51 In un documento ufficiale della CIA il governo americano nomina esplicitamente l’Area 51, la famosa base segreta che, secondo gli ufologi, custodirebbe i corpi di alcuni extraterrestri. – Io e mia madre Ugne Henriko monta le sue foto insieme con vecchie immagini della madre, creando un interessante effetto specchio. – Album cover album La storia di “Album cover album”, libro del 1977 sulla bellezza delle copertine dei dischi, e una bella galleria fotografica di copertine famose. Dai blog: Ragiona, no?, di Makkox. Il brand di Firenze e il lavoro del designer spiegato semplice, di Gianni Sinni. Le notti (tragiche) d’agosto, di Antonio Pascale.
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Otto marzo. Nonostante non camminino come il loro cuore desidera le donne vogliono correre verso il sole nella «Action Woman Marathon» una gara podistica non competitiva di tre tragitti che partono dalla Cascina San Fedele nel parco di Monza, organizzata dall'associazione «Arte di amarsi». Nonostante sappiano che Milano è la prima città che twitta contro di loro, le donne aderiscono alla call del Comune «DonnexMilano - Milanoxle Donne» , un palinsesto di eventi che iniziano da domani per durare fino alla fine di Expo. Il mattino alle 10.30 nel cortile di Palazzo Marino «Milano incontra la poesia - poesie di donne lette da donne» è con le poetesse Donatella Bisutti, Annunciata Colombo, Erminia Dell'Oro, Vivian Lamarque. Dalle 14.30 alle 18.30 il consiglio di Zona 2 organizza alla cascina Turro un'edizione speciale di «Booksharing» e una conferenza «Le donne che leggono sono pericolose» alle ore 16. Dalle 16 alle 19 la Casa delle donne sarà aperta per reading di poesia, corsi di yoga e percorsi di gioco. Alle 17 al Wow Spazio Fumetto viene inaugurata la mostra «Donne resistenti» , un omaggio ai settant'anni della Liberazione dell'Italia dalla guerra e soprattutto a tutte le combattenti che scelgono sentieri vergini per portare la pace in un mondo che usa le bambine come bombe. La visita guidata per piccoli e famiglie al Grande Museo del Duomo propone «Donne al Museo del Duomo. Storie di coraggio e di determinazione» che hanno fatto la nostra storia. Nonostante il femminicidio e la morale tribale di una società che nel suo pansessismo le rende vittime sui social di scherzi sessuali di volgare natura, le adolescenti pronunciano la parola «amore», sinonimo di creazione e procreazione perché la donna è l'utero fecondo, tanto che l'azienda «Lenzuolissimi» ha pensato di donare agli ospedali di Lecco e Merate completini da culla ai bimbi nati l'8 marzo, e soprattutto al piccolo Mattia salvato al Manzoni di Lecco dalla sua nascita prematura. Al Tibi Bistrot , in via San Fermo 1, una mostra di fotografie di Marco Marini per raccogliere contributi per la onlus Karibuni, autrice di progetti finalizzati alle bambine del Kenja. Immagini di sorrisi e di giochi infantili dicono quanto sia importante per le donne la libertà. In Italia ci sono ancora quaranta carcerate con i loro figli tra le sbarre. Scatta l'8 marzo la campagna #maipiuinivisibile di Fondazione Pangea Onlus, con l'aiuto di Avon. È possibile effettuare donazioni con un sms solidale al 45591. Il ricavato è per cinque centri anti violenza del Sud Italia che sono a rischio chiusura a Bari, Olbia, Palermo, Caserta, Potenza. Alle 20.30 alla Società Umanitaria di Milano sarà proiettato il film muto «Salomè» . Nonostante questa terra arida, la mano femminile semina mimose. Lo ricorda il Fai che oggi e domani dalle 10 alle 18 ripropone «Un soffio di primavera» la mostra di piante, articoli da giardino che si svolge nella palazzina Appiani al parco Sempione.
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Matteo Montevecchi siede sui banchi dell'Assemblea legislativa nel gruppo del Carroccio: «Da lei solo propaganda». Piccinini (M5S): «Si vergogni e cancelli il post» Le parole di Elena Cecchettin «sono inaccettabili» e da «respingere con fermezza», perché «non è l'inesistente patriarcato a produrre queste violenze». A sostenerlo è Matteo Montevecchi, consigliere regionale della Lega in Emilia-Romagna, che sui social attacca la sorella di Giulia per le dichiarazioni su Filippo Turetta, definito «figlio sano della società patriarcale». Concetto che Montevecchi respinge, prendendo di mira Elena Cecchettin anche per i simboli considerati satanisti nelle sue immagini social, come già ha fatto il consigliere regionale del Veneto, Stefano Valdegamberi, finito nella bufera nella sua regione. «Discorso di Elena impregnato di ideologia» «Qualcuno dovrebbe spiegare perché Elena, per proferire il suo discorso impregnato di ideologia- attacca il leghista- si è presentata in mondovisione con una felpa della Thrasher che richiama il mondo dell'occulto e del satanismo (simbolo del pentacolo) e soprattutto per quale motivo sul suo profilo Instagram, che è pubblico e che chiunque potrebbe vedere in pochi secondi, sono presenti sue foto con croci rovesciate sul volto, collane sataniche, statue di Lucifero e quant'altro. In sostanza la rappresentazione del male, quello vero». «Parole della sorella di Giulia inaccettabili» Montevecchi riporta le parole di Elena. E incalza. «Tutti gli uomini e le donne che non sono ancora cascati con le mani e con i piedi nella trappola del vortice di questa preoccupante generalizzazione e retorica- afferma il consigliere regionale del Carroccio- dovrebbero ribadire che queste parole di Elena Cecchettin sono inaccettabili e che si tratta di pura propaganda funzionale alla diffusione di un determinato pensiero che impone di credere che sia una colpa il solo fatto di essere uomini e che quindi ci sia la necessità di una rieducazione di Stato. Si tratta di ideologia `woke´ all'ennesima potenza, che predica una incessante divisione tra uomo e donna da respingere con fermezza». Secondo Montevecchi, invece, è «utile andare a fondo per capire che non è l'ormai inesistente patriarcato a produrre queste violenze, ma la perdita di valori e la diffusione di una pericolosa cultura narcisistica che vede l'altro non più come una persona», sostiene il leghista. Poco dopo, Montevecchi ha precisato quanto scritto nel suo post: «Non attacco Elena Cecchettin per le dichiarazioni su Filippo Turetta, ma la contesto per le dichiarazioni sugli uomini che dovrebbero fare a suo dire mea culpa. Le due cose sono da non confondere». Piccinini (M5S): «Da Montevecchi elucubrazioni deliranti» Parole «vergognose», che sarebbero da «cancellare». Così Silvia Piccinini, consigliera regionale M5s in Emilia-Romagna, definisce le dichiarazioni di Montevecchi. «Mentre ci svegliavamo con l'ennesimo femminicidio- commenta Piccinini- c'è chi ha il coraggio riprendere le dichiarazioni vergognose del consigliere Valdegamberi, abbassando ulteriormente il livello con elucubrazioni deliranti che mescolano riferimenti all'ideologia woke e al satanismo». Per la destra, affonda il colpo la consigliera M5s, «le donne vanno bene solo quando si mostrano deboli, in difficoltà, vittime indifese da salvare». A Montevecchi, quindi, «dico solamente: si vergogni- sferza Piccinini- cancelli il post e mostri il doveroso rispetto al ruolo che ricopre».
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(reuters) (ansa) (ap) (reuters) Migliaia di donne, soprattutto giovanissime, sono scese in strada a Buenos Aires armate di fazzoletti verdi, a tre anni di distanza dalla prima manifestazione contro i femminicidi in Argentina. Oggi la loro protesta è in sostegno della richiesta di una legge sull'aborto, che in Argentina non è legale salvo alcuni casi particolari. Perciò ieri pomeriggio, questa notte in Italia, la "marea verde" ha invaso Plaza de Majo con slogan come "Aborto legale in ospedale".E' fissata per il 13 giugno la seduta in cui il Parlamento argentino discuterà la proposta di legge sulla depenalizzazione dell'interruzione volontaria di gravidanza, attualmente illegale tranne in caso di stupro o se la vita della donna è in pericolo. Il voto, che arriva dopo mesi di discussioni in aula, non è scontato: 112 deputati hanno annunciato che voteranno a favore, 115 si dichiarano contrari. Gli indecisi, vero ago della bilancia, saranno 29. Il presidente argentinosi è detto contrario ma ha dichiarato che non porrà il veto se la legge verrà approvata. I sondaggi dicono che oltre la metà della popolazione sostiene la depenalizzazione dell'aborto, una percentuale che cresce tra i giovani. Gli anti-abortisti hanno la Chiesa al loro fianco, e anche loro sono scesi in piazza in questi giorni.Domenica, nella cerimonia di premiazione del Martín Fierro, che viene assegnato annualmente dall'Associazione dei giornalisti della televisione e radiofonia Argentina, giornalisti e attori, sia maschi che femmine, si sono espressi pubblicamente a favore della depenalizzazione. Molti di loro indossavano qualcosa di verde e hanno sventolato i fazzoletti simbolo della mobilitazione, come accaduto alla cerimonia hollywoodiana dei Golden Globe in favore del movimento "MeToo" a sostegno del rispetto delle donne.Il Ministero della Sanità argentino stima che circa mezzo milione di donne abortiscano ogni anno in Argentina nonostante il divieto. Le registrazioni ospedaliere mostrano che nel 2016 almeno 50mila donne sono state ricoverate in ospedale per complicazioni derivanti da aborti, e 43 di queste sono morte.Il movimento delle donne si è coalizzato ed è sceso in piazza la prima volta il 3 giugno 2015, per denunciare il femminicidio di una ragazza di 14 anni, Chiara Paez, picchiata a morte dal suo fidanzato di 16 anni, che l'ha poi seppellita nel cortile della casa dei nonni nella provincia di Santa Fe. Nel 2017 le vittime di femminicidio in Argentina sono state 251: secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio sulla Violenza domestica della Suprema Corte di Giustizia. Il 93% degli accusati aveva legami o conoscenze pregresse con le donne uccise e il 71% dei delitti sono accaduti nella casa della vittima.L'Argentina ha approvato il matrimonio omosessuale nel 2010, e una legge sull'identità di genere nel 2012. La campagna per l'aborto legale chiede che il Paese sia all'avanguardia anche con la legalizzazione delle interruzioni volontarie di gravidanza, in un continente in cui solo l'Uruguay e Città del Messico hanno una legge simile a quella della maggior parte dei paesi europei.
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Non si vince per caso un Leone d’Argento alla regia e un Leone del Futuro, per di più attribuiti da due distinte giurie. È riuscito a Jusqu’à la garde, opera prima del francese classe 1979 Xavier Legrand, l’anno scorso alla 74esima Mostra di Venezia. Titolo italiano L’affido, inquadra Miriam (Léa Drucker, brava) e Antoine Besson […]
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Ritorna il premio «Impresa è Donna», giunto nel 2023 alla sua quinta edizione. Il contest — ideato dal gruppo Terziario Donna Confcommercio Catania e dal TDlab, patrocinato e sostenuto a livello istituzionale da Comune di Catania, Città Metropolitana di Catania, Camera Sud est, Confcommercio Sicilia, Regione Siciliana e Ars — viene organizzato ogni anno con l’obiettivo di valorizzare e dare visibilità alle storie d'azienda e all’imprenditoria femminile siciliana. La cerimonia si svolgerà domenica 17 dicembre, dalle ore 18, presso il Teatro Bellini di Catania. «Il riconoscimento vuole mettere in risalto il ruolo delle donne in particolare ed è un trampolino di lancio importante per le imprenditrici, perché finora chi ha vinto il contest ha conquistato fette di mercato grazie alla notorietà del premio», dice Matilde Cifali, presidente di Terziario Donna Confcommercio Catania. La serata si svolgerà appunto come un vero e proprio contest: non si conosce già il nome della vincitrice, ma le 19 imprenditrici finaliste si metteranno in gioco e si racconteranno. La giuria dovrà esprimere la propria preferenza «in tempo reale», ovvero sulla base dell’idea imprenditoriale , dell’approccio emozionale, dell’impegno, della creatività e delle doti personali imprenditoriali trasmesse sul palco dalle finaliste. IL PUNTO Donne, giovani, Sud: i numeri che non interessano a chi deve decidere per l’Italia di Daniele Manca Un ulteriore elemento che verrà preso in considerazione dalla giuria, e che rappresenta il tema della quinta edizione del contest, è la «sicilianità», cioè quanto la Sicilia influisce sull'azienda. «Con questo termine intendiamo valori come la tradizione, gli usi e i costumi che abbiamo nell’isola, la solarità, l’accoglienza, ma anche il Made in Sicily, dal momento che la nostra regione è molto conosciuta all’estero», spiega Cifali. Durante la serata ci sarà spazio per altri momenti: dalle menzioni speciali per tre categorie (innovazione, impresa sociale e sicilianità) alla consegna della targa sulla responsabilità sociale che sarà donata da Ferpi Sicilia, fino alla realizzazione di un quadro dedicato a Marisa Leo, vittima di femminicidio, che sarà esposto nella Sala delle Donne, una mostra permanente (presso il Palazzo della Cultura) di ritratti di figure femminili che hanno contribuito al progresso materiale o spirituale della città di Catania. Grazie alla sua attività, il premio «Impresa è Donna» ha suscitato un interesse sempre maggiore presso l’imprenditoria femminile siciliana: «Quest’anno c’è stato un aumento di proposte del 20% in più rispetto all’anno scorso. E se nella prima edizione ci erano arrivate circa una trentina di candidature, quest’anno abbiamo superato le cento», conclude Cifali. Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Rileggiamo quel capolavoro di Simone Weil intitolato “L’’Iliade poema della forza”. Separare la forza dalla violenza sembra non sia cosa facile. Che cosa vuole una donna? Vuole un uomo forte, non un uomo violento. Come possiamo farci capire? Forse dovremmo esercitarci di più davanti allo specchio per imparare a pesare le parole, a influenzare l’anima dell’interlocutore e non solo per sedurre, ma soprattutto per salvarci la pelle. Chi è un uomo forte? Probabilmente è quello che riesce a mantenere la calma nei momenti difficili, che conosce il suo valore anche quando gli altri non lo riconoscono, che è capace di sorridere, di resistere, di consolare, di proteggere. L’uomo forte è colui che conosce la sua stessa forza e che sa usarla a tempo e a luogo. L’uomo forte non è l’uomo violento. Noi invece, care, dolci e belle amiche siamo piene di qualità ma spesso inciampiamo nei nostri graziosi piedi, andiamo fuori tema, usiamo le parole con scarsa attenzione, il nostro coraggio è spesso imprudente, la nostra paura è spesso inutile. Dicevo dunque andiamo fuori tema, come è successo l’altra sera a ‘Servizio Pubblico‘ e dispiace dirlo visto che parliamo di un grande e generoso lavoro svolto da molte donne che hanno collaborato per aiutare le più sfortunate tra noi. Parlo di “Ferite a Morte” e sono qui per dire che l’ultima cosa da fare è criticarci a vicenda. Non è quindi una critica la mia ma solo un’osservazione marginale, dove è proprio sui margini che si gioca la vita o la morte, come tante storie ci raccontano. Paola Cortellesi con la sua faccia spiritosa e il suo sorriso irresistibile mi è sembra piaciuta come donna e come attrice, ma nel suo intervento ha ripetuto più di una volta una frase pericolosa: “Meglio morta che con te…”. Questa è la distrazione di cui parlavo prima, l’ingenuità che si paga anche in termini di comunicazione. Il tema è tale che non ammette margini di errore oltre quelli già accaduti, che hanno provocato la morte. “Meglio morta che con te” è la frase sbagliata, quella giusta, secondo me, è “meglio viva che con te”, e questo perché con quell’uomo, che ha confuso fatalmente la forza con la violenza, non si può essere che morte. Mi piacerebbe che ci accorgessimo tutte che nell’esercizio di raccontare l’orrore, nei dettagli, nella coazione a ripetere e persino nel tentativo di satira dell’orrore stesso, esiste il pericolo di partecipare inconsapevolmente al grande spettacolo mediatico della violenza in genere e in particolare della più gettonata, quella sulle donne. Lo facciamo spesso, ci sbagliamo e a volte colgo un lampo di ironico compatimento nell’atteggiamento di chi, uomo di potere illuminato, ci concede visibilità ed è dalla nostra parte. Spesso non siamo all’altezza delle poche occasioni che ci vengono offerte, prendiamo grandi e piccoli abbagli senza riuscire a sfruttare l’attimo fuggente. Se non ora quando? Una frase magnifica, un’altra straordinaria performance che alcune donne hanno inventato, moltissime hanno praticato per poi alla fine essere semplicemente rimandate a casa. Come può succedere che preziosi minuti concessi in prime time a “Servizio Pubblico” vengano adoperati con generosità ma senza la dovuta attenzione? Dicono che l’attenzione sopravviverà al deserto, ma temo che prima si debba attraversarlo.
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Amare parole - Per Giulia e per Elena Cecchettin Un podcast sul linguaggio e i suoi cambiamenti, con Vera Gheno, ogni domenica. 03 Mar 2024 - 22 min La presidente, la presidentessa, il presidente o la presidenta? 25 Feb 2024 - 15 min Sul fallimento, e sulla possibilità di un cambio di tempo verbale 18 Feb 2024 - 17 min Sessismo in università 11 Feb 2024 - 17 min Avere una casa dove tornare e il concetto di domicidio 04 Feb 2024 - 15 min Per Ilaria Salis 28 Gen 2024 - 18 min Quello che non sappiamo dei corpi transgender 21 Gen 2024 - 18 min Ancora gogne mediatiche e metaforiche lapidazioni 14 Gen 2024 - 20 min Le parole di chi studia all’università e i titoli dei giornali 07 Gen 2024 - 17 min La mistica dell’essere madri 31 Dic 2023 - 16 min Replay – Neologismi o non neologismi? 24 Dic 2023 - 13 min REPLAY – Il diritto di affidare 17 Dic 2023 - 15 min Italo Calvino e la lingua 10 Dic 2023 - 20 min Architetta, avvocata e co. 03 Dic 2023 - 12 min Il patriarcato uccide 26 Nov 2023 - 15 min Per Giulia e per Elena Cecchettin 19 Nov 2023 - 14 min Il mio è diventato blu! 12 Nov 2023 - 16 min Dall’alluvione in Toscana al nuovo lessico della meteorologia 05 Nov 2023 - 17 min Artisti e artiste alle prese con la contemporaneità 29 Ott 2023 - 17 min Di gocce e di pietre 22 Ott 2023 - 22 min Anatomia di una shitstorm 15 Ott 2023 - 16 min Una citazione virale sul linguaggio giovanile e un po’ di Tullio De Mauro 08 Ott 2023 - 16 min Neologismi o non neologismi? 01 Ott 2023 - 16 min Prove tecniche di prevaricazione 24 Set 2023 - 17 min Asimmetrie linguistiche nei titoli dei giornali 17 Set 2023 - 22 min Da una lettera, contro l’ingiustizia epistemica 10 Set 2023 - 22 min Per chi preferisce un mondo non al contrario 1 2 » 26 Nov 2023 - 15 min Per Giulia e per Elena Cecchettin 00:00 00:00 questa puntata Stai regalando 26 Nov 2023 Per Giulia e per Elena Cecchettin
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Bufera sui social contro Barbara Palombelli. Durante la trasmissione «Forum», che conduce su Rete 4, ha pronunciato una frase imbarazzante. «Negli ultimi sette giorni ci sono state sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c'è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall'altra parte? È una domanda che dobbiamo farci per forza, soprattutto in questa sede, in tribunale bisogna esaminare tutte le ipotesi», ha detto la giornalista commentando gli ultimi casi di femminicidio in Italia. Su twitter l'hashtag Palombelli è diventato subito trend topic, con oltre 4.500 commenti. «7 #femminicidi in 10 giorni. Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce», scrive il movimento «Non una di meno». La Palombelli, nella puntata andata in onda su Rete 4 il 16 settembre, con la partecipazione della psicologa Adriana Mazzocchelli, affrontava la richiesta di una moglie, Rosa, che chiedeva al marito la separazione con addebito per essere stata negli anni sottoposta a violenze e umiliazioni. La donna voleva mantenimento mensile e assegnazione dell'uso della casa coniugale, ma il marito Mario ribatteva spiegando che gli scontri violenti con la coniuge erano occasionali e sempre legati alle provocazioni della consorte, tanto da essere assolto in sede penale. La domanda ipotetica della Palombelli, che le è costata la gogna mediatica, era l'introduzione a un racconto, quello di Mario, che ha dormito in macchina per tre giorni e i cui litigi sul pianerottolo con Rosa hanno portato all'intervento dei condomini. Ma le parole della giornalista sono comunque ritenute offensive. Le Commissioni pari opportunità della Federazione nazionale della stampa, dell'Usigrai e del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti hanno presentato un esposto alla presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio Paola Spadari chiedendo di aprire un procedimento disciplinare. «Sconvolta ed esterrefatta da tanta superficialità» si è detta Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, fondatrice di Telefono Rosa. Ma in serata la Palombelli ha replicato. «Non è giustificabile in alcun modo il femminicidio, voglio essere chiara, non intendevo dire quello che è stato compreso - ha spiegato nello spot di presentazione di Stasera Italia - qualcuno ha pensato che fossi quella persona lì, ma non sono quella persona lì, anche questo deve essere chiaro».
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Nel Regno Unito è stato pubblicato un esteso rapporto sul comportamento e la cultura della Polizia Metropolitana di Londra (MET), commissionato due anni fa dalla stessa MET dopo il rapimento, lo stupro e l’omicidio a Londra di Sarah Everard, il cui responsabile fu proprio un agente della MET poi condannato all’ergastolo. Il caso aveva provocato un grosso dibattito sulla violenza, la misoginia e il sessismo degli agenti di polizia: il rapporto appena pubblicato non solo conferma e documenta queste accuse, ma aggiunge ulteriori elementi sulla radicata omofobia e sul razzismo all’interno della MET. – Leggi anche: La misoginia istituzionale della polizia britannica Il rapporto appena pubblicato è lungo 363 pagine e le ricerche sono state coordinate da Louise Casey, funzionaria del governo britannico. Alcuni dei risultati più discussi del rapporto riguardano proprio la cultura sessista della MET: sono documentati episodi di molestie sessuali, molto spesso lasciati impuniti, senza che venissero presi adeguati provvedimenti nei confronti dei responsabili o per evitare che si verificassero di nuovo. Il 12 per cento delle agenti della MET ha sostenuto di aver subito molestie o aggressioni al lavoro, e nel rapporto ci sono testimonianze di quotidiani commenti sessisti e intimidatori rivolti dagli agenti alle agenti, così come di battute e scherzi sui casi di donne violentate o stuprate. Tra le altre cose, un’agente lesbica ha raccontato di un collega, noto per il proprio maschilismo tra i colleghi, che durante un turno serale in cui erano soli le ha detto di «scaldargli le palle», rendendole poi la vita impossibile al lavoro a fronte del suo rifiuto. Anche in quel caso l’agente si era lamentata coi superiori ma non era stato preso alcun provvedimento, e anzi l’agente era stato poi promosso. In generale, il rapporto dice che il 30 per cento degli agenti LGBT+ racconta di essere stato bullizzato per il proprio orientamento sessuale. – Leggi anche: Il poliziotto inglese che ha compiuto decine di violenze sessuali Nel rapporto sono incluse inoltre testimonianze sul bullismo interno al corpo di polizia, un problema che riguarda soprattutto gli e le agenti più giovani, con racconti di “riti di iniziazione” anche molto violenti. Si parla per esempio di una giovane agente costretta a mangiare quantità enormi di formaggio fino a vomitare, e uno aggredito sessualmente mentre faceva la doccia. Un altro grosso problema riguarda il razzismo. Un agente musulmano ha raccontato di aver trovato i propri stivali riempiti di pancetta (le persone musulmane non mangiano il maiale), un agente sikh di quando gli è stata forzatamente rasa la barba (nella religione sikh gli uomini portano tradizionalmente la barba lunga o comunque non rasata), un’agente nera di essere stata chiamata «scimmia». In generale, il rapporto dice che la Polizia Metropolitana continua a essere un corpo prevalentemente bianco, e in quanto tale poco rappresentativo della diversità etnica e culturale della città di cui deve occuparsi. Nel rapporto si cita poi una serie di problemi legati all’impreparazione e alla mancanza di risorse economiche della Polizia Metropolitana, che hanno contribuito a danneggiarne l’efficienza e la credibilità. Una delle situazioni più riprese dalla stampa riguarda i frigoriferi in cui la polizia conserva le prove di stupri o reati sessuali (come biancheria intima o campioni di sangue): sono «sovraccarichi, fatiscenti o rotti», e un funzionario della polizia che ha parlato in forma anonima a BBC ha detto che in alcuni casi questo ha portato ad abbandonare casi su cui si stava indagando. Ci sono gravi mancanze anche per quanto riguarda la preparazione e formazione degli agenti sui reati che riguardano gli abusi sui minori: nel 2021 il 50 per cento degli agenti specializzati in questo tipo di reato non ha seguito i corsi di aggiornamento previsti e altri agenti che se ne occupano raccontano di essere pochi e sovraccarichi di lavoro. Secondo Casey, tutto questo ha portato a un grosso calo di fiducia nei confronti della Polizia Metropolitana da parte del pubblico, con circa il 50 per cento dei londinesi che dicono di fidarsi del suo operato. La fiducia manca soprattutto da parte delle persone nere, nei cui confronti secondo Casey la polizia è sproporzionatamente aggressiva e sospettosa: stando a quanto indicato nel rapporto, e come in altri paesi, le persone nere hanno maggiori probabilità di essere fermate, perquisite, ammanettate o manganellate quando ci sono scontri.
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Un minuto di silenzio nelle scuole italiane per ricordare Giulia Cecchettin e tutte le donne vittime di violenza e i casi di femminicidio. Molti studenti, invece, hanno scelto, al contrario, «un minuto di rumore». Motivo? Far sentire la propria voce, urlando se necessario, per tenere alta l’attenzione su un tema spesso sottovalutato o per nulla trattato all’intrno delle scuola. Domani mattina, al Senato, i ministri dalla Famiglia, Natalità e Pari Opportunità Eugenia Roccella, dell'Istruzione e Merito Giuseppe Valditara e della Cultura Gennaro Sangiuliano, presenteranno il piano “Educare alle relazioni”. L’obiettivo? Promuovere azioni concrete di prevenzione e di diffusione della cultura del rispetto, di educazione alle relazioni e alla parità fra uomo e donna. Giulia Cecchettin, il 'minuto di rumore' degli studenti dell'università: "Per lei e per tutte le altre vittime non resteremo in silenzio" C’è chi ci ha già pensato, lavorando in silenzio – ma non troppo, perché il progetto ha già coinvolto migliaia di studenti – partendo proprio dalle scuole. Dalle elementari fino ai licei, toccando temi difficili e complessi, spesso scomodi e divisivi. L’associazione si chiama “Violetta – la forza delle donne” ed è nata a Ivrea, in provincia di Torino. Non è un nome scelto a caso, perché richiama la figura di Violetta, la Mugnaia, figura centrale del carnevale della città piemontese, che ad un certo punto (siamo in pieno Medioevo, sotto il regno di Re Arduino) uccide il tiranno che costringeva le giovani spose allo ius prime noctis. L’associazione nata nel 2017 in concomitanza con la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne da tempo è entrata nelle scuole parlando di educazione e rispetto, oltre che di prevenzione. Un pool di esperte, tra cui psicologhe, psicoterapeute, avvocate, che lavorano a stretto contatto con le scuole. Il femminicidio – l’ennesimo – di Giulia Cecchettin e le parole della sorella Elena riporta tremendamente d’attualità la necessità di educare nelle scuole al rispetto delle donne. Elena, la sorella di Giulia Cecchettin: "Ecco perché tutti gli uomini devono fare mea culpa. Anche chi non ha mai torto un capello a una donna" «Il nostro è un progetto pilota – spiega Barbara Bellardi, responsabile dell’associazione –, lavoriamo da tempo su temi di questo genere, siamo partiti con abbondante anticipo e si dovrebbe fare in tutte le scuole». Questo progetto rientra in quelle attività educative e formative il cui obiettivo è quello della prevenzione primaria. «Se parliamo di atteggiamenti riferibili alla violenza, possiamo certamente affermare che più si interviene in modo precoce maggiori sono le probabilità di contenere lo sviluppo di atteggiamenti sbagliati» dicono dall’associazione. L’efficacia della prevenzione primaria della violenza si basa sulla partecipazione di tutti gli attori coinvolti: bambini in primis, ma anche i loro genitori e i loro insegnanti, gli adulti di riferimento che possono assumere un ruolo preventivo e protettivo importante. «Con questa iniziativa si intende quindi rivolgersi ai bambini rafforzandoli, dando loro delle competenze attive in modo che sviluppino atteggiamenti orientati al rispetto e alla tutela di sé stessi e degli altri; allo stesso tempo si intende informare e formare anche gli adulti di riferimento affinché possano continuare nella quotidianità a trasmettere i messaggi fondamentali della prevenzione, soprattutto attraverso il loro esempio e, in caso di necessità, siano facilitati nel chiedere aiuto ai Servizi specialistici». In una società tanto razionale e mentale come la nostra, la sfida della prevenzione è quella di un’educazione ai sentimenti e alle emozioni. Si tratta dunque di far capire ai bambini – e agli adulti – che le emozioni hanno un senso: vanno prese sul serio e ascoltate. Lo scopo è quindi quello di allenare, sostenere e valorizzare la loro intelligenza emotiva, la capacità di dare ascolto alle emozioni per capire cosa significano e decidere come gestirle. L’èquipe Violetta, formata da 8 psicologhe psicoterapeute e 2 avvocate, presenterà l’attività clinica e di consulenza legale per le donne vittime di violenza e i familiari. Volontari che lavorando su due fronti. Il primo è il potenziamento di un percorso gratuito rivolto alle donne vittime di violenza che hanno trovato la forza di uscire dal silenzio e che proprio per questo necessitano di un sostegno continuativo per portare avanti la “loro battaglia”. Gli aiuti concreti sono una linea telefonica ‐ 327 4119977 ‐ di ascolto e accoglienza (è attiva due ore al giorno dal lunedì al venerdì, negli altri orari è possibile lasciare un messaggio nella segreteria telefonica), la consulenza psicologica e la psicoterapia, il sostegno alla genitorialità, una prima consulenza legale e il lavoro in rete con i Servizi e le Associazioni presenti sul territorio. Fino ad oggi sono state seguite oltre 90 donne attraverso una prima consulenza legale, percorsi di psicoterapia individuale o di gruppo. Il secondo punto è l’organizzazione e la promozione di azioni di sensibilizzazione e prevenzione della violenza domestica rivolte soprattutto alle nuove generazioni. «Tutte le nostre azioni partono dal presupposto che il fenomeno della violenza sulle donne possa essere affrontato e contenuto solo se si interviene preventivamente sui bambini e sulle bambine, sui ragazzi e sulle ragazze, sugli uomini e sulle donne, cercando non solo di contrastare il fenomeno là dove esso è presente, ma soprattutto di favorire lo sviluppo di dinamiche relazionali e di valori che possano favorire la crescita di buoni legami di coppia e una buona integrazione del femminile e del maschile». Temi complessi che, da tempo, attraverso questo progetto sono entrati nel mondo della scuola e che possono diventare un vero e proprio punto di partenza nel Paese.
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Diciotto mesi di carcere, 14 dei quali con la condizionale e 4 da scontare: questa la condanna inflitta oggi dal tribunale per direttissima a Damien Tarel, l'uomo che l'altro ieri ha dato uno schiaffo al presidente francese Emmanuel Macron mentre quest'ultimo era in missione in provincia, nel dipartimento della Drome. Nel processo per direttissima, il procuratore della Repubblica di Valence aveva chiesto 18 mesi di carcere per violenze dolose su pubblico ufficiale. L'uomo di 28 anni, che ha riconosciuto di aver schiaffeggiato il presidente, è stato incarcerato. La versione di Tarel "In cavalleria, non ci piacciono le bugie": aveva risposto Tarel alla presidente del tribunale, aggiungendo che secondo lui "Macron rappresenta benissimo la decadenza del nostro Paese" e ammettendo poi di aver compiuto un gesto "impulsivo", "non controllato a livello fisico". Voleva fare "qualcosa di clamoroso", ma poi ci aveva "ripensato". Il presidente minimizza Macron nel pomeriggio è tornato a minimizzare l'episodio, ritenendo che il Paese non è in una situazione di tensione come durante la crisi dei gilet gialli quanto piuttosto in un clima di ottimismo, anche per le progressive riaperture, in seguito ad un anno di restrizioni legate al coronavirus. "Ciò che sento nel Paese è dell'ottimismo, una volontà di ritrovare la vita, del dinamismo", ha dichiarato ai microfoni di BFM-TV. "Non facciamo dire a questo gesto imbecille e violento più di quanto non si debba dire", ha avvertito, aggiungendo che bisogna "relativizzare", pur "non banalizzando nulla": "Ricevere uno schiaffo quando vai verso una folla non è grave", ha dichiarato Macron, secondo cui "la vera violenza, non è questa". Quanto piuttosto quella subita dalle "donne che muoiono sotto ai colpi dei loro compagni o mariti", perché "ci sono ancora troppi femminicidi contro cui ci battiamo con forza".
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“È un compromesso virtuoso tra anima e corpo”. La recitazione? L’arrampicata sportiva. Rosa Diletta Rossi, si inerpica sulle rocce a mani nude? Con la corda. Abbiamo molta più forza nelle mani e nei piedi di quanto non si creda. Occorre disciplina per memorizzare un passaggio rischioso. E non serve a nulla lamentarsi. Lassù provi un […]
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Gino e Elena Cecchettin hanno usato parole nette che toccano anche le coscienze più anestetizzate. Per questo educare le giovani generazioni alle relazioni sessuali è fondamentale Cara Lilli, ho grande stima e ammirazione per Gino Cecchettin, per il suo voler intensamente trasformare il dolore immenso in qualcosa di utile per la comunità, ma temo la sovraesposizione mediatica possa stritolarlo. Cosa ne pensa? Tiziana Montrasio [[EMAIL]] Cara Tiziana, Gino Cecchettin è finito nel tritacarne mediatico fin dal giorno della scomparsa di sua figlia Giulia. Le sue parole, il suo viso, la sua casa, i suoi figli sono rimbalzati sulle nostre televisioni e sui nostri telefoni mentre ancora erano in corso le ricerche di Giulia. In molti si sono chiesti perché proprio questo femminicidio - in un Paese come il nostro che soltanto quest’anno ne conta 109 - abbia risvegliato tanta partecipazione: credo questo sia dipeso anche, se non soprattutto, da come Gino Cecchettin e sua figlia Elena hanno scelto di affrontare questa tragedia. Hanno usato parole chiare, lucide, nette. Hanno saputo toccare le coscienze più anestetizzate, hanno contrastato il cinismo e la rassegnazione di molti, inchiodando ognuno di noi alle sue responsabilità, costringendo tutti a osservare una realtà su cui in troppi chiudono gli occhi. Hanno scelto di «fare rumore». Uno dei toccanti messaggi lasciati per Giulia, ammazzata dal suo ex ragazzo Come ha detto lo stesso Gino Cecchettin da Fabio Fazio: «Non voglio odiare, ho voluto essere e reagire come avrebbe voluto mia figlia». Facendo rumore. Il compito non sarà facile, la nostra cultura è incistata da secoli di maschilismo, patriarcato e stereotipi che sono difficili da abbattere. A questo si aggiungono le resistenze di certa politica, che fatica moltissimo a mettere in discussione slogan tradizionalisti su cui ha costruito parte del suo consenso. Ecco quindi che mentre all’unanimità si approva una meritoria legge che rafforza le tutele per le donne in pericolo, quando si va a parlare di educazione sessuale nelle scuole le cose cambiano. Il governo Meloni si è limitato a proporre l’istituzione di un’ora di «educazione alle relazioni» in via sperimentale solo per le scuole superiori, per 30 ore all’anno. Troppo poco. Senza contare il caos politico sulla nomina dei garanti della commissione che avrebbe dovuto guidare il progetto, che non fa onore né al governo né alla serietà del tema in esame. Per porre fine alla mattanza delle donne bisogna smantellare il patriarcato, portare l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, insegnare ai giovani il rispetto, la parità e il superamento degli stereotipi di genere. Serve l’impegno di donne e di uomini, della destra e della sinistra. Dividersi su questo vuol dire semplicemente non avere la volontà politica di affrontare il problema. Non sarà un percorso breve, ma è solo da questi interventi che può iniziare un cambiamento vero. «Quando ho sentito mia figlia Elena parlare di patriarcato all’inizio sono rimasto interdetto. Ma ha ragione, la supporterò in tutte le sue battaglie». Sono ancora parole di Gino Cecchettin: quando ognuno di noi farà suo il senso politico più profondo di queste parole, allora avremo cominciato sul serio a combattere questa barbarie. © RIPRODUZIONE RISERVATA Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.
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Domenica 10 aprile si vota per il primo turno delle presidenziali francesi. Tra i dodici candidati, solamente tre superano nei sondaggi il 15 per cento delle intenzioni di voto e a poche ore dall’apertura dei seggi si preannuncia dunque una riedizione delle precedenti elezioni, quando al ballottaggio finirono l’attuale presidente Emmanuel Macron e la candidata dell’estrema destra Marine Le Pen. Nel 2017 Macron prese il doppio dei voti dell’avversaria, mentre oggi, stando ai sondaggi, lo scarto fra i due è decisamente più ridotto. Tempi e numeri Il primo turno delle presidenziali sarà il 10 aprile e se nessuno o nessuna raggiungerà la maggioranza assoluta dei voti, il prossimo 24 aprile si terrà il ballottaggio tra i due candidati più votati. In alcuni dipartimenti e comunità d’oltremare la votazione sarà invece anticipata di un giorno, dunque il 9 ed eventualmente il 23 aprile, per tener conto della differenza di fuso orario. I risultati provvisori saranno comunicati in serata, a partire dalle 20 quando chiuderà l’ultimo seggio. L’insediamento del nuovo presidente dovrà poi avvenire entro e non oltre l’ultimo giorno del mandato del presidente uscente, ovvero il 13 maggio. I candidati e le candidate I candidati e le candidate alle presidenziali francesi sono dodici in totale. Quattro di loro sono di estrema sinistra (Jean-Luc Mélenchon, Nathalie Arthaud, Fabien Roussel e Philippe Poutou) e tre sono di estrema destra (Marine Le Pen, Éric Zemmour e Nicolas Dupont-Aignan). La sinistra più tradizionale ha invece faticato molto ad arrivare alle elezioni: un decennio fa controllava la presidenza, entrambe le camere del parlamento e la maggior parte delle regioni e delle grandi città, ma oggi è in profonda crisi. Il Partito Socialista, uno dei principali partiti della tradizione politica francese, ha candidato Anne Hidalgo, attuale sindaca di Parigi molto rispettata a livello internazionale che è però bassissima nei sondaggi: al di sotto anche della soglia minima per ottenere il rimborso delle spese per la campagna elettorale da parte dello stato. Valérie Pécresse è la candidata dell’altro partito che per lungo tempo è stato al centro della politica del paese, Les Républicains, di destra: dopo aver vinto le primarie interne contro Éric Ciotti, esponente dell’ala più vicina all’estrema destra, Pécresse si è buttata a sua volta sempre più a destra spiazzando così gran parte del suo elettorato. – Leggi anche: La candidata dei Repubblicani alle presidenziali francesi è sempre più estrema I Verdi, attraverso le primarie, hanno candidato Yannick Jadot. Jean Lassalle, dopo aver lasciato il movimento centrista MoDem, si presenterà con il suo nuovo partito, Résistons. Infine c’è il presidente uscente Emmanuel Macron de La République en Marche. I candidati principali, cioè più alti nei sondaggi, sono comunque tre: Macron, Le Pen e Mélenchon. Tre cose che dicono i sondaggi Emmanuel Macron è al primo posto, ma il suo margine di vantaggio si è via via ridotto. È aumentato invece il consenso per la candidata di Rassemblement National, Marine Le Pen, che nelle ultime settimane ha raccolto il sostegno di elettori ed elettrici che prima avevano dichiarato di voler votare per Éric Zemmour. Un altro dato che da giorni gli osservatori stanno commentando è quello dell’affluenza. Tradizionalmente, quella per le presidenziali francesi è piuttosto significativa: nel 2017, al primo turno, andò ad esempio a votare circa il 78 per cento degli elettori e delle elettrici. Il record di astensione al primo turno di un’elezione presidenziale fu nel 2002 quando andò a votare poco più del 71 per cento della popolazione che ne aveva diritto. Fu anche quando per la prima volta l’estrema destra – rappresentata al tempo dal padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen – andò al ballottaggio (ma poi vinse Jacques Chirac). Sebbene le ricerche più recenti dicano che l’interesse per la campagna elettorale in sé non sia inferiore rispetto al passato, quest’anno il record negativo di affluenza alle urne del 2002 potrebbe essere battuto. I sondaggi dicono infine che Macron vincerebbe al ballottaggio in qualsiasi caso. Il margine più basso ce l’avrebbe proprio con la candidata che ha più possibilità di passare al secondo turno, ossia Le Pen. Tuttavia, in molti dicono che potrebbe essere prematuro dare per scontata la vittoria di Macron. I sostenitori di Jean-Luc Mélenchon hanno dichiarato di essere molto incerti sul voto del secondo turno se, come sembra probabile, il loro candidato ne sarà escluso. E va tenuta presente la consolidata mobilitazione dei conservatori e dell’estrema destra, oltre che dell’alto tasso di astensione che potrebbero contribuire alla possibilità di un esito differente da quel che ci si aspetta. “Né di destra né di sinistra”: funzionerà ancora? Macron ha voluto fare della sua ricandidatura ufficiale alle presidenziali «un non-evento». L’ha annunciata con una lettera pubblicata sui giornali lo scorso 3 marzo in cui ha subito chiarito che non avrebbe potuto condurre la campagna elettorale come avrebbe voluto «a causa del contesto», a causa cioè dell’invasione russa dell’Ucraina. Così è stato, tanto che i giornali francesi hanno parlato di una «campagna fantasma», nella quale Macron ha comunque occupato una posizione unica: è il principale candidato, è il favorito, è il presidente della Repubblica francese e la Francia è anche il paese che ha assunto la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, cosa che attribuisce allo stesso Macron ulteriori responsabilità e possibilità di visibilità e azione. Macron si è dunque inserito nella campagna per le presidenziali con un grande vantaggio: quello di non aver dovuto rendere centrale, nella discussione, il bilancio del suo precedente mandato e quello di aver potuto trasformare in un criterio fondamentale per la futura scelta di elettori ed elettrici la sua capacità e la sua possibilità in quanto presidente di affrontare la grave crisi in corso. Se questa condizione in un primo momento l’ha avvantaggiato (aveva superato la soglia del 30 per cento nei sondaggi, con l’inizio della guerra in Ucraina), via via ha invece perso consensi. «C’è qualcosa che Macron non ha fatto abbastanza: una vera campagna elettorale», ha scritto ad esempio Politico. È stato anzi accusato di aver usato la guerra in Ucraina per evitare il confronto con gli altri candidati e candidate rifiutandosi per esempio di prendere parte ai tradizionali dibattiti televisivi, ha partecipato a un numero molto limitato di eventi pubblici, e del suo programma si è detto principalmente che è stato assemblato prendendo un po’ di proposte dai partiti di sinistra e parecchie altre da quelli di destra (Valérie Pécresse l’ha recentemente rimproverato di aver usato la «fotocopiatrice»). Nel 2011, quando era un giovane dirigente della Rothschild & Cie Banque, una banca d’affari del gruppo Rothschild, Emmanuel Macron pubblicò un lungo testo dedicato a ciò che ci si poteva e doveva aspettare dalle presidenziali dell’anno successivo. Parlò della necessità di «restituire all’ideologia» un posto nel dibattito pubblico, disse che «il discorso della politica» non poteva «essere solo un discorso tecnico», ma «una visione della società e della sua trasformazione» e che la sua finalità era «proporre un altro mondo»: «Ci aspettiamo che i politici raccontino grandi storie», concludeva. Dieci anni dopo, ha scritto Le Monde, l’attuale presidente della Repubblica francese ha faticato a imporre questa “grande storia”. «Dal 2017 ha attivato una strategia della neutralizzazione», ha commentato Raphaël Llorca della Fondazione Jean Jaurès, un centro studi francese associato al Partito Socialista, e autore di un libro su Macron. A quella precisa strategia corrispondevano, allora, una riflessione politica ben precisa e la critica di quelli che lui stesso aveva definito «i blocchi»: i due grandi partiti della tradizione politica della Francia che a suo dire paralizzavano il paese. Macron si era dunque presentato da indipendente, aveva evitato qualsiasi definizione, diceva di non essere «né di destra né di sinistra», aveva mescolato apprezzamenti alle riforme di mercato con appelli all’unità sociale. «Voleva farci credere che tutti avessimo gli stessi valori, spoliticizzando il dibattito», ha detto la politologa Chloé Morin, contribuendo così ad apparire adattabile a diverse aree politiche. Ma oggi quella stessa strategia «sa solo di tattica», commenta Le Monde, perché è piuttosto evidente come il posizionamento del presidente uscente si sia decisamente spostato a destra. Il rifiuto verso Macron è la vera forza di Marine Le Pen? Chi è invece stata più abile di Macron nell’allargare il proprio consenso è Marine Le Pen. Poco meno di un anno fa, in uno studio molto citato in questi giorni, la Fondazione Jean-Jaurès aveva parlato della «possibilità significativa» che la candidata di estrema destra potesse diventare presidente se almeno una delle tre seguenti condizioni fosse stata soddisfatta: se la sua figura si fosse normalizzata nella percezione dell’opinione pubblica, se si fosse manifestata una maggiore porosità tra elettori di estrema destra e elettori di destra, dunque di Les Républicains, e se il rifiuto nei confronti di Emmanuel Macron avesse raggiunto gli stessi livelli di quello di Le Pen. «A tre giorni dal primo turno, ci siamo quasi», commenta Libération. Le Pen ha lavorato molto sulla sua “de-diavolizzazione” per dare a sé stessa e al suo partito un’immagine più moderata e rassicurante, tanto da poter dichiarare dalla prima pagina de Le Figaro: «Sono pronta a governare». In una lunga intervista particolarmente benevola nei suoi confronti, appare sorridente, in una posa quasi ufficiale che ricorda la foto di Macron appesa negli uffici dei sindaci. Facilitata dagli estremismi di Zemmour, Le Pen ha di fatto guadagnato, a dispetto del suo programma che resta di estrema destra, una posizione più centrale nello spettro politico. Contemporaneamente il partito della destra moderata francese, Les Républicains, e il partito di Macron sono diventati sempre più di destra, nei toni e nei contenuti. Il che porta direttamente alla seconda condizione segnalata dai ricercatori della Fondazione Jean-Jaurès: alla “porosità” tra destra ed estrema destra, cioè al fatto che sempre più elettori che un tempo potevano essere considerati moderati ora sembrano pronti a votare per candidati con posizioni più radicali. – Leggi anche: Marine Le Pen potrebbe vincere? Il terzo punto che potrebbe favorire Le Pen è la possibile rottura del fronte contro l’estrema destra che potrebbe verificarsi al ballottaggio. Nel 2017, secondo Ipsos, più della metà degli elettori di Mélenchon aveva votato Macron per fermare Le Pen. È credibile pensare, si chiede Libération, che una volta che il pericolo si ripresenterà, molti di quegli elettori accetteranno di nuovo questo compromesso? O il rifiuto suscitato da Macron sarà troppo grande per far accettare agli elettori di votarlo solo per fermare Marine Le Pen? Macron è particolarmente odiato e il suo mandato è stato segnato da grandi manifestazioni e proteste sociali: questo, secondo molto osservatori, renderà più difficile per parte della sinistra votare il presidente uscente al secondo turno. A tutto questo va aggiunto che mentre Macron era impegnato a parlare con il presidente russo Vladimir Putin e a incontrare i leader mondiali, Le Pen ha portato avanti un’efficace campagna elettorale continuando a insistere sui problemi della vita quotidiana dei francesi, come il prezzo del carburante e il potere d’acquisto delle persone. «Le Pen ha fatto una campagna di prossimità, visitando molte piccole città e villaggi. I suoi viaggi non sono stati molto seguiti dalla stampa nazionale, ma hanno avuto una grande eco sui media locali», ha spiegato Mathieu Gallard, di Ipsos. «Ha dato un’impressione di vicinanza, che è molto importante per gli elettori francesi». Allo stesso tempo, e a differenza del suo rivale di estrema destra Éric Zemmour, Le Pen è riuscita a non restare bloccata nel dibattito sulla guerra in Ucraina, facendo passare in secondo piano i suoi legami di lunga data con Putin e mettendo al centro del dibattito il suo programma economico. Nel 2017 Macron vinse al secondo turno con circa il 66 per cento dei voti, quasi il doppio del sostegno raccolto da Le Pen. Come scrive Politico, sebbene questa volta non ci sia un singolo sondaggio che dia Le Pen come vincitrice, avere la candidata di estrema destra al secondo posto con un margine così ristretto costituirebbe comunque un importante cambiamento nel panorama politico francese. Jean-Luc Mélenchon 2.0 Nei mesi scorsi ci sono state moltissime candidature nell’area politica della sinistra e dell’estrema sinistra, ma la più popolare (anche a dispetto di una partecipata “primaria” organizzata dal basso) è risultata quella di Jean-Luc Mélenchon. Ha 70 anni, è il candidato de La France Insoumise e nei sondaggi del primo turno è dato in terza posizione. La sua campagna elettorale è andata bene e se ne è parlato molto soprattutto per l’uso di ologrammi che gli hanno permesso di tenere comizi in contemporanea in diverse città del paese. Nous sommes en direct simultanément dans 12 villes de France. Bravo à toutes et à tous ! #MelenchonHologrammes pic.twitter.com/SL023O4RQd — Jean-Luc Mélenchon (@JLMelenchon) April 5, 2022 La campagna per le elezioni presidenziali di Mélenchon è stata definita “rassicurante”. Quando, ancora oggi, i suoi avversari lo rimproverano per il furore che lo ha contraddistinto negli anni passati, in cui le sue posizioni erano molto più radicali, lui rimane sorpreso. «Non riesco a trovarlo», ha risposto mercoledì 30 marzo su France Inter, quando Anne Hidalgo lo accusava di voler creare del «caos» nel paese. Di mese in mese, Mélenchon ha fatto di tutto per allontanare quell’immagine dal suo presente, dando di sé, stavolta, un’immagine molto tranquillizzante. Questa scelta di immagine non è andata di pari passo con l’elettorato che lo sostiene e che secondo gli analisti si è leggermente modificato. Se nel 2017 Jean-Luc Mélenchon aveva ottenuto un sostegno praticamente simile all’interno delle cosiddette professioni intermedie, tra gli operai e gli impiegati, oggi le intenzioni di voto di operai e impiegati sono inferiori a quelle delle professioni intermedie. Risultato: il voto di Mélenchon non è né di classe né popolare. Dal punto di vista delle fasce di età, risulta poi essere molto popolare tra i giovani. Durante la campagna elettorale Mélenchon si è rivolto a diverse tipologie di elettori: ai delusi di Macron, agli ambientalisti di Yannick Jadot e agli arrabbiati «ma non ai fascisti» che vogliono votare Le Pen. Ha insistito soprattutto sulle questioni sociali, ha parlato di scuola e di “rivoluzione femminista” («Troveremo un miliardo per porre fine alla violenza di genere, alla violenza sessuale e ai femminicidi. E se dovremo trovarne due, di miliardi, li troveremo»). Ciò che secondo gli analisti ha invece penalizzato Jean-Luc Mélenchon è la sua posizione sulla guerra in Ucraina che i suoi detrattori gli rinfacciano quotidianamente, ricordandogli la vicinanza dimostrata in passato nei confronti di Vladimir Putin.
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Il canale YouTube della torinese De Marco conta 630 mila iscritti. Ora lavoro al nuovo podcast per Radio Deejay Esiste ancora l’America. Intesa nella sua accezione di sogno, di aspirazione, di fortuna, di realizzazione. E la nuova America non è quella con la Statua della Libertà che vedi dalla nave. L’America, oggi, è la rete. È lì, trapassando il muro del «non si può fare, non c’è spazio, non ci sono risorse» che risiedono molte speranze per chi, magari senza troppe aspettative, prende una cosa che gli piace molto e prova a farne qualcosa. Elisa De Marco è diventata «Elisa True Crime», youtuber da 630 mila iscritti, nell’ottobre di due anni fa quando, per motivi di lavoro, insieme al marito Edoardo Coniglio erano appena arrivati a Shanghai. Era una settimana prima che scoppiasse il Covid. Oggi, per la nostra intervista, ci parla da Fuerteventura dove si è trasferita poco prima dell’estate. Elisa, cosa è successo in meno di due anni che l’ha portata a essere una lady del Crime? «In Cina è difficile in generale ricevere un visto lavorativo, figuriamoci durante il Covid. Mio marito lavorava e a un certo punto ho pensato di prendere il meglio da quella situazione. Mi sono detta: “Ho tempo e posso dedicarmi a quello che davvero mi piace”. E mi sono buttata». La sua passione è il crime. «Da sempre, sì. Non avevo neppure una ringlight, mi sono messa davanti a una finestra per avere un po’ di luce, con il cellulare poggiato a terra. E ho iniziato a raccontare. Il primo è stato un caso americano, molto brutto, quello di Chris Watts che uccise l’intera famiglia per stare con l’amante». Dicono che Torino sia una città magica e noir. Esserci nata e cresciuta l’ha influenzata in questo senso? «Più che altro la “colpevole” è mia mamma. Anche lei appassionatissima di questi temi. Fin da quando ero piccola abbiamo sempre guardato insieme film, programmi televisivi, documentari. Oggi è la prima a vedere i miei video. Ne esce uno ogni lunedì. Prima ne facevo uscire di più, ma adesso ne realizzo alcuni parecchio lunghi, anche di due ore l’uno, e richiedono una preparazione meticolosa». Ha avuto molto successo la versione podcast su Radio Deejay. La prima stagione era incentrata sulle donne, sia vittime sia carnefici. Da Emanuela Orlandi a Gloria Rosboch, da Ylenia Carrisi a Isabella Guzman, e molte altre. Com’è la versione femminile del crime? «La maggior parte dei casi che tratto, alla fine, hanno un serial killer maschio. Quando a esserlo è una donna le cose si fanno più interessanti, se così si può dire». In che modo? «Generalizzo: quando arrivano a compiere delitti tanto efferati lo fanno dopo un lungo calcolo, dietro ci sono storie molto intricate». Ci sarà una prossima stagione? «Non dico ancora nulla, ma stiamo lavorando. Mi piacerebbe, nel futuro, occuparmi di più di casi italiani». Cosa l’ha trattenuta finora? «Sono casi delicati che toccano la nostra pancia. Richiedono ancora più attenzione ed energia per riportare le cose al meglio, senza ledere la sensibilità delle famiglie». Con alcune di queste famiglie lei ha anche lavorato sul suo canale. «Mai avrei immaginato che avrei potuto avere questo successo. Oggi lavoro insieme a mio marito e pensiamo sia bello metterci a disposizione delle famiglie di alcuni casi irrisolti. In un certo senso “restituisco” ciò che sto ricevendo». C’è una storia che le piacerebbe affrontare? «Mi piacerebbe molto mettermi in contatto con la mamma di Denise Pipitone. C’è anche un caso torinese, di parecchio tempo fa, un femminicidio brutto che ancora non rivelo per rispetto della figlia della vittima che mi ha cercata». Perché piace così tanto? «Credo dipenda dal fatto che io racconto come se fossimo due amiche che stanno prendendo un caffè». E l’accento piemontese? «Ogni tanto qualcuno me lo fa notare nei commenti. Per me non è mai stato un problema. Amo gli accenti. E poi mi sembra che conferisca più personalità». Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
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Droga e omicidi. ecco le città più violente del mondo. Il record va al Messico - la Repubblica Abbonati Menu Cerca Notifiche Abbonati Abbonati Gedi Smile Menu di navigazione Contenuti per gli abbonati Gedi Smile Sezioni Biblioteca Commenti Cronaca Cultura Design Economia Enigmistica Esteri Giochi Green&Blue Il Gusto Italian Tech La Zampa Londra Moda e Beauty Mondo Solidale Motori Podcast Politica RepTv Rubriche Salute Scienze Scuola Repubblica@Scuola Robinson Serie Tv Spettacoli Sport Vaticano Viaggi Edizioni Locali Roma Milano Bari Bologna Firenze Genova Napoli Palermo Parma Torino Speciali Oncologia Salute Seno Giochi senza barriere Europa, Italia Repubblica dei cavalli Inserti Affari&Finanza D Il Venerdi Robinson Servizi Annunci Aste Giochi e Scommesse Guida Tv Ilmiolibro Lavoro Meteo Necrologie Oroscopo Edicola Joy.it Consigli.it Dizionari Ricette Newsletter Preventivi auto Redazione Scriveteci Esteri Esteri Droga e omicidi. ecco le città più violente del mondo. Il record va al Messico di Isaia Sales Gente in strada osserva la polizia durante una operazione anti-droga a Città del Messico In testa alla classifica annuale delle metropoli con il maggior numero di delitti Celaya, 200 km dalla capitale. Altri sei capoluoghi messicani nella top 10: il traffico di stupefacenti fra le principali cause di destabilizzazione L'ascolto è riservato agli abbonati premium 04 Luglio 2021 5 minuti di lettura Nessuna città italiana compare tra le prime 50 più violente al mondo per numero di omicidi. Né si trovano altre città europee in questa particolare graduatoria, tantomeno asiatiche, australiane o canadesi. La lista viene stilata ogni anno da unâorganizzazione non governativa messicana (il âConsiglio cittadino per la sicurezza pubblica e la giustizia penaleâ) usando come indice il numero di morti ammazzati ogni 100mila abitanti. Le prime tre classificate cambiano di anno in anno, ma non cambia un dato di fondo: la testa è quasi sempre occupata da città dellâAmerica Latina (messicane, honduregne, salvadoregne, guatemalteche, venezuelane, brasiliane). Sono inoltre stabilmente presenti anche alcune medie città degli Stati Uniti e alcune del Sudafrica. Insomma il problema delle città più violente al mondo riguarda il continente americano (46 su 50), in particolare la sua zona centrale, e una parte dellâAfrica, luoghi e continenti diversissimi per condizioni politiche, economiche e sociali. Le ragioni della geopolitica Alla luce di questi dati, dunque, non si può dire che sia solo il sovraffollamento o la miseria la causa principale della violenza urbana: moltissime megalopoli hanno in questo momento storico tassi bassi di omicidi (tutte le grandi città cinesi, New York, Tokyo, Londra, Istanbul, Seul, ecc.), così come non sono ai vertici i grandi agglomerati urbani con condizioni sociali e abitative disperate. Quello che decide il primato è il controllo del traffico della droga abbinato a determinate condizioni di vita urbana. Il fatto che al primo posto ci sia una città messicana (Celaya), che altre sei si collochino tra le prime dieci e che altre 17 città di quella nazione (cioè oltre il 35 per cento del campione) si trovino tra le prime 50 dimostra come il controllo delle frontiere tra una narco-nazione qual è il Messico e il principale luogo di consumo, cioè gli Usa, sia da almeno 25 anni la causa principale dello scatenarsi della violenza omicida. Messico, la moglie del Chapo si dichiarerà colpevole. L'ex reginetta di bellezza parlerà davanti ai giudici? di Daniele Mastrogiacomo 09 Giugno 2021 à lungo la frontiera tra queste due nazioni che si svolge in tempi di pace una guerra contemporanea che non sembra avere mai fine. E a ridosso del Messico, per entrare nel mercato americano degli stupefacenti, premono altri Paesi vicini. Il Messico solo nel 2019 ha visto morire in maniera violenta ben 34.982 persone, cioè 95 al giorno, 4 ogni ora, come ha documentato su questo giornale Giovanni Porzio. à oggi lâepicentro mondiale della violenza omicida. Per fare un confronto con lâItalia, va ricordato che nella nostra nazione nel 2019 si sono verificati 315 omicidi, numero che è sceso a 271 nel 2020, il più basso della nostra storia unitaria. In una sola città media messicana si compiono in un anno più omicidi di quelli che si compiono in Italia. Insomma sulla graduatoria incidono motivi geopolitici in relazione al controllo del traffico di droghe. Infatti le due grandi città messicane di frontiera con gli Usa, Tijuana e Ciudad Juárez (questâultima descritta magistralmente, con il nome di Santa Teresa, da Roberto Bolaño come lâincarnazione urbana del male in 2666), sono al secondo e al terzo posto. Da notare che MedellÃn (la città colombiana dominata da Pablo Escobar, il più famoso narcotrafficante della storia) non compare da alcuni anni. La Colombia colloca solo due città , a dimostrazione di come lâefficacia di unâazione repressiva si deve sempre coniugare con fattori di geopolitica: il Messico ne ha preso il ruolo di principale luogo logistico dello smistamento della droga. La fame dei consumatori Nella splendida trilogia di Don Winslow sul narcotraffico tra Messico e Usa, vengono fatte affermazioni del tutto convincenti: «Le cose non cambieranno mai finché esisterà questo insaziabile appetito per le droghe. Che ha origine dalla domanda prodotta dagli Usa. Il cosiddetto problema messicano della droga è in realtà il problema americano della droga». Insomma, se questa classifica la si guarda con lâausilio di una carta geografica si comprende bene come il problema della violenza nel mondo in questa epoca storica è in grandissima parte riconducibile al controllo del traffico degli stupefacenti. E le megalopoli non sono necessariamente le più pericolose e violente. Nella criminologia moderna il peso della produzione, del commercio e del consumo delle droghe ha cambiato radicalmente i parametri di interpretazione della violenza, ma su ciò gli scienziati sociali non traggono tutte le conseguenze. Lâofferta criminale di droghe è sorretta da una domanda di massa, che ha raggiunto la cifra di 25 milioni di tossicodipendenti nel mondo e di 250 milioni di consumatori occasionali. Messico: uccisi 5 funzionari elettorali in Chiapas 06 Giugno 2021 Da notare il ruolo centrale del Brasile che colloca ben 11 sue città in questa classifica. Le tre città africane in graduatoria sono tutte sudafricane, a partire da Città del Capo. Anche qui il controllo del traffico di droghe gioca un ruolo importante, ma assieme alle condizioni miserevoli di alcuni sobborghi. Caso particolare è quello delle cinque città statunitensi. Addirittura St. Louis compare al settimo posto, poi più distanziate troviamo Baltimora, New Orleans, Memphis e Detroit. Le grandi metropoli non compaiono. Ed è ancora più singolare che nessuna delle città americane di confine con il Messico presenta alti tassi di crimine. Come si spiega? Se si analizza il caso di St. Louis, si potrà verificare come anche qui lâalto numero di omicidi commessi è legato al traffico e al consumo di droga. In particolare avendo deciso di abbassare il costo dellâeroina, ciò ha prodotto una accesa conflittualità tra le varie gang. Meno costa la droga, più clienti bisogna procacciarsi per mantenere alti i profitti. Inoltre, negli Stati Uniti, la facilità con cui è possibile acquistare armi incide indubbiamente negli indici omicidiari. Messico, ancora sangue sulle elezioni. Cinque pallottole per Alma Barragán, uccisa dopo il comizio di Daniele Mastrogiacomo 26 Maggio 2021 La teoria del generale declino della violenza, che secondo il neuroscienziato Steven Pinker caratterizza la nostra epoca, al punto da considerarla come la più âpacificaâ della storia, ha qualche intoppo di fronte al dato che è il commercio delle droghe a causare il più alto numero di omicidi. Mai le droghe avevano assunto un ruolo economico così importante e un consumo cosi di massa. Sta di fatto che uno dei commerci più ricchi al mondo è nelle mani di organizzazioni criminali e ciò causa un numero elevato di morti ammazzati laddove si concentra geograficamente lâincontro tra domanda e offerta, cioè tra Messico e Usa. In Europa le città con i tassi più alti sono Kaunas e Vilnius in Lituania, anche se imparagonabili con quelli latino-americani, statunitensi e sud- africani. Seguono Marsiglia, Bratislava e Bruxelles. Basso è il tasso nelle altre capitali mentre Roma è ampiamente sotto lâ1 per cento. I paradossi italiani In Italia, Napoli ha i tassi più alti rispetto alle altre metropoli, ma è scavalcata da Nuoro e Vibo Valentia tra i capoluoghi. Anche nella città partenopea la violenza del passato non è paragonabile a quella di oggi. Il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti è passato dal 7,93 per cento del triennio 1989-1991 al 3,16 del 2013-2016 e si è ridotta allâ1 per cento nel 2019. Se poi il calcolo lo si fa in rapporto al numero complessivo dei reati commessi, cioè includendo anche quelli non violenti, Napoli e la sua provincia sono solo al diciottesimo posto, mentre Palermo non compare neanche tra le prime venti . Nella graduatoria delle province con più reati Milano è prima, seguono Firenze e Rimini, mentre Roma è sesta, e le prime due province meridionali sono Napoli e Foggia. Paradossalmente si potrebbe dire che senza mafia e camorra, Napoli e Palermo potrebbero essere tra le città e le province meno pericolose al mondo! Messico, assolto il narcotrafficante El Güero, ex braccio destro del Chapo di Daniele Mastrogiacomo 07 Maggio 2021 Mentre Vibo Valentia è la prima città per numero di omicidi rispetto alla popolazione, quella con più denunce per reati sessuali è Trieste; Roma ha il più alto numero di denunce per spaccio di droghe, mentre Napoli è prima per furti, scippi e rapine a mano armata. Ma Milano in assoluto ha il più alto numero di reati denunciati. In Italia i delitti in famiglia superano da tempo quelli in strada, i femminicidi quelli delle organizzazioni di stampo mafioso. Lâinvenzione delle periferie In conclusione: il controllo del narcotraffico è al centro della violenza omicida nelle città del continente americano, mentre in Europa la violenza si concentra attorno al disagio urbano, in particolare nelle periferie delle grandi città . Lâinvenzione delle periferie è una delle cose di cui meno possono vantarsi la cultura, la politica e lâurbanistica occidentali, un problema a cui non si pensa minimamente di fare fronte nonostante la quasi scientifica dimostrazione del loro carattere criminogeno. In Italia, invece, le mafie sembrano avere addomesticato la violenza piegandola al servizio degli affari, diversamente dai narcotrafficanti latino-americani. Eccezione è Napoli dove lâassoggettamento della violenza agli affari non è del tutto completato e il disagio urbano provoca una immediata interconnessione con comportamenti devianti nel sottoproletariato urbano: uno dei pochi casi tra le grandi città europee in cui disagio e crimine sono così vicini. Oggi non è lâimmigrazione la principale causa della violenza urbana: sono i traffici attorno alle droghe, la vita delle periferie e le deprivazioni economiche e sociali. Argomenti droga città violenza omicidi messico stati uniti-messico Questo è un articolo a pagamento, ma oggi te lo regaliamo.Buona lettura! LEGGI Chiudi Leggi anche La musica dellâItalia ignorata Diseguaglianze, lâItalia non è un Paese per poveri Tensione Usa-Messico: âIl presidente Obrador pagato dai narcosâ. E lui per vendetta svela il cellulare della capa del New York Times © Riproduzione riservata Raccomandati per te Sei uova, una scamorza e la legalità Nati e morti a Gaza durante la guerra: la tragica vita dei gemelli di 4 mesi Wissam e Naeem Troppo lavoro per Camilla: la regina prende una settimana di riposo Usa, tramonta un altro pezzo degli anni Ottanta: il destino fantasma delle televisioni via cavo Il Network Supplementi Repubblica Affari e Finanza D Il Venerdì Robinson Gedi News Network La Stampa Il Secolo XIX Huffington Post Italia Fem Formula Passion Quotidiani locali Gazzetta di Mantova Corriere delle Alpi Il mattino di Padova Il Piccolo La Nuova Venezia La Provincia Pavese La Sentinella del Canavese La Tribuna di Treviso Messaggero Veneto Periodici Le Scienze Limes National Geographic Radio DeeJay Capital m2o Iniziative Editoriali In edicola Biblioteca Digitale Servizi, tv e consumi Annunci Ilmiolibro Necrologie Miojob Enti e Tribunali Meteo Joy Tvzap Dizionario italiano Dizionario inglese/italiano Consigli.it Partnership LAB MyMovies AutoXY Formula Passion Sport.it Mappa del sito Redazione Scriveteci Per inviare foto e video Servizio Clienti Pubblicità Cookie Policy Privacy Codice Etico e Best Practices GEDI News Network S.p.A. - P.Iva 01578251009 - ISSN 2499-0817
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Durante una riunione del Consiglio dei ministri il governo ha approvato un decreto legge che tra le altre cose introduce nuove norme per contrastare la violenza di genere. I decreti legge possono essere approvati solo in casi di estrema necessità e urgenza ed entrano in vigore immediatamente, dal momento della firma del presidente della Repubblica: entro 60 giorni, però, il Parlamento deve convertirli in legge. Sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e in ambito domestico di Istanbul, recentemente ratificata dal Parlamento, il decreto mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking). Vengono quindi inasprite le pene quando: – il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di minore degli anni diciotto; – il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza; – il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner. Un secondo gruppo di interventi riguarda il delitto di stalking: – viene ampliato il raggio d’azione delle situazioni aggravanti che vengono estese anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché a quelli perpetrati da chiunque con strumenti informatici o telematici; -viene prevista – analogamente a quanto già accade per i delitti di violenza sessuale – l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori, che viene, inoltre, incluso tra quelli ad arresto obbligatorio. Sono previste poi una serie di norme riguardanti i maltrattamenti in famiglia: – viene assicurata una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento dei relativi procedimenti penali; – viene estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno stato di particolare vulnerabilità; – viene esteso ai delitti di maltrattamenti contro famigliari e conviventi il ventaglio delle ipotesi di arresto in flagranza; – si prevede che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria – può richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Infine, è stabilito che i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di stalking sono inseriti tra i delitti per i quali la vittima è ammessa al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito. Ciò al fine di dare, su questo punto, compiuta attuazione alla Convenzione di Istanbul, recentemente ratificata, che impegna gli Stati firmatari a garantire alle vittime della violenza domestica il diritto all’assistenza legale gratuita. Sempre in attuazione della Convenzione di Istanbul, si prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione (Tutela vittime straniere di violenza domestica, concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari come già previsto dall’articolo 18 del TU per le vittime di tratta); Infine, a completare il pacchetto, si è provveduto a varare un nuovo piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere che prevede azioni di intervento multidisciplinari, a carattere trasversale, per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza, formare gli operatori.
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Si muove lenta Federica Pellegrini e non le era mai capitato prima, giusto a dieci giorni dallo scadere della gravidanza lascia che il ritmo lo detti la voluminosa pancia che ha cambiato pure la velocità dei pensieri. Quelli, adesso, dopo cinque meditate Olimpiadi e sei ori Mondiali forgiati nel tempo, viaggiano rapidi e urgenti. Ha fatto tutto quel che voleva prima di diventare mamma? «Direi di sì, Ho imparato a sciare al pelo e dovrei essermi tolta sfizi da brividi per un po’, ho ancora tanti viaggi in programma e li metto in pausa. Almeno smetto sentirmi dire “Pronta per un figlio? ”». Non è che poi le chiedono la seconda o il maschio? «No, penso di aver dato il mio contributo alla società (ride). Mi aspettavo che la gente si chiedesse quando sarei diventata mamma, non con tanta insistenza. Sono passata dal dover nuotare al dover figliare. C’erano messaggi invadenti sul profilo Instagram che fortunatamente si è automoderato con reazioni tipo “finitela”». Chi prevale? La parte evoluta o gli zotici? «C’era una quota di romanticismo nella curiosità, purtroppo pure tanta arretratezza: in Italia c’è ancora chi vede la donna nella casella mamma». Crescerà una figlia femmina in questo Paese, lo stesso dove i femminicidi, nel 2023, hanno superato i 100. «Già. La morte di Giulia Cecchettin ci ha segnato perché, quando abbiamo saputo che era sparita, speravamo fosse per un’altra ragione eppure, dentro di noi, già sapevamo. Siamo davanti a… un’epidemia, si può dire così? ». Si può. Come si ferma? «Educando gli uomini. Cecchettin ha rotto gli argini, anche per le parole della sorella che ha dato il giusto peso a ogni dettaglio e fatto arrivare il concetto di patriarcato alle orecchie di chi non l’ha mai voluto prendere in considerazione come problema». Quanto è un problema oggi? «È stato la base delle famiglie fino alla generazione precedente alla mia e io ho 35 anni. Non si cancella il retaggio di secoli in un attimo. Ci sono persone fragili che davanti a una rivoluzione femminile destinata a portare alla parità non reggono». È una scusa? «No, è un movente, assurdo quanto si vuole, ma reale». Se è questione di tempo, sua figlia avrà a che fare con persone più mature e risolte? «Non ho molto speranze. Preferisco darle gli strumenti per interagire con società come questa. Prenda il padre espulso da un palazzetto di basket dopo aver urlato all’arbitra che si meritava di fare la fine di Cecchettin… Lui come li tira su i figli?». Che cosa direbbe a quell’arbitra? «Di non fermarsi e ho letto che non lo farà. Non possiamo cambiare strada per paura o non andiamo avanti». Dirà mai a sua figlia come si deve vestire? «No, però io credo in una impostazione che, in questo momento storico, viene scambiata per limite ideologico. Sono stata educata all’etica del buongusto. Ringrazio mamma per avermela insegnata e voglio tramandarla a mia figlia: c’è un limite tra eleganza e volgarità». Non è soggettivo? Alcune sue foto hanno ricevuto attacchi moralisti. «Per certi bastano la gonna corta o il tacco 11 e stai provocando. No, mi riferisco alla consapevolezza: mostrarsi per chi si è, scegliere senza condizionamenti». Sua madre è per lei un modello da sempre. C’è la madre di un film, di un libro a cui ruberebbe qualche cosa? «Ho appena visto un film molto leggero, natalizio, “Bad Moms 2” con ste mamme che si accampano dalle figlie. Una è maniaca del controllo, l’altra rock e la terza nostalgica. Ho visto l’amore in tutte e tre: insegnare la vita, dare peso al divertimento e non perdere di vista chi ami sono qualità che, al netto dell’ironia, prendo». Quale è il primo ricordo di sua madre? «È mediato: lei con un costume a pois bianchi e azzurri a bordo piscina, una di quelle da bambini. Strano, so che è una fotografia e la percepisco come memoria». Cosa ha detto sua madre quando ha saputo che era incinta? «Ha pianto. Aspettava la nipote da quattro cani». Invece lei insisteva a nuotare. Parigi sarà la prima Olimpiade senza Pellegrini in vasca dal 2004. «Questi sarebbero stati i mesi in cui domandarsi se stessi facendo il massimo, in cui correggere particolari che portassero alla perfezione. Mi manca e insieme non vorrei mai più tornare a quell’agitazione. Vivi di uno stato d’animo per decenni, ne fai il perno e poi, di colpo, non ti appartiene più». Ceccon, detentore del record del mondo dei 100 dorso, è uno dei nomi più importanti della nazionale e pure uno che ama stare per i fatti propri. Ci si rivede? «Parzialmente, ha un infinito talento, ovvio. Io avevo fasi in cui abitavo un mondo a parte, in altre sentivo il gruppo e l’energia delle staffette, pure se le mie non potevano ambire al podio mentre le sue sì. Lui però è il prototipo del campione contemporaneo: è centrato e penso abbia molta fame, caratteristica fondamentale. Lo spiego alla Fede Academy che ho aperto con mio marito Matteo Giunta, lì vedo atteggiamenti che preoccupano». Quali? «Adolescenti che vogliono essere i numeri uno prima di scoprire chi sono. Motivati forse dalle ambizioni dei genitori o dall’emulazione». Lei non voleva essere la numero uno? «Sì, ma ero affamata di quel desiderio, era mio, radicato. Respiravo per quello. Qui parliamo di raggiungere un successo immaginario, quel tipo di confusione che ti porta a dire cento cose su come senti di poter nuotare e poi lasci la cuffia in camera». Il suo collega Paltrinieri è stato ad Atreju, alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia e ha dovuto rispondere a qualche contestazione social. «C’ero stata anche io, altro periodo, si notava meno. Il pubblico deve capire che lo sportivo è un animale strano: andare alla festa di un partito non significa rappresentarlo: siamo super partes per definizione». Per Alberto Tomba, Sinner è pronto a entrare nel vostro esclusivo club di trascinatori. Fino a qui sareste in tre, voi due e Valentino Rossi. «Me lo ha annunciato. Mi ha fatto piacere sapere di esserci. Sinner è come Ceccon: quelli pronti che fanno tutto in progressione costante. Quando io salivo sul blocco poteva succedere di tutto, loro possono perdere, non sballare. Sinner farà meno fatica di noi, il tennis è mediatico, io e Alberto siamo partiti da nuoto e sci e diventati simbolo. Ci va carattere». Un flirt passeggero con Tomba c’è mai stato? «No, siamo diventati veri amici tardi. Io stavo quasi per ritirarmi, ero impegnata e nonostante qualche bislacco gossip Matteo non è mai stato geloso di lui. Quella gelosa sono io». La paternità cambierà suo marito? «Spero. Quando nuotavo riuscivo a destabilizzarlo ogni tanto, ora è tornato imperturbabile come è di carattere… Una figlia femmina qualche cardine glielo toglie».
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Vaccini prioritari per le persone con disabilità e i loro caregiver, potenziamento del Fondo per le non autosufficienze (Fna), più risorse per il Dopo di noi volto a garantire un futuro adeguato alle persone più fragili dopo la scomparsa dei genitori. E ancora: più investimenti per l’inclusione lavorativa, visto che in Italia solo un disabile su tre in età lavorativa ha un’occupazione, garantire continuità didattica per tutti i circa 270mila alunni disabili, più attenzione ai progetti di Vita indipendente e all’abbattimento delle barriere architettoniche soprattutto nel Sud, ma non solo. Sono questi i temi principali in agenda su cui associazioni e famiglie chiedono un impegno concreto alla nuova ministra della Disabilità, la leghista Erika Stefani. Il premier Mario Draghi ha creato un ministero ad hoc, però senza portafoglio, ed è la seconda volta che accade dopo il precedente del governo Conte 1. In quell’occasione le organizzazioni, gli operatori del settore e le famiglie si erano divise sulla creazione di un ministero specifico, visto da una parte come “svolta epocale” e dall’altra invece come “rischio flop”. “Le aspettative erano significative ma i risultati per migliorare la qualità delle donne e uomini con disabilità sono stati pochi”, sostiene la Fand (Federazione tra le associazioni nazionali delle Persone con disabilità). Allora l’esponente politico che aveva ricoperto quel ruolo era il leghista Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia con delega alla disabilità. La neo-ministra è a sua volta esponente del Carroccio ed è tornata a far parte di un esecutivo dopo l’esperienza nel governo gialloverde, quando dal 1 giugno 2018 al 5 settembre 2019 è stata ministra per gli Affari regionali e le Autonomie. “Non si è mai occupata di disabilità, ci domandiamo dove sia finita la competenza tanto sbandierata per la formazione del governo Draghi?” si domanda il presidente del Comitato famiglie disabili lombarde. Ma al di là di chi ricoprirà il ruolo, a far discutere nei giorni scorsi, dopo che a sollevare il tema è stato il consigliere regionale dem Iacopo Melio, è stata proprio la decisione di istituire un ministero ad hoc che secondo molti sarebbe solo “discriminante” e non apporterebbe veri benefici al mondo della disabilità. Il nodo vaccini – Contattato da Ilfattoquotidiano.it, il presidente della Fand Nazaro Pagano ha messo in chiaro quali sono secondo lui gli atti prioritari da realizzare: “Rispetto alla prima esperienza bisogna sicuramente fare meglio, con il potenziamento delle risorse da destinare alle politiche sociali, di cura e assistenza, di sostegno attivo alle persone disabili e le loro famiglie”. Secondo Pagano “con la pandemia ancora in corso, ora il primo punto su cui il nuovo ministro dovrà lavorare con il ministro della Salute e i colleghi del governo è il Piano di vaccinazione, dando effettiva priorità ai disabili e ai loro caregiver”. Il numero uno di Fand, infatti, fa sapere che “insieme ad altre organizzazioni nazionali siamo già al lavoro per organizzare nei prossimi giorni un incontro con la neo-ministra”. In agenda il nodo vaccini, ma anche le tante tematiche che si sono aggravate con la pandemia, “come l’inclusione lavorativa delle persone fragili e il diritto allo studio degli studenti disabili. Diremo alla ministra che nessuno deve essere dimenticato come purtroppo è accaduto in diverse occasioni anche nella prima fase dell’emergenza sanitaria”. “Potenziare la legge sui caregiver” – Le conseguenze del Covid, infatti, si sono fatte sentire soprattutto tra le famiglie con persone non autosufficienti a carico. Come in Lombardia, una delle Regioni più colpite durante la prima ondata. “Auspichiamo che possa essere migliorata subito la legge sui caregiver con molte più risorse da destinare, anche perché l’Italia risulta troppo indietro rispetto a molti partner europei“, dice al Fatto.it Fortunato Nicoletti, presidente del Comitato famiglie disabili lombarde. “Chiediamo che vengano aumentati i sostegni economici al Fondo per le non autosufficienze, al momento insufficienti per soddisfare le esigenze delle famiglie”. L’agenda dei temi da affrontare è fitta e molte organizzazioni si sono sentite “tradite” dalle tante, forse troppe, promesse fatte negli ultimi anni. “L’accessibilità, l’eliminazione delle barriere architettoniche, le pari opportunità e l’inclusione sociale sono i grandi fari da seguire con la doverosa attenzione” aggiunge Nicoletti. Secondo il presidente del Comitato “il fatto che Stefani sia una leghista così come il presidente della Regione Lombardia potrebbe essere un aspetto positivo, per poter attivarsi meglio e attuare più velocemente quei provvedimenti che spesso rimangono fermi tra gli uffici dei ministeri romani e il Pirellone”. Nicoletti sottolinea però “che non bisogna creare disuguaglianze territoriali e dare pari dignità e opportunità a qualsiasi disabile a prescindere dal luogo di residenza. La pandemia ha evidenziato che esistono cittadini di serie A e di serie B”. Gli altri dossier, come il Codice unico fermo da 2 anni – Le associazioni insistono quindi sul potenziamento del Fna, accresciuto di 90 milioni nel 2020 ma ritenuto ancora troppo esiguo, e soprattutto sulla scrittura del Codice Unico per le persone con disabilità, votato dal Consiglio dei ministri con l’approvazione del decreto Semplificazioni a fine 2018 ma rimasto dopo oltre 2 anni senza contenuti e piani operativi. “Bisogna intervenire subito – ripetono le associazioni contattate – sugli aspetti che sono peggiorati a causa della pandemia e che riguarderanno direttamente o indirettamente il nuovo ministro della Disabilità: il sostegno scolastico, l’assistenza domiciliare, il potenziamento di servizi socio-psico-assistenziali, i Centri diurni per disabili (Cdd), le Residenze sanitarie disabili (Rsd), i progetti di Vita indipendente”. Un ministero per la Disabilità, le perplessità – Tutta la partita ora sarà gestita da Stefani, ma le associazioni non sono sicure che un dicastero ad hoc – tra l’altro senza portafoglio – sia la soluzione ideale. Rispetto al primo tentativo del Conte 1 c’è, infatti, maggiore cautela e minore entusiasmo: “La prima volta che fu istituito il dicastero penso che avesse bisogno di un certo rodaggio e di una necessaria continuità amministrativa, dando finalmente concretezza a quelle esigenze e bisogni che tanti di noi del mondo associativo auspicavamo e chiedevamo di realizzare alla politica– dice Pagano della Fand – Vogliamo vedere i risultati piuttosto che gli impegni verbali, noi faremo sempre la nostra parte”. Più duro il giudizio di Nicoletti in Lombardia: “Siamo assolutamente contrari ad un ministro per la Disabilità perché vuol dire certificare una categoria, perché la disabilità deve entrare in ogni ministero con le sue tante sfumature e particolari bisogni”. A suo parere, inoltre, “non è stato prodotto quasi nulla per migliorare per aiutare le famiglie dei disabili e questo purtroppo non fa ben sperare. Francamente siamo stufi delle promesse, la pandemia ha scoperchiato le tantissime fragilità sui temi come quello del diritto allo studio per tutti, assistenza domiciliare, servizi sociali. Ancora una volta sono colpiti i soggetti più deboli in un momento dove bisogna aiutarli”. I dubbi del Terzo settore sulle competenze di Stefani – Sullo sfondo ci sono poi i dubbi delle associazioni sulle competenze in materia della neoministra. Stefani non ha un curriculum legato al mondo del Terzo settore, dell’associazionismo che si prende cura dei disabili. Nel 2009 si era presentata alle Comunali come candidata del Carroccio a Trissino, è stata eletta e ha ricoperto le cariche di vice-sindaca e assessore all’Urbanistica. La ‘svolta’ politica c’è stata nel 2013, quando alle Politiche è stata eletta senatrice con la coalizione di centrodestra. Durante la legislatura, è stata vicepresidente del gruppo Ln-Aut dal 15 luglio 2014, membro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, componente della commissione Giustizia. Inoltre, ha fatto parte della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su violenza di genere; del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa; della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Era anche membro della commissione di inchiesta sul rapimento e morte di Moro. Alle elezioni del 4 marzo 2018 ha ripetuto il successo delle precedenti Politiche ed è stata rieletta nel collegio uninominale di Vicenza. Poi è approdata, con Conte, al ministero chiamato ad occuparsi dei rapporti con le Regioni. Ora torna sotto i riflettori con l’esecutivo Draghi. Stefani durante la prima esperienza come ministra aveva presentato le iniziative per il turismo accessibile definendole “un’occasione di inclusione sociale”. “E’ l’unico suo riferimento alle persone disabili? Troppo poco” rispondono le associazioni.
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Ieri mattina Padova si è svegliata avvolta da un grigiore diffuso e un’aria gelida e umida. Era come se tutta la città fosse congelata e non riuscisse a mettersi in movimento, come invece sempre accade nelle prime ore dei giorni lavorativi. Tutto era fermo e silenzioso ma si avvertiva ovunque la tensione: la città era chiusa in sé stessa, quasi a concentrarsi per trovare così la forza di accompagnare Giulia e la sua famiglia nella cerimonia funebre. Non è scontato scegliere di accostarsi al dolore e di partecipare ad esso, accogliendone una parte in sé. Eppure ai funerali di Giulia, in chiesa o in piazza, c’erano migliaia di donne e uomini che hanno voluto esserci. Io ci sono andata perché donna, madre e docente, chiamata in causa quindi sotto molteplici aspetti da questo femminicidio. Ma anche perché membro di una comunità che di fronte ad un dolore così grande sente il bisogno di stringersi e farsi coraggio. Sentimento che è stato colto con grande sensibilità umana e politica dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che ha firmato l’ordinanza per il lutto regionale e mobilitato i sindaci dei Comuni veneti. Quando una tragedia così grande colpisce una comunità è importante sapere di esserci l’uno per l’altra, senza se e senza ma; e devo ammettere che in questo contesto si è sentita la mancanza della presidente del Consiglio: la sua presenza, in quanto donna, madre e guida del Paese sarebbe stata importante. Importanti invece sono state le parole del papà di Giulia. Con una lucidità e una pacatezza fuori dal comune, Gino Cecchettin ha tenuto un discorso perfetto. Ha detto tutto quello che si doveva dire, esattamente come lo si doveva dire. Dall’altare, davanti alla bara bianca della figlia, ha fatto risuonare le parole «femminicidio» e «patriarcato», due parole che una parte della stampa e della politica tenta di evitare, nascondere, negare. E le ha usate con la fermezza di chi sa che il cambiamento non può che nascere dall’analisi e dalla comprensione della realtà; e che il primo atto d’amore verso Giulia e tutte le donne vittime di femminicidio sta nel rendere loro giustizia. Giustizia che deve partire dal superamento di quella cultura patriarcale che è un terreno fertile per la violenza di genere. Giustizia che chiama ad un’azione politica forte, bipartisan, per prevenire le violenze, proteggere le vittime e punire i colpevoli. Gino Cecchettin ha chiamato in causa tutti: famiglie, scuola, società civile e mondo dell’informazione. Per quest’ultimo ha riservato parole molto forti che mi hanno profondamente colpita, forse perché io stessa ho sperimentato sulla mia pelle la violenza di chi usa i media per fomentare odio e creare contrapposizione, anche brutale. Il papà di Giulia, richiamando le parole di un meraviglioso album di Fabrizio De André, ci ha ricordato che anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti. E così, tra le lacrime e l’impotenza, l’indignazione e la rabbia, in un silenzio irreale ed assordante, rotto solo da lunghi applausi, la città di Padova ha abbracciato la sua giovane studentessa strappata alla vita da chi la voleva solo per sé, come un oggetto che non ha alcun diritto alla libertà e al proprio progetto di vita. E sono certa che in molti, lasciando la cerimonia, si siano portati dietro quella angosciosa sensazione di sapere che in fondo sì, siamo tutti per sempre coinvolti.
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Nel Paese che rumina i problemi anziché masticarli e digerirli una volta per tutte, la classe politica conosce due soli modi di (non) affrontare l’“emergenza sicurezza”, sempre sull’onda emotiva della cronaca nera. Due modi che sono l’uno l’opposto dell’altro, ma entrambi inutili, perché partono dall’ignoranza o dalla malafede. Il primo, tipico della vecchia sinistra, è […] Liberalizzazioni – La legge “concorrenza” sta spaccando il Pd: fiducia sulla norma che favorisce il renziano Chicco Testa (Sorgenia) e il colosso francese Edison Passato scomodo – Il neo-presidente è filo-Ue: l’impunità gli è garantita Nuova sinistra, L’imprenditore filosofo Cucinelli da Minoli tesse le lodi dell’ex premier: siamo amici, è uno vero Cronaca L’inchiesta infinita Salerno-Reggio, nove arresti: “Appalti truccati” A quasi un anno dal sequestro del tratto dell’autostrada A3 che va dallo svincolo di Rosarno (Reggio Calabria) a quello di Mileto (Vibo Valentia), ieri è scattata l’operazione “Chaos” della Guardia di finanza. Nove arresti e 13 milioni di beni sequestrati. In manette sono finiti funzionari dell’Anas e imprenditori che si erano aggiudicati l’appalto di […] di Lu. Mu. Velletri, Si valuta la posizione della madre Muore il bimbo di due anni caduto nel pozzo come Alfredino Ha lottato tra la vita e la morte per quasi due giorni, ma alla fine non ce l’ha fatta. È morto ieri pomeriggio il bimbo di 23 mesi caduto sabato sera in un pozzo profondo 9 metri a Velletri, vicino Roma. È deceduto per arresto cardiocircolatorio all’ospedale pediatrico Bambino Gesù, dove era stato trasportato in […] di RQuotidiano
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“La fragilità dei ragazzi è un aspetto ancora troppo trascurato. L’immaturità affettiva e relazionale, l’incapacità di gestire le frustrazioni, la crisi di identità degli adulti: tutti elementi, collegati, che li portano a vivere concentrati su sé stessi. Non imparano che l’amore non si può imporre, e non sanno gestire la rabbia”. Emi Bondi, presidentessa della Società italiana di psichiatria, premette: “Non possiamo entrare nello specifico dell’omicidio di Giulia Cecchettin, perché non conosciamo direttamente il caso e vi sono indagini specifiche in corso”.
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L’attrice in cattedra Paola Cortellesi e le fiabe sessiste: “Se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe accoltellata?” Nel suo lungo discorso alla Luiss l’attrice, che ha sbancato i botteghini con il film “C’è ancora domani”, esorta gli studenti: « Correte il rischio di sembrare strani o pazzi, se questo significherà scegliere. Siate straordinari, concedetevi il dubbio, che è la vostra libertà» Eleonora Camilli
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Si è parlato di prevenzione dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, se ne parla dopo ogni femminicidio, se ne parla da anni. I femminicidi non caleranno nell’immediatezza e continueranno con i numeri attuali, fino a quando sarà fatta una rivoluzione culturale e si sarà investito in politiche sociali. Così come il precariato e l’assenza di garanzia di diritti e i bassi salari non facilitano le donne nell’uscita dalla violenza. Gli interventi a sostegno delle vittime di violenza possono essere efficaci in un contesto sociale che grazie a programmi politici, favorisca la cura di situazioni di disagio e la possibilità di progettare un futuro ma i governi che si alterano non vedono oltre gli spot elettorali per la conservazione del consenso popolare. L’attuale governo ha scelto, come gli altri che lo hanno preceduto, di occuparsi solo della punizione degli autori di violenza e della protezione delle vittime che si rivolgono all’autorità ma poco di prevenzione. Ovvero ha puntato ancora sulla risposta securitaria. Il 22 novembre in Senato è stato approvato all’unanimità con 157 voti favorevoli, il disegno di legge della ministra Roccella con nuove norme di contrasto sulla violenza contro le donne. Il testo ora è legge. Diciannove articoli in cui si rafforzano le misure di protezione per le donne che denunciano violenze. Si apportano indubbiamente dei miglioramenti del quadro normativo esistente ma è fuorviante presentare queste norme come azione di prevenzione. “Ci sono correttivi importanti – ha detto Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente D.i.Re – il coordinamento tra l’autorità giudiziaria e le forze di polizia quando cessa la misura cautelare, per esempio, o la criminalizzazione dell’ordine di protezione emesso in sede civile, o la maggior disponibilità del braccialetto elettronico e l’introduzione di una valutazione nei percorsi rivolti agli autori di violenza”. Restano le criticità che le avvocate D.i.Re avevano esposto durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera: come l’eccessivo ricorso all’ammonimento che in determinate condizioni, se la vittima non è messa in protezione e non viene fatta una valutazione del rischio, possono essere controproducenti perché la espongono a ritorsioni da parte dell’autore di violenza. Biaggioni ha espresso anche dubbi di illegittimità costituzionale sul celebrato arresto in flagranza differito e non solo: “Ci chiediamo quanto è utilizzato l’altrettanto celebrato ordine di allontanamento di urgenza? Lo stesso arresto in flagranza quante volte ricorre? Per nostra esperienza ben poche volte”. E’ vero che sono previste linee guida per la formazione delle forze dell’ordine e di altri operatori che possono entrare in contatto con le vittime di violenza ma la legge è ad invariata finanziaria. Come sarà possibile svolgere in maniera capillare corsi di formazione adeguati senza che sia previsto un finanziamento? Nel 2022 D.i.Re ha presentato la ricerca su “La vittimizzazione istituzionale” rilevando che, nel 60% dei casi, le forze dell’ordine erano state estremamente vittimizzanti: minimizzazione, scarsa attenzione ai bisogni delle donne, colpevolizzazione e non riconoscimento della violenza suscitano malessere e sfiducia. Le numerose proteste che si sono levate sul profilo Instagram della Polizia di Stato il 22 novembre dopo la pubblicazione di un post che citava una frase della poesia di Cristina Torres Caceres, sono indicativi di un malessere e di una scarsa fiducia nelle forze dell’ordine. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Polizia di Stato – Italy (@poliziadistato_officialpage) Senza finanziamenti, la formazione resterà un promessa non mantenuta. L’ennesima dichiarazione di intenti. @nadiesdaa
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Una frenata in commissione Giustizia, al Senato, sulla legge per gli orfani del femminicidio. E un rinvio che innesca un pomeriggio di feroci polemiche con il Pd che punta il dito contro il centrodestra e Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia che denunciano il tentativo di utilizzare surrettiziamente una materia così delicata per reintrodurre quella «stepchild adoption» già bocciata in Parlamento. La materia del contendere è la mancata approvazione in sede deliberante, cioè evitando il passaggio in Aula, di una misura a cui Mara Carfagna ha lavorato alla Camera e che stanzia due milioni per gli orfani del femminicidio (circa duemila bambini dal 2000 a oggi). Il nodo, però, è che il testo secondo il centrodestra «fa riferimento ai figli delle unioni civili». Per questo Forza Italia, Gal e Lega Nord dicono no perché si tenta di «far entrare dalla finestra» un tema ancora caldo e soprattutto «già affrontato in altra sede». Protesta il Pd, a cominciare da Maria Elena Boschi, sottosegretario alla Presidenza con delega alle Pari Opportunità, che commenta con «stupore e dispiacere» la decisione, visto che il veto «allunga i tempi e mette a rischio il risultato finale» vista la scadenza prossima della legislatura. «Perché - si chiede Boschi - rimandare una legge che si può approvare subito? Gli orfani delle vittime hanno bisogno di riposte e di averle il prima possibile». Il senatore forzista Francesco Nitto Palma si dice «seccato dalle continue, demagogiche strumentalizzazioni operate da una certa frangia del Pd. Noi vogliamo rapidamente licenziare la legge a condizione che non sia lo strumento per ufficializzare normativamente, vedi i figli delle unioni civili, ciò che già è stato bocciato nell'Aula del Senato. Peraltro a fronte delle lamentele degli esponenti del Pd non capisco perché il senatore Lo Giudice abbia chiesto l'immediata calendarizzazione del ddl sui matrimoni tra soggetti dello stesso sesso». Interviene a chiarire anche Paolo Romani. «Forza Italia è indiscutibilmente a favore del rapido varo del provvedimento. Non accettiamo dunque alcuna accusa da una maggioranza di governo forse più interessata a strumentalizzare i risultati che a proteggere cittadini in difficoltà». Ancora più duro Maurizio Gasparri. «Siamo assolutamente d'accordo a concedere aiuti concreti agli orfani. Ma non si può accettare una operazione spregiudicata e vergognosa che usa un dramma per legittimare qualcosa che non c'entra niente. Davvero una speculazione vergognosa». Mara Carfagna, invece, replica in maniera diretta a Maria Elena Boschi. «Non condivido la decisione dei colleghi del Senato, ma le loro obiezioni vanno approfondite. Detto questo vogliamo rassicurare il sottosegretario Boschi: abbiamo fatto e stiamo facendo quanto serve per una rapida approvazione della legge sugli orfani di femminicidio. Il nostro lavoro però è lontano dalle photo opportunity, dalle strumentalizzazioni e dalla ricerca di visibilità. Al sottosegretario Boschi consigliamo di studiare e approfondire meglio tutti i dossier prima di avventurarsi in improvvide dichiarazioni il cui unico risultato è quello di strumentalizzare anche mediaticamente temi che meriterebbero un approccio più umile e serio. E se proprio non dovesse riuscirci perché troppo impegnata, ceda la delega».
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Segui la diretta dall'Ucrain di giovedì 14 aprile Oltre 500mila ucraini sono stati portati con la forza in Russia dalle autorità di Mosca: lo ha detto oggi il presidente Volodymyr Zelensky mentre immagini satellitari confermano che Mosca continua ad ammassare truppe ad est. Emmanuel Macron risponde a Joe Biden che promettendo l’invio in Ucraina di altri 700 milioni di dollari in armi ha accusato per la prima volta Mosca di genocidio: "Starei attento con le parole", dice il presidente francese. Ed anche la Cina chiede di abbassare i toni: "Genocidio? Evitare nuove tensioni", raccomanda il ministero degli Esteri, Zhao Lijian. Nella città di Mariupol 2mila soldati ucraini resistono asserragliati mentre le truppe russe sono accusate di aver usato armi chimiche contro i resistenti. Intanto il presidente russo conferma l'obiettivo ("Prenderemo il Donbass"). Iscriviti alla newsletter quotidiana gratuita sul conflitto | Il podcast La Giornata DOSSIER: IL CONFLITTO | SENTIERI DI GUERRA | Timeline: gli eventi 23.15 Governatore Odessa: "Colpita nave russa in Mar Nero" Le forze ucraine hanno danneggiato una nave da guerra russa nel Mar Nero con un attacco missilistico. La conferma arriva dal governatore di Odessa Maksym Marchenko. "Missili Neptune hanno causato gravissimi danni alla nave russa. Gloria all'Ucraina!" ha scritto Marchenko su Telegram. Il consigliere del presidente ucraino, Oleksiy Arestovych ha affermato che "c'è una sorpresa per l'ammiraglia della flotta russa del Mar Nero", la Moskva. "In questo momento sta bruciando e con il mare in tempesta non si sa se saranno in grado di ricevere aiuto. Ci sono 510 membri dell'equipaggio", ha detto in una trasmissione su YouTube. Non ci sono conferme da parte dell'esercito russo dell'attacco. La nave Mosvka è nota perchè all'inizio della guerra, dopo aver intimato la resa a 13 soldati ucraini a guardia dell'isola dei Serpenti, gli è stato risposto, "andate al diavolo". 22.58 Presidente polacco: "Questa non è guerra, è terrorismo" "Questa non è guerra, questo è terrorismo". Lo ha detto il presidente polacco Andrzej Duda, in visita a Kiev insieme ai presidenti delle tre Repubbliche baltiche. 22.46 Casa Bianca: "Genocidio? Il presidente dice quello che vediamo tutti" Il presidente stava parlando di quello che noi tutti vediamo e di ciò lui sente chiaro in termini di atrocità che accadono sul terreno, come ha anche notato ieri". E' quanto ha detto la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, commentando le parole di Joe Biden sul 'genocidio' che sarebbe in corso in Ucraina a opera dei russi. "Naturalmente, ci sarà un processo legale che si svolgerà in tribunale, ma stava parlando di ciò che ha visto sul terreno, ciò che tutti abbiamo visto in termini di atrocità sul terreno". 22.32 Casa Bianca, Biden continua a sostenere colloqui di pace "Non sarà l'uso della parola genocidio da parte del presidente americano ad impedire a Putin di sedersi al tavolo dei negoziati con l'Ucraina". Lo ha detto la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, in un briefing con la stampa sottolineando che Biden "continua a sostenere i colloqui di pace e gli sforzi di Kiev in questo senso". 22.15 Incrociatore russo colpito da missili ucraini Neptune L'incrociatore missilistico Mosca della flotta russa del Mar Nero è stato colpito dai missili ucraini Neptune ed è in fiamme al largo di Odessa. Lo riporta Unian. Sarebbe lo stesso che il 24 febbraio dette l'ultimatum per la resa ai 13 marinai ucraini sull'Isola dei Serpenti con le parole, gridate attraverso un megafono: "Questa è una nave militare russa, arrendetevi e deponete le armi, altrimenti apriremo il fuoco". La conferma che si tratta della stessa nave è arrivata da Oleksiy Arestovich, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. 21.44 Kiev, trattative per liberare 169 soldati catturati a Chernobyl "Sono in corso trattative" per un possibile scambio di prigionieri con la Russia per liberare i 169 militari della Guardia nazionale ucraina che erano stati catturati quando le forze russe avevano preso il controllo della centrale nucleare di Chernobyl, poi abbandonata. Lo ha riferito il ministro dell'Interno di Kiev, Denys Monastyrsky, citato dall'Ukrainska Pravda. "Oggi, secondo le nostre informazioni, alcuni di loro si trovano nella Repubblica di Bielorussia, altri in Russia", ha aggiunto il ministro ucraino, spiegando tuttavia che questo scambio non appare imminente ma bisognerà probabilmente attendere una de-escalation militare. 21.15 Zelensky "Il rifiuto di Macron a parlare di genocidio ferisce molto" Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, esprime un grande dispiacere per il rifiuto del suo omologo francese, Emmanuel Macron, di affermare che le uccisioni in Ucraina sono un "genocidio". "Se vere, queste sue parole ci feriscono molto", ha detto Zelensky in una conferenza stampa con i capi di Stato di Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia, in visita nella capitale Ucraina. (afp) 21.10 Anche dispositivi di protezione dalle armi chimiche tra le armi Usa all'Ucraina Nel nuovo pacchetto di armi Usa all'Ucraina, che il presidente Joe Biden ha appena autorizzato, ci sono anche "dispositivi di protezione individuale contro armi chimiche". Lo ha detto il portavoce del Pentagono, John Kirby, in un briefing con la stampa. Nella lista figurano anche elicotteri Mi-17 e obici, come anticipato da alcune fonti della Difesa. L'invio di mezzi di protezione contro armi chimiche è basato, ha ribadito, "sulle preoccupazioni che abbiamo da tempo che Mosca possa usare armi chimiche". Alcuni dei nuovi sistemi che gli Usa hanno deciso di inviare all'Ucraina "necessiteranno di un ulteriore addestramento". Ha poi spiegato il portavoce del Pentagono precisando che si tratta soprattutto di "nuovi sistemi radar e di artiglieria". Secondo un funzionario della difesa Usa potrebbero essere i soldati americani dispiegati sul fronte orientale della Nato ad addestrare all'uso di queste nuove armi. Kirby tuttavia non ha confermato l'indiscrezione limitandosi a dire che il Pentagono sta valutando diverse opzioni. 20.56 Mosca annuncia: sanzioni per 398 membri del Congresso Usa La Russia ha annunciato sanzioni per 398 membri del Congresso americano e 87 senatori canadesi come rappresaglia per le misure punitive sull'Ucraina, aggiungendo che saranno seguite da altre sanzioni. 20.25 Mosca, "il porto di Mariupol liberato dal battaglione Azov" Il porto di Mariupol "è completamente liberato dai membri del battaglione 'Azov'". Ad annunciarlo, secondo quanto riferisce l'agenzia russa 'Tass', è il rappresentante ufficiale del ministero della Difesa della Russia, il maggiore generale Igor Konashenkov. "Nella città di Mariupol, il porto commerciale è stato completamente liberato dai membri della formazione nazista Azov. Tutti gli ostaggi tenuti dai nazisti sulle navi nel porto, compresi quelli stranieri, sono stati rilasciati", sottolinea Konashenkov. Secondo Konashenkov, i resti delle truppe ucraine e delle unità Azov in città sono bloccati e privati dell'opportunità di fuggire dall'accerchiamento. (reuters) 20.10 Ucraina, Biden: “Altri 800 mln di dollari in nuovi aiuti militari” Il presidente Joe Biden ha annunciato ulteriori 800 milioni di dollari in assistenza militare all'Ucraina, portando il totale degli aiuti dall'invasione delle forze russe a oltre 2,4 miliardi di dollari. Il pacchetto includerà sistemi di artiglieria, colpi di artiglieria e veicoli corazzati, ha confermato Biden dopo una telefonata con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. 20.06 Kiev, delusi da Macron che non vuole parlare di genocidio Kiev "delusa" da Emmanuel Macron, che non vuole riconoscere il "genocidio" commesso dai russi in Ucraina, come fa invece Joe Biden. "La riluttanza del presidente francese nel riconoscere il genocidio degli ucraini dopo tutte le dichiarazioni esplicite da parte della leadership russa e delle azioni criminali delle truppe russe è deludente", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri ucraino, Oleg Nikolenko, citato dall'agenzia di stampa Ukrinform. 19.55 Ucraina: Nardella, sindaco di Melitopol sabato sarà a Roma Ivan Fedorov, il sindaco di Melitopol rapito dai russi durante l'invasione dell'Ucraina e poi rilasciato in uno scambio di prigionieri, "sarà in Italia. Mi ha scritto. Sarà sabato a Roma e si tratterrà due giorni per fare una serie di incontri". 19.24 Presidente Polonia e stati baltici vedono Zelensky a Kiev "L'Ucraina sente il supporto forte e affidabile di ciascuno di voi". Così il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accolto a Kiev i presidenti di Polonia Andrzej Duda, Lituania Gitanas Nauseda, Lettonia Egils Levits ed Estonia Alar Karis. Lo riporta Ukrinform che su Telegram posta una serie di foto dell'incontro tra le quali quella dei quattro presidenti con al centro Zelensky con la mano una sopra l'altra in segno di unità e compattezza e poi la stretta di mano con Duda, che diventa un abbraccio. 19.13 Casa Bianca: "Telefonata Biden-Zelensky su aiuti" Il presidente Usa, Joe Biden, ha parlato al telefono con l'omologo ucraino Volodymyr Zelensky degli aiuti americani. Lo ha riferito la Casa Bianca. 19.12 Mosca minaccia di colpire centri di comando a Kiev La Russia colpirà i centri di comando dell'Ucraina, anche a Kiev, se l'esercito ucraino continuerà nei suoi tentativi di attaccare strutture in Russia. L'avvertimento è arrivato dal ministero della Difesa di Mosca, secondo quanto riporta Interfax. 19.04 Capo Sbu: "Medvedchuk voleva scappare in Transnistria" "L'arrestato Viktor Medvedchuk intendeva trasferirsi segretamente in Transnistria". Lo riporta il sito di informazioni ucraino Nexta, citando le parole del capo del servizio di sicurezza ucraino. Secondo quanto riportato, gli agenti russi dell'Fsb aspettavano Medvedchuk lin Transnistria per condurlo poi a Mosca. Medvedchuk "è stato arrestato nella regione di Kiev sulla strada per il confine", ha detto il capo della Sbu. 19.00 Ucraina: "10mila soldati russi nei dintorni di Mariupol" Il ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov afferma che ci sono più di 10.000 soldati russi vicino a Mariupol che stanno cercando di catturare la città. Lo riporta Unian. Il politico ha parlato ai giornalisti stranieri durante una visita alla città di Gostomel nella regione di Kiev, che è stata distrutta dai russi ed ora è nuovamente nelle mani di Kiev. Il capo di Stato maggiore delle forze armate ucraine ha detto che i militari continuano a difendere Mariupol. 18.58 Ucraina: "Più di 100 civili morti a Sumy durante l'occupazione" Più di 100 civili sarebbero morti durante l'occupazione della regione di Sumy. Lo riporta il canale di informazione ucraino Nexta, citando le parole del il capo dell'amministrazione regionale Dmitry Zhivitsky. Secondo Zhivitsky, il bilancio delle vittime aumenterà man mano che ogni giorno vengono trovati nuovi corpi che, a quanto afferma, sono stati ritrovati "con le mani legate, tracce di torture, colpi alla testa". 18.57 Onu, per ora nessuna possibilità di cessate il fuoco Il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ritiene che "al momento non ci sia la possibilità di un cessate il fuoco globale in Ucraina" come era stato richiesto dalle Nazioni Unite. Parlando con i giornalisti ha detto che dopo la visita del capo degli affari umanitari a Mosca e Kiev stanno aspettando una risposta dalla Russia su alcune proposte, come cessate il fuoco locali per evacuare i civili dalle aree di combattimento, e la creazione di un meccanismo con Russia, Ucraina e Onu per gestire un adeguato accesso umanitario. 18.50 Francia: "Mosca pensa a offensiva larga scala a sud-est" Le forze russe stanno pianificando una nuova "offensiva su larga scala" per "conquistare" il Donbass nell'Ucraina orientale. E' quanto affermato dal portavoce militare francese, Pascal Ianni, sostenendo che "entro i prossimi giorni, forse 10, la Russia potrebbe rilanciare i suoi sforzi con un'offensiva su larga scala nell'Est e nel Sud per conquistare le regioni di Donetsk e Lugansk o addirittura arrivare fino al fiume Dnipro se le loro capacità lo permettono". Al momento, ha aggiunto, "non ci sono avanzamenti significativi in termi di conquiste territoriali per le forze di Mosca sul fronte orientale". 18.42 Pentagono, soldati Usa in Europa pronti ad addestrare ucraini Il Pentagono sta esaminando varie opzioni per addestrare le forze ucraine ad usare gli Switchblade, i cosiddetti 'droni kamikaze' che gli Stati Uniti hanno inviato e stanno continuando a mandare a Kiev. Lo riferisce un funzionario della Difesa americana alla Cnn. Tra le varie possibilità ci sono i soldati americani che sono stati dispiegati sul fianco orientale della Nato dopo l'attacco della Russia all'Ucraina. Qualche giorno fa il ministro della Difesa americano Lloyd Austin aveva rivelato che alcuni soldati ucraini sono stati addestrati ad usare diverse armi americane negli Stati Uniti, dove si trovavano prima che iniziasse la guerra. Le truppe americane dislocate nei Paesi della Nato, ha sottolineato il funzionario, "sono in grado di fornire un addestramento adeguato su qualsiasi armamento inviato all'Ucraina", ha sottolineato il funzionario. 18.36 Ucraina: Biden autorizza sblocco 1 milioni di barili petrolio al giorno "Per aiutare ad affrontare l'aumento dei prezzi di Putin, ho autorizzato l'uso di 1 milione di barili di petrolio al giorno in media per i prossimi sei mesi dalla nostra Strategic Petroleum Reserve". Lo scrive su Twitter il presidente degli Usa, Joe Biden. "E' il più grande rilascio della nostra riserva nazionale nella storia", aggiunge. 18.19 Ucraina, procuratore Corte penale internazionale: "Qui è una scena del crimine" "L'Ucraina è una scena del crimine. Siamo qui perché abbiamo fondati motivi per ritenere che siano stati commessi reati soggetti alla giurisdizione della Corte penale internazionale. Dobbiamo perforare la nebbia della guerra per arrivare alla verità". Così il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan, in visita a Bucha, su Twitter. 18.05 Ucraina, Di Maio alla Cnn: "Italia non pone veti su sanzioni energia" “L'Italia non porrà "alcun veto" ad eventuali nuove sanzioni sull'energia dalla Russia ma vuole un tetto Ue sui prezzi del gas”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Mai, in un'intervista alla Cnn assicurando che il governo continuerà nei suoi sforzi per ridurre la dipendenza dal petrolio e dal gas di Mosca in risposta all'invasione dell'Ucraina. 18.03 Presidente Lituania: "A Borodyanka lato oscuro umanità" "Qui il lato oscuro dell'umanità ha mostrato il suo volto. I crudeli crimini di guerra commessi dall'esercito russo non rimarranno impuniti. I criminali di guerra devono essere perseguiti a livello internazionale". Lo ha scritto su Twitter il presidente lituano Gitanas Nauseda, dopo aver visitato le rovine di Borodyanka assieme ai colleghi di Polonia, Lettonia ed Estonia oggi in Ucraina. I presidenti di Lituania e Polonia a Borodyanka (ansa) 17.50 Mosca, Kiev trascina i negoziati ma non vuole un accordo Kiev non punta a raggiungere un accordo ma a trascinare deliberatamente i colloqui. E' l'accusa della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, secondo quanto riporta la Tass. "Purtroppo - ha detto - la delegazione ucraina, ed è stato così in tutti questi sette anni, poiché stiamo parlando del gruppo di contatto nel formato Normandia, punta i suoi sforzi non a raggiungere accordi ma a trascinare i colloqui. Conosciamo questa tattica". 17.32 Zelensky, senza nuove armi sarà bagno di sangue "Senza nuove armi questa guerra sarà un bagno di sangue senza fine che porterà miseria, sofferenze e distruzione. Mariupol, Bucha, Kramatorsk, la lista continuerà". Così in un video su telegram il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. "Vari esperti dicevano che saremmo durati una settimana. Non solo siamo riusciti a fermare l'esercito russo, ma lo abbiamo respinto. Ma la nostra guerra è tutt'altro che finita. Questo era solo il primo round", ha aggiunto spiegando come "Putin e il suo esercito stanno cambiando strategia. Stanno rafforzando le loro truppe per esercitare ancora più pressione su Kharkiv e l'intero Donbas, compreso Mariupol". Per questo motivo il leader di Kiev ha detto che l'Ucraina ha bisogno di un "elenco specifico di armi" come "lanciarazzi multipli, veicoli corazzati, carri armati, sistemi di difesa aerea e aerei da combattimento". 17.18 Ucraina, Jersey blocca 5,4 mld sterline di Abramovich Le autorità dell'isola di Jersey, paradiso fiscale legato alla corona britannica nella Manica, hanno congelato l'equivalente di 5,4 miliardi di sterline di attivi (pari a circa 7 miliardi di dollari) ritenuti riconducibili all'oligarca russo Roman Abramovich. Lo riferisce l'agenzia Bloomberg. Abramovich, il cui patrimonio personale complessivo è stimato in circa 12 miliardi di dollari, è stato sottoposto a sanzioni dal governo di Londra e dall'Ue (ma finora non dagli Usa) fra le ritorsioni occidentali decise in risposta all'invasione russa dell'Ucraina contro figure del business ritenute funzionali al potere di Vladimir Putin. 16. 55 Appello a Zelensky dalla moglie di Medvendchuk: "Liberate mio marito, è trattenuto illegalmente" "Liberate mio marito, che mai avrebbe lasciato l'Ucraina e che ha sempre sostenuto la pace e il dialogo. La Sbu lo sta trattenendo illegalmente". E' l'appello che Oksana Marchenko, moglie di Viktor Medvendchuk, fa al presidente Zelensky con un video fatto con il cellulare. L'oligarca e deputato ucraino, vicinissimo a Putin, avrebbe tentato di fuggire all'estero dopo l'arresto per alto tradimento. 16.26 Zelensky: "La Russia non si fermerà all'Ucraina, prossimo passo è l'Europa" "La Russia non intende fermarsi all'Ucraina e dice apertamente che il prossimo passo logico è l'Europa. Perciò o l'Occidente ci aiuta a fermare la Russia adesso o Putin continuerà ad allargare il proprio impero russo uccidendo donne e bambini. L'ha già fatto a Mariupol, Kharkiv, Bucha". Lo afferma in un video su telegram il premier dell'Ucraina Zelensky. 16.17 Media, nuove armi Usa a Kiev includono artiglieria pesante Nel nuovo pacchetto di aiuti militari all'Ucraina, che l'amministrazione Biden si appresta ad annunciare, ci saranno anche sistemi di artiglieria pesante da terra come gli obici, armi che possono colpire fino a 70 km di distanza. Lo riferisce alla Reuters una fonte del Congresso americano. Ucraina, i civili accusano i russi di usare armi chimiche a Mariupol: "In cielo una nuvola bianca" 16.14 Usa avvertono Cina, politica su Mosca pesa su integrazione Janet Yellen mette in guardia la Cina sulla sua politica nei confronti della Russia. "L'atteggiamento del mondo verso la Cina e la sua volontà di abbracciare un'ulteriore integrazione economica potrebbe risentire della reazione di Pechino alla richiesta di un'azione decisa sulla Russia", afferma il segretario al Tesoro americano, osservando che la posizione sulla Russia e sull'invasione dell'Ucraina potrebbe influenzare la volontà degli altri Paesi di collaborare con la Cina. People walk in an empty street in Severodonetsk, in eastern Ukraine's Donbass region, on April 13, 2022 as Russian troops intensified a campaign to take the strategic port city of Mariupol, part of an anticipated massive onslaught across eastern Ukraine (afp) 15.43 Ucraina: vicepremier, Mosca non si ferma, mondo deve agire ora "La guerra russa non si fermerà nonostante le decisioni di Ue, Nato, e Onu, continuerà su un altro territorio. La risposta del mondo deve essere immediata, il sangue dei civili deve smettere di scorrere". Lo ha detto la vicepremier ucraina con delega all'integrazione europea ed euro-atlantica, Olha Stefanishyna parlando da remoto alla Commissioni Diritti umani, Femminicidio e Antidiscriminazioni del Senato. Dell'invasione e delle atrocità sui civili è responsabile "l'intera società russa", ha aggiunto, affermando che la "stampa ufficiale" alimenta la propaganda che "l'Ucraina non deve esistere come nazione separata" ed i "giornalisti giustificano le azioni terroristiche", mentre "le voci della stampa libera vengono intimidite". Ed "anche la popolazione russa è consapevole di quello che sta succedendo". Il presidente polacco Andrzej Duda, insieme ai presidenti di Lituania, Lettonia ed Estonia Gitanas Nauseda, Egils Levits e Alar Karis diretti a Kiev, per incontrare il presidente Volodymir Zelensky, in una foto postata su Twitter dal capo dell'Ufficio di politica internazionale della cancelleria del presidente della Polonia Jakub Kumoch, 13 aprile 2022 (ansa) 15.18 Cremlino, mai relazioni Medvedchuk dietro quinte con Mosca Medvedchuk, l'oligarca russo arrestato in Ucraina, "non ha mai avuto relazioni dietro le quinte con la Russia". Lo dice il portavoce del Cremlino Peskov, che aggiunge: "Le opinioni di Medvedchuk a favore della costruzione di relazioni normali, reciprocamente vantaggiose e di partenariato tra Ucraina e Russia sono ben note. Questa sua posizione è sempre stata aperta. Medvedchuk non ha mai avuto relazioni dietro le quinte con la Russia". "Anche se si immagina ipoteticamente questo, Medvedchuk avrebbe potuto lasciare il territorio ucraino prima dell'operazione militare speciale. Come possiamo vedere, invece, non l'ha fatto". Ancora bombe su Kharkiv, colpita anche una scuola 15.12 Scholz, sì armi ma Germania non diventi parte guerra La Germania continuerà a consegnare armi all'Ucraina ma in modo "ragionevole" e nell'ottica di impedire che Berlino venga trascinata nel conflitto. Lo ha dichiarato il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, in un'intervista alla radio pubblica Rbb. Scholz ha affermato che intende consegnare a Kiev "armi corrette e ragionevoli" per le quali ci sono munizioni e pezzi di ricambio e per le quali nessun soldato deve recarsi in Ucraina. Le forniture, ha aggiunto, "impediranno alla Nato, agli stati della Nato e alla Repubblica federale di Germania di diventare parte della guerra". Queste frasi possono essere interpretate come una conferma della resistenza di Scholz, e in generale dei socialisti tedeschi, alle richieste dei Verdi e dei liberali, alleati di governo, di inviare armi offensive all'Ucraina. A damaged plate depicting the coat of arms of Ukraine is seen in the yard of burned school in Bohdanivka village, northeast of Kyiv on April 12, 2022 (afp) 15.00 Peskov, inaccettabili accuse Biden a Putin Il Cremlino giudica "inaccettabile" la dichiarazione del presidente Usa, Joe Biden, sul genocidio degli ucraini. Lo dice il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov. Lo riporta Ria Novosti. Battaglione Azov, Gruppo Wagner e le due frange di mercenari ceceni: chi sono i paramilitari più sanguinari in Ucraina 14.52 Kiev, "Delusi da Macron, non vuole parlare di genocidio" Il Ministero degli Affari Esteri dell'Ucraina si è detto deluso dal fatto che il presidente francese Emmanuel Macron non abbia usato la parola "genocidio" per definire le atrocità degli occupanti russi . Lo afferma il portavoce Oleg Nikolenko, citato da Unian. "La riluttanza del presidente francese a riconoscere il genocidio degli ucraini dopo tutte le dichiarazioni esplicite della leadership russa e le azioni criminali dell'esercito russo è deludente", ha detto. In this file photo taken on March 24, 2022, US President Joe Biden shakes hands with France's President Emmanuel Macron (L) at NATO Headquarters in Brussels (afp) 14.50 Scholz: "Scholz per ora non va a Kiev, irritante stop a Steinmeier" La decisione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di non ricevere il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier ha causato "irritazione" nel governo federale. Lo ha dichiarato il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, alla radio pubblica Rbb. Zelensky, ha oggi chiesto che sia invece Scholz a visitare Kiev per poter discutere in modo diretto di forniture di armi con il capo dell'esecutivo. Scholz ha però spiegato a Rbb di non avere al momento in programma di recarsi nella capitale ucraina. German Chancellor Olaf Scholz before the weekly meeting of the German Federal Cabinet, Berlin, Germany, 13 April 2022 (ansa) 14.38 Mosca: "La Russia vedrà i veicoli Usa e Nato che trasportano armi sul territorio ucraino come obiettivi militari legittimi" La Russia vedrà i veicoli Usa e Nato che trasportano armi sul territorio ucraino come obiettivi militari legittimi. Lo dice il vie ministro degli esteri russo a Tass. Ucraina: bombardamenti a Kharkiv, distrutta anche una scuola 14.13 Mosca, Russia non ha armi chimiche "La Russia non ha armi chimiche". Ccosì la presidente del Consiglio della Federazione Russa, Valentina Matviyenko, ha respinto le accuse secondo cui la Russia potrebbe avere usato armi chimiche in Ucraina, secondo quanto riportato da Interfax. "La Russia non ha armi chimiche. La Russia ha adempiuto ai suoi obblighi nel 2017, abbiamo completamente smaltito le armi chimiche", ha detto Matviyenko rispondendo alla richiesta di un commento sulle accuse relative a un utilizzo di armi chimiche in Ucraina. Putin nega gli orrori a Bucha: "Sono un falso, una provocazione" 13.48 Zelensky: "500 mila ucraini portati in Russia con la forza" Oltre 500mila ucraini sono stati portati con la forza in Russia dalle autorità di Mosca: lo ha detto oggi il presidente Volodymyr Zelensky durante il suo discorso al Parlamento estone. Lo riporta Ukrinform. Secondo Zelensky i russi cercano di portare gli ucraini deportati nelle regioni remote del Paese, confiscano i loro documenti e oggetti personali come i telefoni cellulari e separano i bambini dai loro genitori per consentire - è il piano, dice - alle famiglie russe di adottarli illegalmente. Ucraina: bombardamenti a Kharkiv, distrutta anche una scuola 13.35 Truppe Mosca ad est, satellite conferma Immagini satellitari riprese dal Kiev Indipendent confermano che Mosca continua ad ammassare truppe ad est. Secondo quanto riportato dal quotidiano sono stati osservati schieramenti militari lungo l'autostrada 14-34 e il corridoio che conduce da Soloti e Valuyki nella Russia occidentale verso il confine con l'Ucraina. A handout satellite image made available by Maxar Technologies shows a view of resupply and maintenance area in Dzhankoi, Ukraine, 06 April 2022 (issued 12 April 2022) (ansa) 13.29 Berlino a Kiev, Steinmeier rappresenta tutta la Germania "Il presidente Steinmeier è stato da poco rieletto al Bundestag con una grande maggioranza e rappresenta la Repubblica Federale di Germania": lo ha detto oggi un portavoce del governo tedesco. Berlino non ha commentato ulteriormente il rifiuto di Kiev di una visita del capo di Stato tedesco, ma ha confermato nuovamente tutto il sostegno all'Ucraina dello stesso Steinmeier e del cancelliere Scholz. Zuppa e fucili, in trincea sulla linea di Donetsk: così vivono i militari di Kiev pronti al contrattacco 13.25 Kiev, a Mariupol 13 crematori mobili per bruciare cadaveri Sono 13 i crematori mobili che le forze russe stanno utilizzando a Mariupol per rimuovere i corpi dei civili uccisi: lo ha reso noto su Telegram il dipartimento di intelligence del ministero della Difesa ucraino. Lo riporta Ukrinform. Lo scorso 6 aprile il Comune di Mariupol aveva reso noto che i soldati russi avevano allestito crematori mobili per bruciare i corpi degli abitanti uccisi e coprire le loro tracce dei crimini contro i civili. "Dopo che il genocidio del popolo ucraino a Bucha, nella regione di Kiev, è stato ampiamente trattato dai mass media internazionali, le truppe russe hanno iniziato a utilizzare i crematori mobili in Ucraina - affermano oggi i servizi -. In particolare, a Mariupol sono stati individuati in totale 13 crematori mobili per rimuovere dalle strade i corpi dei civili". I russi, prosegue il rapporto, "stanno tentando di identificare attraverso i campi di filtraggio coloro che hanno assistito alle atrocità ed eliminarli". 13.13 Finlandia, vogliamo evitare quello che succede all'Ucraina "La Russia è il nostro vicino. Abbiamo un lungo confine con loro e vediamo come si comportano in Ucraina adesso. È una guerra in Europa che non volevamo accadesse, ma ora purtroppo è così. Pertanto, dobbiamo ovviamente porci la domanda su come possiamo fare in Finlandia per evitarlo". Lo ha detto il primo ministro finlandese Sanna Marin in una conferenza stampa a Stoccolma citata da Aftonbladet. "Ci sono ovviamente diversi rischi per i quali dobbiamo essere pronti. Le minacce provenienti dalla Russia come attacchi informatici, ibridi e così via devono ovviamente essere prese in considerazione", ha aggiunto. Sanna Marin 12.55 "Oltre 100 civili uccisi a Sumy, anche bimbi e anziani" "Più di cento civili sono morti, abbiamo trovato anche i corpi di anziani e bambini. Altre persone sono state catturate. Altre centinaia hanno invece dovuto abbandonare le loro case. I militari russi sparavano ovunque". Lo ha detto Dmytro Zhyvytskiy, responsabile militare della regione di Sumy in un briefing. A photograph taken on April 12, 2022 shows the exhumed body of Gostomel's mayor Yuriy Prylypko, who was buried near a church in Gostomel village, Kyiv region (ansa) 12.41 Video mostra mezzi militari russi al confine con Finlandia Veicoli militari russi sono stati visti vicino al confine con la Finlandia. Un filmato, verificato da Sky News e pubblicato dai media internazionali, mostra lo spostamento di attrezzature militari, compresi i sistemi di difesa costiera, al confine tra Russia e Finlandia, in un apparente avvertimento proprio mentre il dibattito sull'adesione alla Nato continua a crescere nel Paese nordico. Il primo ministro Sanna Marin ha detto infatti che una possibile adesione sarebbe stata discussa "nelle prossime settimane", dopo l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin. (reuters) 12.25 Chiese Europa chiedono tregua pasquale a Putin e Zelensky I presidenti della Kek, la Conferenza delle Chiese europee, e della Comece, la Commissione dei vescovi cattolici europei, il pastore Christian Krieger e il cardinale Jean-Claude Hollerich, hanno inviato una lettera indirizzata ai presidenti di Russia e Ucraina Vladimir Putin e Volodymyr Zelenskyy lunedì 11 aprile, chiedendo un cessate il fuoco pasquale in Ucraina dalla mezzanotte del 17 aprile alla mezzanotte del 24 aprile. Lo scrive Riforma. Communal workers put the exhumed body of Gostomel's mayor Yuriy Prylypko in a plastic bag in Gostomel village, Kyiv region, on April 12, 2022 (ansa) 12.18 Ue, di tutto per punire responsabili crimini guerra "Faremo tutto in nostro potere per punire i responsabili dei crimini di guerra in Ucraina". Lo ha dichiarato la portavoce della Commissione europea, Dana Spinant, annunciando le azioni di Bruxelles in sostegno alla procura ucraina per l'assistenza nelle indagini. Tra cui, affidare all'Eurojust la delega per poter indagare sui crimini. Supporters wearing a Ukranian flag and holding European Union flags wait for France's President and French liberal party La Republique en Marche (LREM) candidate to his succession Emmanuel Macron during a one-day campaign visit in the Grand-Est region, at the place du Chateau, in Strasbourg, eastern France, on April 12, 2022 (afp) 12.08 Putin, sanzioni non fermeranno sviluppo Artico Di fronte alla pressione delle sanzioni, la Russia deve prestare particolare attenzione a progetti e piani relativi allo sviluppo della zona artica, ha affermato il presidente russo Vladimir Putin. "Tenendo conto delle varie restrizioni e pressioni dovute alle sanzioni, dobbiamo prestare particolare attenzione a tutti i progetti e piani relativi all'Artico. Non rimandarli, non spostarli", ha detto Putin in un incontro sullo sviluppo dell'Artico zona della Federazione Russa in videoconferenza. Secondo il leader del Cremlino, al tentativo di frenare lo sviluppo della Federazione russa, è necessario rispondere con lo sviluppo di progetti, principalmente in ambito sociale. "Centinaia di nostri cittadini vivono e lavorano nei territori artici e praticamente tutte le aree della sicurezza nazionale del nostro Paese sono concentrate" lì, ha sottolineato. 11.58 Cina a Biden: "Genocidio? Evitare nuove tensioni" La Cina "ha sempre sostenuto che sull'Ucraina la massima priorità per tutte le parti interessate è mantenere la calma e la moderazione, cessare il fuoco e fermare la guerra il prima possibile, evitando una crisi umanitaria su larga scala". E' la risposta del portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian a una domanda sulle accuse di genocidio del presidente Usa Joe Biden alla Russia con l'aggressione all'Ucraina. "Qualsiasi sforzo della comunità internazionale dovrebbe raffreddare la tensione, non alimentarla, e dovrebbe spingere per una soluzione diplomatica, non aggravare ulteriormente gli scenari", ha aggiunto Zhao. A young man walks in a street of Mariupol on April 12, 2022, as Russian troops intensify a campaign to take the strategic port city, part of an anticipated massive onslaught across eastern Ukraine, while Russia's President makes a defiant case for the war on Russia's neighbour (ansa) 11.48 Consigliere Zelensky, venga Scholz a parlare di armi Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, prende le sue decisioni in modo sempre "molto ponderato": è quello che ha affermato il suo consigliere Oleksiy Arestovych, che stamattina al Morgenmagazin del canale tv ARD, ha risposto a una domanda sul rifiuto di Kiev della visita del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. "Credo che l'argomento principale fosse che Zelensky voglia incontrare il cancelliere Olaf Scholz, per parlare con lui di questioni pratiche, inclusa la consegna delle armi". Arestovych ha poi spiegato che l'offensiva russa si concentra sull'est del paese e che il destino di Mariupol "dipende dalla consegna di armi dalla Germania". "Ogni minuto in cui non arriva un panzer, muoiono i nostri bambini in Ucraina, che vengono violentati e uccisi", ha aggiunto. 11.27 Navi turche pronte a evacuare Mariupol "La Turchia mette a disposizione navi per l'evacuazione di persone da Mariupol e resta in attesa di una risposta positiva". Lo rende noto il ministero della Difesa di Ankara citato dalla Tass. People pass by a Russian soldier in central Mariupol on April 12, 2022 (afp) 11.19 Kiev, Mosca ha ordinato distruzione prove crimini esercito "La leadership russa ha ordinato la distruzione di qualsiasi prova dei crimini del suo esercito in Ucraina": lo affermano in un tweet i servizi di intelligence della Difesa ucraina. 11.10 Mosca su Medvedchuk, lo processeranno su "schema Gb" La Russia prevede che un processo sommario, "su schema britannico" contro il deputato di opposizione e oligarca filo-russo, Viktor Medvedchuk, di cui ieri Kiev ha annunciato l'arresto. Considerato "l'uomo di Putin" in Ucraina, Medvedchuk era fuggito a fine febbraio agli arresti domiciliari, che stava scontando con l'accusa di tradimento per il suo sostegno ai separatisti del Donbass. "Lo schema britannico è di avere un processo rapido, una pena detentiva e poi estorcere le prove. Funziona perfettamente", ha scritto su Telegram la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova commentando le dichiarazioni del ministero dell'Interno ucraino secondo il quale è giusto che ora, "Medvechuk che sia sottoposto a un processo più veloce possibile, dia prove concrete e poi sia scambiato". Ieri sera, era stato il presidente Volodymyr Zelensky a proporre che l'oligarca fosse parte di uno scambio di prigionieri con i russi. A handout photo made available by the Presidential Office telegram channel shows Viktor Medvedchuk, the Ukrainian politician and a leader of the Opposition Platform-For Life party, after he was detained in Kyiv, Ukraine, 12 April 2022 (ansa) 10.44 Presidenti Polonia e Paesi baltici diretti verso Kiev I presidenti di Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia sono in viaggio verso Kiev per incontrare il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky Da quando le truppe russe si sono allontanate da Kiev, alcuni leader europei sono già andati nella capitale ucraina. "Verso Kiev con un forte messaggio di sostegno politico e assistenza militare", ha twittato il presidente lituano Gitanas Nauseda, insieme a una foto dei presidenti accanto a un treno. Members of an international team of war crimes prosecutors and Prosecutor General of Ukraine Iryna Venediktova (C) during a visit to a mass grave in Bucha, Kyiv (Kiev) area, Ukraine, 12 April 2022 (ansa) 10.18 Kiev, non ci risulta resa soldati a Mariupol Il portavoce del ministero della Difesa ucraina non conferma la notizia data da Mosca sulla resa di oltre mille soldati a Mariupol. "Non abbiamo alcuna informazione" a riguardo, ha detto il portavoce. 10.12 Osce, chiare evidenze di violazioni diritti umani In Ucraina vi sono "chiari schemi di violazioni del diritto internazionale umanitario da parte delle forze russe nella loro condotta delle ostilità". E' quanto emerge dal rapporto visionato dall'ANSA della missione di esperti indipendenti dell'Osce per indagare gli sviluppi della guerra in corso. Secondo l'Organizzazione vi sono "prove credibili" che "i diritti umani più fondamentali" siano stati violati. L'indagine riguarda gli eventi dal 24 febbraio all'1 aprile, non coprendo quindi le atrocità commesse nelle vicinanze di Kiev e a Bucha. La Russia è stata invitata a collaborare con la missione di esperti ma ha rifiutato. Metropolis/70 - Ucraina, la chimica della paura. Con Beppe Sala e Gianrico Carofiglio (integrale) 10.06 Germania: ifo rivede al ribasso stime pil, +2,7% nel 2022 e +3,1% nel 2023 L'ifo, il Principale istituto di ricerca economica tedesco, ha rivisto in forte ribasso le stime del prodotto interno lordo in germania a causa della guerra in ucraina. In particolare l'istituto prevede una crescita del pil tedesco pari al 2,7% per il 2022 e del 3,1% per il 2023. Nei precedenti rapporti la stima di crescita per il 2022 era del 4,8 per cento. L'economia tedesca, spiega l'ifo, sta attraversando un momento difficile con i tassi di inflazione più alti degli ultimi decenni. Nel rapporto di primavera si spiega che la ripresa dalla crisi dovuta alla pandemia di covid-19 sta rallentando ulteriormente a causa della guerra in ucraina, anche se rimane comunque in pista. In più, nel caso di immediata interruzione delle forniture di gas dalla russia, 220 miliardi di euro della produzione economica tedesca sarebbero a rischio sia nel 2022 sia nel 2023. Police officers cover a mass grave with a plastic sheet as members of an international team of war crimes prosecutors and the Prosecutor General of Ukraine visit a mass grave in Bucha, Kyiv (Kiev) area, Ukraine, 12 April 2022 (ansa) 10.00 Mariupol, 1.026 soldati ucraini arresi, 162 gli ufficiali Sono 1.026 i militari ucraini che si sono arresi a Mariupol, tra questi ci sono 162 ufficiali e 47 soldatesse. Lo afferma il Ministero della Difesa russo citato dalla Tass. Secondo il portavoce del ministero della Difesa russo, maggiore Igor Konashenkov, si sono arresi alle truppe russe "1.026 militari ucraini della 36ma brigata marina, nei pressi dell'acciaieria Ilyich". Two Russian soldiers patrol in the Mariupol drama theatre, bombed last March 16, in Mariupol on April 12, 2022, as Russian troops intensify a campaign to take the strategic port city, part of an anticipated massive onslaught across eastern Ukraine, while Russia's President makes a defiant case for the war on Russia's neighbour (afp) 09.58 Kiev, morti 19.800 soldati russi da inizio guerra Secondo le stime delle forze armate ucraine, dall'inizio della guerra sono morti circa 19.800 soldati russi. Mosca avrebbe perso inoltre 158 aerei, 143 elicotteri, 739 carri armati, 116 lanciarazzi multipli Mlrs, e 7 navi. I miliziani accusano gli invasori russi Usano armi chimiche 09.48 Mosca a Washington, basta disinformazione su armi chimiche Washington deve "smettere di fare disinformazione" sulle armi chimiche: lo afferma l'ambasciata russa negli Usa, riporta il Guardian. La nota giunge in risposta alle affermazioni di ieri del portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price, secondo cui gli Usa temono che Mosca possa cercare di usare le armi chimiche in Ucraina. Washington e Kiev fanno "disinformazione" quando dicono che la Russia potrebbe usare armi chimiche in Ucraina poichè Mosca ha distrutto le sue ultime scorte chimiche nel 2017, precisa l'ambasciata: "Ned Price si è distinto ancora una volta per i suoi discorsi inutili, non corroborati da una sola prova". I miliziani accusano gli invasori russi Usano armi chimiche 09.31 Macron: "Genocidio? Starei attento con le parole" Il presidente francese Emmanuel Macron ha evitato di usare la parola genocidio, utilizzata invece dal presidente Usa Joe Biden, in riferimento all'attacco russo in Ucraina. "Quello che sta succedendo è di una brutalità senza precedenti, ma allo stesso tempo guardo ai fatti e voglio cercare il più possibile di continuare a essere in grado di fermare questa guerra e ricostruire la pace, quindi non sono sicuro che l'escalation delle parole serva alla causa", ha detto a France 2 Macron. Il cimitero delle auto e tank di Bucha, ogni veicolo racconta la storia del genocidio 09.20 Papa, aggressione armata è oltraggio a Dio "La pace di Gesù non sovrasta gli altri, non è mai una pace armata. Le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono e l'amore gratuito al prossimo, a ogni prossimo. È così che si porta la pace di Dio nel mondo. Ecco perché l'aggressione armata di questi giorni, come ogni guerra, rappresenta un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua, un preferire al suo volto mite quello del falso dio di questo mondo". Così Papa Francesco nel corso dell'Udienza Generale. Pope Francis, escorted by Italian priest, Monsignor Leonardo Sapienza (L), reacts during the weekly general audience on April 13, 2022 (afp) 09.17 Leader ceceno, oltre 1000 marine di Kiev si sono arresi a Mariupol "Più di mille marine delle forze armate ucraine si sono arrese oggi a Mariupol. Ci sono centinaia di feriti tra loro. Questa è la scelta giusta". Lo ha scritto sul suo canale Telegram il leader ceceno Ramzan Kadyrov, citato da Tass. A young man walks in a street of Mariupol on April 12, 2022, as Russian troops intensify a campaign to take the strategic port city, part of an anticipated massive onslaught across eastern Ukraine, while Russia's President makes a defiant case for the war on Russia's neighbour (ansa) 09.10 Di Maio, sanzioni servono a non far fare guerra a Putin Le sanzioni servono a evitare che Putin continui a spendere soldi per fare la guerra in Ucraina. Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Radio Anch'io su Rai 1. "Gli dobbiamo imporre le sanzioni - dichiara - per evitare che continui a impegnare i soldi nella guerra". 08.57 Di Maio, bisogna promuovere una conferenza di pace Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, intervistato a 'Radio anch'iò, dice che per quanto riguarda la guerra in Ucraina bisogna "accelerare sulla diplomazia" e promuovere "una conferenza di pace" preceduta da "un cessate il fuoco". An aerial view taken on April 12, 2022, shows the city of Mariupol, during Russia's military invasion launched on Ukraine (ansa) 08.46 Di Maio, con la Russia sempre un canale aperto "Il tema fondamentale è la diplomazia. Proprio quando le parti si rifiutano di lavorare alla diplomazia noi dobbiamo accelerare su questo. Dobbiamo promuovere una conferenza di pace preceduta da un cessate il fuoco. Il Paese che sta lavorando di più alla pace è la Turchia che riesce a parlare con entrambe le parti ma l'Italia ha sempre un canale aperto con Mosca". Lo dice il ministro degli Esteri Luigi di Maio a Radio anch'io parlando del conflitto ucraino. 08.40 Sindaco Mariupol, in 100mila chiedono evacuazione A Mariupol ci sono 100 mila persone che chiedono di essere evacuate dalla città. Lo ha detto questa mattina in Tv il sindaco della città portuale ucraina assediata Vadym Boichenko, citato dai media internazionali. A picture taken during a visit to Mariupol organized by the Russian military shows local people walk on a road to the direction of the Russian border, outside Mariupol, Ukraine, 12 April 2022 (ansa) 08.20 Biden firma extra-fornitura armi a Ucraina per 750 milioni Joe Biden sta autorizzando altri 750 milioni di dollari in assistenza militare all'Ucraina. Lo scrive Politico che cita tre fonti, aggiungendo che si tratta di fornire alle forze di Kiev anche droni e dispositivi di protezione contro possibili attacchi chimici. Il Pentagono sta incontrando i maggiori produttori americani di armi per valutare i tempi di produzione e consegne. La formulazione dell'accusa di genocidio da parte del presidente consente a Biden di agire senza passare dal via libera del Congresso. 08.05 Kiev: 191 bambini morti dall'inizio della guerra Dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina, almeno 191 bambini sono morti. I numeri sono stati forniti dalla procura generale minorile ucraina in una cui nota in cui spiega che "al 13 aprile, più di 540 bambini sono rimasti feriti, 191 bambini sono morti e più di 349 hanno riportato ferite di varia gravità". Al momento, la zona dove si è registrato il più alto numero di vittime tra i minori è la regione di Donetsk, con 113 decessi. 07.15 I presidenti di Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania verso Kiev I presidenti dei quattro Paesi sono in viaggio verso Kiev. 05.40 Kiev, 720 morti a Bucha e altri sobborghi Più di 720 persone sono state uccise a Bucha e in altri sobborghi di Kiev occupati dalle truppe russe e più di 200 sono considerate disperse. Lo ha riferito il ministero dell'Interno ucraino, citato da Sky News. A Bucha, il sindaco Anatoliy Fedoruk ha riferito che sono stati trovati 403 corpi e il numero potrebbe aumentare. 05.25 Bomba a grappolo usata nell'attacco alla stazione di Kramatorsk Nell'attacco alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, costata la vita a più di 50 persone, sarebbe stata usata una bomba a grappolo, bandita da molti Paesi in base al diritto internazionale. E' quanto avrebbero accertato i i giornalisti della Bbc che hanno visitato la stazione. 05.16 Kiev, almeno 20 giornalisti uccisi da inizio guerra Almeno 20 giornalisti sono stati uccisi in Ucraina dall'inizio dell'invasione russa, il 24 febbraio. Lo ha riferito l'Unione nazionale dei giornalisti dell'Ucraina sul suo canale Telegram, precisando che si tratta delle vittime confermate dall'ufficio del procuratore generale. 01.02 Zelensky loda Biden per aver parlato di "genocidio": 'Parole vere da leader vero' "Parole vere da un vero leader". Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky loda Joe Biden per aver parlato, per la prima volta di volta, di "genocidio" in Ucraina. 01.00 Biden conferma le accuse di "genocidio" a Putin Il presidente degli Usa Joe Biden ha confermato la sua accusa alle forze di Vladimir Putin, che a suo dire stanno commettendo un genocidio in Ucraina. "Sì, l'ho chiamato genocidio", ha detto Biden ai giornalisti quando gli è stato chiesto delle sue precedenti affermazioni. "Le prove stanno aumentando, è diverso dalla scorsa settimana. Starà ai legali accertarlo, ma a me appare sempre più chiaro che sia genocidio". 00.30 Usa pronti ad annunciare altri 700 mln in aiuti militari Gli Stati Uniti dovrebbero annunciare l'invio di centinaia di milioni di dollari in nuova assistenza militare all'Ucraina. Lo riferiscono fonti dell'amministrazione alla Cnn. L'importo finale dovrebbe essere vicino ai 700 milioni di dollari. Il nuovo pacchetto di aiuti porterebbe il totale a 3 miliardi di dollari destinati all'Ucraina dall'inizio dell'amministrazione Biden, inclusi i 2,5 miliardi forniti a Kiev dopo l'invasione della Russia. 00.22 Zelensky propone scambio alla Russia: "Medvedchuck per prigionieri ucraini" Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dopo aver annunciato l'arresto dell'oligarca Viktor Medvedchuk, il più stretto alleato di Putin in Ucraina, ha proposto alla Russia il suo rilascio in cambio di soldati ucraini catturati dalle forze russe. "Propongo alla Federazione Russa di scambiare quest'uomo" con uomini e donne ucraini prigionieri, ha detto Zelensky in un messaggio su Telegram. 00.01 Zelensky: "Non è possibile affermare con certezza che i russi abbiano usato armi chimiche a Mariupol" "Impossibile condurre una indagine in una città assediata" 23.57 Olanda, 20 yacht sequestrati in Olanda in seguito a sanzioni "In seguito delle sanzioni contro Russia e Bielorussia, sono stati posti sotto sequestro 20 yacht e messi sotto maggiore sorveglianza". Lo hanno riferito le autorità doganali olandesi, citate dal 'Guardian'. Gli yacht "non sono autorizzati a essere consegnati, trasferiti o esportati". Bombardamenti a Karkiv: lanciati ordigni a grappolo vietati 23.19 Biden parla per la prima volta di genocidio in Ucraina Joe Biden per la prima volta accusa la Russia di Vladimir Putin di "genocidio" in un discorso in Iowa sull'aumento dei prezzi della benzina. "Il vostro bilancio familiare, la vostra possibilità di fare il pieno non dovrebbe dipendere dal fatto che un dittatore dichiara guerra e commette genocidio dall'altra parte del mondo", ha detto il presidente americano.
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Caro Vittorio, mi permetto di darti del tu perché ormai per me sei diventato un amico. Ti leggo dagli anni Ottanta, spesso sono d'accordo con te, qualche volta non lo sono, ma in ogni caso le tue parole mi spingono sempre ad una più attenta riflessione sui grandi temi dell'attualità. Ti confesso che sono preoccupata perché ogni mattina apprendo di morti sul lavoro e di donne massacrate dall'ex. Questa tipologia di notizie non manca mai da telegiornali e giornali. Lo hai notato anche tu? È una mia impressione o è tutto, come dici tu, fattuale? Erica Molinari Cara Erica, fai bene a darmi del tu, lo preferisco. Io mi concedo sempre questa libertà nel rispondere alle vostre lettere poiché intendo trasmettere il mio desiderio di intrattenere con ciascuno di voi una comunicazione diretta, intima, familiare. Bene. Cioè male, perché, come tu hai notato, ogni giorno ci riserva il suo carico di morti sul lavoro e di donne trucidate da ex mariti e simili. Non sbagli. Quindi possiamo dire che ciò di cui parli è assolutamente fattuale. Dall'inizio del 2023 sono oltre 65 le donne uccise in contesti familiari o affettivi. Troppe, sebbene il numero dei femminicidi sia diminuito rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sono contrario alla distinzione legale tra l'assassinio di un uomo e quello di una donna e non ritengo neppure che la categoria maschile sia indirettamente responsabile per intero del fenomeno. Lo ripeto sempre e lo ripeterò anche oggi: la responsabilità penale è personale. Eppure non si fa che scagliarsi contro il sesso maschile, definito tossico, sessista, bruto. Penso però che il fenomeno dei femminicidi, quantunque la parola mi sia poco gradita, derivi da una debolezza del sesso maschile, non imputabile, come sovente purtroppo accade, alla donna. Del resto, l'origine di ogni forma di soverchieria risiede in un senso di fragilità profondo. Chi è forte non ha bisogno di essere aggressivo. Io credo che gli uomini di oggi, non tutti ovviamente, ma tanti, siano un po' disorientati, addirittura confusi. Me ne accorgo quando giro per Milano e vedo ragazzi vestiti come donne, che si muovono come donne, sono centinaia, migliaia. Qui l'omosessualità non c'entra. Non la critico. Non la giudico. Non mi scandalizza. Ma la confusione sulla propria identità mi preoccupa, in quanto dilagante nonché prova di indeterminatezza. Se i giovani non sanno chi sono, come possono sapere cosa vogliono, chi desiderano diventare, quali punti di riferimento possono trovare fuori se non hanno neppure trovato il proprio baricentro? Come mi preoccupa la propaganda gender inflitta ai bambini già a cominciare dalle elementari, se non addirittura prima. Oggi il maschio è smarrito. Ma la femmina non è più forte di lui, si finge spesso più solida di quanto non lo sia per andare avanti in un tipo di società dove fino a poco tempo fa l'uomo era dominante e in un mondo del lavoro in cui questi la faceva da padrone e dove resistono i retaggi di atavici pregiudizi. È l'individuo in generale ad essere disorientato. La violenza è il segno della nostra inconsistenza. Essa esplode lì dove maggiore è la fralezza. Allora si uccide perché non si accetta di essere lasciati, di dovere affrontare la fine e il senso di fallimento, di ritrovarsi da soli. Si è inetti, si è incapaci davanti al cambiamento. Il nulla viene preferito alla necessità di trasformazione imposta dalla vita, dal mondo che non si ferma, che muta. Per quanto riguarda, invece, i morti sul lavoro, questi aumentano tragicamente. È un bollettino di guerra quotidiano. Più volte ho affrontato l'argomento che mi sta molto a cuore: siamo una Repubblica fondata sul lavoro dove tuttavia il lavoro vale sempre meno. Ma anche la vita dei lavoratori vale sempre meno. Perché tanti decessi? Non possiamo dare la colpa solo alle aziende, alle imprese, alla mancanza di controlli relativi alla sicurezza. Anche i lavoratori stessi si pongono in condizioni di pericolo, non indossano protezioni, non osservano le misure essenziali di salvaguardia, a volte considerate superflue. Il lavoratore deve essere tutelato e deve altresì cominciare ad autotutelarsi tenendo conto del fatto che non siamo immortali e che l'incidente è dietro l'angolo.
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India: una campagna di comunicazione contro la violenza sulle donne - la Repubblica Abbonati Menu Cerca Notifiche Abbonati Abbonati Gedi Smile Menu di navigazione Contenuti per gli abbonati Gedi Smile Sezioni Biblioteca Commenti Cronaca Cultura Design Economia Enigmistica Esteri Giochi Green&Blue Il Gusto Italian Tech La Zampa Londra Moda e Beauty Mondo Solidale Motori Podcast Politica RepTv Rubriche Salute Scienze Scuola Repubblica@Scuola Robinson Serie Tv Spettacoli Sport Vaticano Viaggi Edizioni Locali Roma Milano Bari Bologna Firenze Genova Napoli Palermo Parma Torino Speciali Oncologia Salute Seno Giochi senza barriere Europa, Italia Repubblica dei cavalli Inserti Affari&Finanza D Il Venerdi Robinson Servizi Annunci Aste Giochi e Scommesse Guida Tv Ilmiolibro Lavoro Meteo Necrologie Oroscopo Edicola Joy.it Consigli.it Dizionari Ricette Newsletter Preventivi auto Redazione Scriveteci Cerca un video Menu RepTv RepTv Home Politica Mondo Cronaca Sport Motori Spettacoli Salute Green&Blue Altre categorie Economia Serie Tv Tecnologia Il Gusto Moda e Beauty Mondo Solidale Viaggi Robinson Scuola Vaticano Videoforum Focus Fun Edizioni locali Bari Bologna Firenze Genova Milano Napoli Palermo Parma Roma Torino D Fermiamo il femminicidio 07 gennaio 2013 Link Embed [[URL]] Copia Copia India: una campagna di comunicazione contro la violenza sulle donne Nel Distretto di Karnataka le autorità locali stanno distribuendo migliaia di volantini con i consigli utili alla sicurezza. Istituito anche un numero verde per le informazioni. Di Ermanno Accardi LEGGI SU REPUBBLICA.IT Vedi Tutti Femminicidi, varato piano per tutela donne. Cartabia: "Possibilità di fermo in caso di pericolo" Uccise ex e si suicidò, Tridico (Inps): "Non chiederemo più i 124mila euro di rimborso alle due figlie orfane" Amore e rispetto a ritmo reggae, contro la violenza sulle donne I più visti Oggi Settimana Mese Rocco Casalino, gli insulti omofobi del ras degli ambulanti... Assurdo in Valencia-Real Madrid: l'arbitro fischia la fine un... Striscia di Gaza, l'assalto disperato al camion con gli aiuti... Protesta pro-Palestina in Canada, Meloni e Trudeau rinunciano... Mattia Furlani vince l'argento nel lungo ai Mondiali indoor e... Festa prenunziale in India, ecco l'esibizione di Rihanna... Samsung Galaxy S24 Ultra alla prova. Uno smartphone avanti di... Barbara D'Urso a Mara Venier: "L'addio a Mediaset è per me... Gressoney isolata, una valanga ostruisce l'imbocco della... Chiara Ferragni poche ore prima di Che Tempo Che Fa:... Metropolis/512 - "Romanzo Viminale". Perché Meloni non sta... Metropolis/511 - "Crisi Generale". E Meloni cosa pensa di... Metropolis/509 Live - "Sardo nel voto". Con Ainis, Braga,... Metropolis/513 - Blocco Navalny. Con Benassi, Castelletti,... Metropolis/510 - Campo sardo. Con Baldino, Molinari,... Metropolis Extra/512 - Barra&Santamaria: "Passione, impegno e... Farmaci per il diabete che fanno dimagrire: opportunità o... Todde eletta in Sardegna: "Io prima presidente, si scrive una... Orca attacca squalo Regionali Sardegna, Truzzu: "Ho chiamato Todde per farle i... Metropolis/507 - Torto o Regione. Meloni-Salvini 1 a 0, palla... Metropolis/497 - "Italia Travolta" - La Lollotax si paga a... Metropolis/512 - "Romanzo Viminale". Perché Meloni non sta... Metropolis Extra/502 - Manzini: "Il successo? Camilleri... Metropolis/498 - "Trattori tattici nucleari". Perché la... Metropolis/504 - "Profondo russo". Perché in Italia qualcuno... Metropolis/511 - "Crisi Generale". E Meloni cosa pensa di... Metropolis corto - La caduta, di Ezio Mauro e Matteo Macor Metropolis/495 - Amadeus ex machina. Perché Sanremo non è mai... Metropolis/501 - Con buona pace. Con Auci, Benassi, Bonelli,... Il Network Supplementi Repubblica Affari e Finanza D Il Venerdì Robinson Gedi News Network La Stampa Il Secolo XIX Huffington Post Italia Fem Formula Passion Quotidiani locali Gazzetta di Mantova Corriere delle Alpi Il mattino di Padova Il Piccolo La Nuova Venezia La Provincia Pavese La Sentinella del Canavese La Tribuna di Treviso Messaggero Veneto Periodici Le Scienze Limes National Geographic Radio DeeJay Capital m2o Iniziative Editoriali In edicola Biblioteca Digitale Servizi, tv e consumi Annunci Ilmiolibro Necrologie Miojob Enti e Tribunali Meteo Joy Tvzap Dizionario italiano Dizionario inglese/italiano Consigli.it Partnership LAB MyMovies AutoXY Formula Passion Sport.it Mappa del sito Redazione Scriveteci Per inviare foto e video Servizio Clienti Pubblicità Cookie Policy Privacy Codice Etico e Best Practices GEDI News Network S.p.A. - P.Iva 01578251009 - ISSN 2499-0817
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«Puntare il dito verso chi fa rap o trap è un modo per costruire alibi a chi viene meno al proprio ruolo». Fred De Palma, nome d’arte per il trentaquattrenne Federico Palana, torinese cresciuto nel rap e maturato in direzione urban latina, non è lo spaccone di turno, ma un ragazzo sereno e riflessivo, che si prepara ad andare in gara al Festival di Sanremo e dice la sua sulle ultime polemiche che coinvolgono la musica giovane. «Sul palco ci si scanna con insulti anche tremendi, l’opposto del politically correct. Ma è solo fiction». Femminicidi e atti di bullismo riempiono le cronache: il rap e la trap con i loro testi violenti e le risse ai concerti sono spesso messi sotto accusa, lei che ne dice? «Dico che la musica va presa come i film. Non è giusto caricare sulle spalle di rapper di vent’anni il compito di educare, un compito che spetta ai genitori, alla scuola, alla società. Né credo che le persone si regolino nella vita in base a un pezzo sentito alla radio. Puntare il dito verso chi fa rap o trap è un modo per costruire alibi a chi viene meno al proprio ruolo» Andare Sanremo però significa parlare a una grande platea e questo comporta una responsabilità, no? «Per me è soprattutto il posto giusto per raccontare una storia nuova. Sanremo arriva in un momento di grande cambiamento per me, sto sperimentando, uscendo dalla comfort zone. Sia nel suono che nei contenuti. Non sono più riconducibile al reggaeton, resta una componente ma non è tutto, la mia attenzione a quel che si muove nel panorama internazionale della musica che sento vicina a me è a 360°». Come ha preso la notizia della partecipazione? «Subito dopo la pubblicazione dei nomi è scattato un vorticoso giro di chiamate con gli amici in gara, Irama, Annalisa e Rose Villain per esempio. Ora sto lavorando alla performance con cui affrontare l’Ariston». Il suo nome d’arte suona come un omaggio al concittadino cantante Buscaglione e a Brian De Palma: è così? «Per quanto riguarda il regista sì, sono appassionato di cinema e adoro i suoi film fin da ragazzo. Quando scrivo una canzone mi calo nei suoi panni, immagino di girare una storia, di creare una sceneggiatura». In che Torino è cresciuto? «Zona popolare, il Lingotto, mio padre è un ex ferroviere, mia mamma una maestra d’arte. Con loro si seguiva il Festival di Sanremo come un rito di famiglia, era l’evento dell’anno. Poi ho scoperto l’hip hop, partecipando a tante di battaglie di freestyle perché Torino è una capitale nel settore. Mi affascina vedere tutta quella gente che ci mette l’anima senza soldi in cambio. Sul palco ci si scanna con insulti anche tremendi, se mi serve un termine forte per chiudere una rima ce lo infilo. Poi, finita la sfida, si è tutti amici, anzi, fratelli. Mai visto uno scontro a suon di barre proseguire fuori dal ring». Dopo l’infanzia il suo rapporto con Sanremo è cambiato? «Crescendo me ne sono allontanato, ma da qualche anno ho notato un cambiamento, si sono aperti spazi per la musica che faccio e che ascolto. Finché nel 2016 ci sono andato a cantare, ospite di Patty Pravo. Ma essere in gara con un brano mio è diverso». La sua frequentazione degli stili latini si traduce anche in viaggi concreti? «Sì, sono stato in Colombia, a Santo Domingo, in Messico, a Miami che è come fosse America Latina, mi sono immerso nel sottogenere bajo mundo del portoricano Farruko e nella nuova cumbia elettronica. Sono nate collaborazioni molto belle perché non studiate a tavolino: si sono costruiti dei rapporti di amicizia da cui sono scaturite con naturalezza le interazioni, da Ana Mena a Sofía Reyes e Anitta. È il mio modo di lavorare: prima la persona, poi il progetto artistico». . Torino spera che il 19 dicembre dalla finale di Sanremo Giovani possano accedere all’Ariston anche gli Omini e i Santi Francesi, ma per al momento sarà lei solo a rappresentarla al Festival: sente la responsabilità? «La vivo con orgoglio, per quanto ovviamente anch’io tifi per loro. Abito da qualche anno a Milano, ma Torino è la mia città, ci vivono la mia famiglia e gli amici più cari. Resterà la mia vera casa per tutta la vita». Che farà dopo l’Ariston? «Il tour, a marzo, con date anche a Madrid e Barcellona. Lo show è tutto da definire, stavamo iniziando a lavorarci quando è arrivato l’annuncio e ci siamo concentrati sul Festival».
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Mara Carfagna, deputata di Forza ed ex ministra per le Pari opportunità, ha scritto su Twitter che il governo sta facendo “una bastardata”, riferendosi alla bocciatura in commissione Bilancio di un emendamento alla legge di bilancio, da lei proposto, che prevedeva lo stanziamento di 10 milioni di euro per gli “orfani di femminicidio”. Nel tweet Carfagna ha parlato anche di una serie di emendamenti che invece sono stati approvati, tra cui l’IVA agevolata al 10 per cento per i centri massaggi degli hotel, la riduzione delle accise sulla birra e l’introduzione del “navigator” nei centri per l’impiego, una figura che dovrebbe seguire e aiutare i disoccupati nella ricerca di un lavoro. Quando trovi i soldi per tutto, compresa la detassazione dei massaggi negli hotel, la birra artigianale, l'assunzione dei fantomatici #navigator e non li trovi per le famiglie affidatarie degli orfani di femminicidio fai una bastardata. Punto. — Mara Carfagna (@mara_carfagna) December 5, 2018
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Cose di cui si è parlato, male o bene, alcune simboliche, altre simboliche e non solo. Cose di cui possiamo essere orgogliose, che ci hanno commosso, fatte arrabbiare o che ci hanno fatto dire: “Finalmente”*. Gennaio Alcuni episodi avvenuti in tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 hanno contribuito a far parlare, anche qui, di una questione spesso messa da parte o comunque non trattata con attenzione: quando il soggetto preso di mira da insulti, minacce e offese su internet è una donna, l’offesa ha immediatamente una declinazione di genere. L’occasione del conflitto politico o d’opinione viene insomma colta per esprimere odio misogino e sessista. Grazie a un video girato a New York e che ha avuto un grandissimo successo si è parlato anche di molestie per la strada e di come ci sia molta difficoltà a riconoscerle come tali. Febbraio Se negli archivi di qualsiasi agenzia internazionale di immagini si cerca, per esempio, “donna idraulico” compaiono foto di giovani donne in biancheria intima con una chiave inglese in mano. Se si cerca “donne e lavoro” appaiono una segretaria sexy seduta alla scrivania e una bionda sorridente davanti a un cesto di frutta. Circolano talmente tante immagini stereotipate sulle donne e talmente tante donne che ridono mangiando un’insalata che un gruppo ha creato il blog satirico “Donne che ridono da sole con insalata” (Women laughing alone with salad). E che Sheryl Sandberg, dirigente Facebook, e Johathan Klein, co-fondatore e ad di Getty – uno dei più grandi archivi di immagini al mondo e uno dei principali fornitori di immagini generiche – hanno collaborato creando una nuova collezione in cui si vedono donne con le rughe e i capelli grigi, ragazze di corporature diverse che fanno sport vestite come tutte noi quando facciamo sport, donne che aprono convegni e donne che aggiustano lavandini. Johathan Klein: «Il modo in cui le persone sono rappresentate visivamente influisce più di ogni altra cosa sul modo in cui vengono percepite». Sheryl Sandberg: «Le immagini che spesso capita di vedere si ispirano a quegli stereotipi che cerchiamo di superare». Jessica Bennett, curatrice della collezione: «Credo che troppo spesso vediamo emergere rappresentazioni stereotipate come la recente copertina della rivista Time su Hillary Clinton per illustrare l’idea delle “donne al potere”. Il fatto che non ci sia altra opzione che quella di usare un’immagine, così anni Ottanta, di una gigantesca gamba in pantalone che schiaccia un minuscolo uomo per illustrare una storia su una donna in corsa per la presidenza ci mostra quanto disperatamente abbiamo bisogno di cambiare la narrazione visiva che circonda le donne e il potere». La popolarità che ha avuto questa collezione di Getty in tutto il mondo dimostra che c’è un gran bisogno di rappresentazioni più realistiche. Marzo È iniziato il processo a Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano accusato di aver ucciso la sua fidanzata, Reeva Steenkamp. I siti e i giornali di mezzo mondo hanno cominciato a riproporre foto e gallery della “bella e sexy Reeva” e di lui sofferente con il cappuccio in testa. Volontario o accidentale, in molte e molti hanno ricordato che l’assassino è comunque lui e che i media devono ancora imparare a trattare come si dovrebbe la questione della violenza di genere e del femminicidio. Aprile Un nuovo pezzo della legge 40 del 2004 è stato abolito. In aprile, la Corte Costituzionale ha deciso che il divieto di fecondazione eterologa (che impedisce di ricorrere a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta) è incostituzionale. Lo stesso meseThe Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche del mondo, ha pubblicato i risultati di un’operazione mai realizzata prima: quattro impianti di vagina sono stati coltivati in laboratorio e impiantati a quattro pazienti affette da una rara malattia: ora potranno fare sesso e rimanere incinte. Maggio Il 23 maggio Elliot Rodger è uscito di casa e ha ucciso in una sparatoria sei persone vicino all’Università di Santa Barbara, California; ne ha ferite altre tredici; si è ucciso. Non prima di lasciarsi alle spalle un vero e proprio manifesto di più di cento pagine sull’odio contro le donne (sono «animali viziosi, stupidi, crudeli», sono «senza cuore», sono «una piaga, il male e la depravazione», «non dovrebbero avere alcun diritto in una società civilizzata», «distruggerò tutte le donne e farò la guerra contro tutti gli uomini da cui sono attratte», «se non posso averle io non potrà averle nessuno», e così via). A partire da questa storia l’hashtag #YesAllWomen ha raggiunto quasi 2 milioni di tweet in meno di quattro giorni. Non tutte le donne che hanno partecipato hanno subito stupri o violenze, ma è stata una grande occasione di parlare apertamente di molte ingiustizie o minacce con le quali le donne si confrontano quotidianamente. #YesAllWomen ha saputo guardare a quel fatto (e a molti altri di quello stesso tipo) attraverso la lente del genere, cosa che invece per diversi giornali o media non è stata né chiara né immediata («Ha ucciso quattro uomini e due donne: il doppio dei maschi rispetto alle femmine. Questa sarebbe misoginia?». Si, lo è). Giugno Facebook ha modificato la sua politica sulla pubblicazione di immagini che ritraggono donne mentre allattano al seno i cui capezzoli sono visibili. Sotto la domanda: “Facebook che consente la pubblicazione di foto di madri che allattano al seno”, ora c’è scritto: “Sì, riconosciamo la bellezza e la naturalezza dell’allattamento al seno. Siamo felici di sapere che è importante per le madri condividere questo tipo di esperienze con gli altri su Facebook”. La decisione è stata presa dopo diverse campagne contro la censura: il movimento che ha contribuito maggiormente è #FreeTheNipple della blogger Soraya Chemaly, attivista femminista (una donna che allatta non è un oggetto sessuale). Un certo analfabetismo femminista si è invece manifestato nell’entusiasmo di molte e molti alla notizia che Facebook e Apple hanno avviato dei programmi per farsi carico dei costi del congelamento e del mantenimento degli ovuli delle loro impiegate. Penso che consegnare docilmente la propria potenza riproduttiva al datore di lavoro non sia una buona notizia, né un progresso né un guadagno di libertà (lo sarebbe avere un figlio quando lo si desidera senza dover essere penalizzate al lavoro). La giornalista Marina Terragni ha parlato di una specie di “dimissioni in bianco” «ma più moderne, tecnologiche e women friendly. Insomma: non ti caccio se fai un figlio, ma ti pago per non farne». Luglio Emma Watson – che ha 24 anni, che è considerata una brava attrice e che si definisce una femminista – è diventata la nuova ambasciatrice dell’UN Women delle Nazioni Unite e ha tenuto un discorso sui diritti delle donne a New York molto bello e condivisibile. Agosto Quest’anno, per la prima volta nella storia, una medaglia Fields è stata vinta da una donna: Maryam Mirzakhani ha 37 anni e insegna a Stanford, un’università privata della California considerata fra le migliori al mondo. Le “medaglie Fields” sono un premio che si assegna ogni quattro anni dal 1936 ai migliori matematici che hanno meno di 40 anni. La sua importanza è comparabile a quella del premio Nobel, che non viene assegnato per la matematica. Estela Carlotto, presidente e storica attivista delle Abuelas de Plaza de Mayo – movimento civile di donne argentine che si occupa di rintracciare i bambini sottratti alle loro madri durante la dittatura militare – ha ritrovato suo nipote, che ora ha 36 anni. Stella Ameyo Adadevoh ha identificato il primo caso di ebola in Nigeria opponendosi a chi le faceva pressione per dimettere l’uomo sospettato di aver contratto il virus e contribuendo a contenere la diffusione dell’epidemia nel suo paese: è stata a sua volta contagiata ed è morta, celebrata in Nigeria (e non solo) come un’eroina. Settembre Soprattutto grazie alle associazioni a favore della libertà delle donne e ai movimenti femministi che hanno organizzato mobilitazioni sia in Spagna che in altri paesi d’ (su Twitter erano stati lanciati gli hashtag #MiBomboEsMio e #YoDecido), il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha ritirato il progetto di legge per riformare (in senso restrittivo) le norme in materia di aborto. La proposta di legge avrebbe reso l’aborto non più un diritto, ma un reato depenalizzato in due sole circostanze (riprendeva in sostanza la legge approvata nel 1985 e in vigore fino al 2010, quando era stata modificata dal governo socialista di Zapatero). Ottobre Malala Yousafzay, giovane donna pakistana colpita alla testa da un colpo di pistola sparato dai talebani il 9 ottobre del 2012, era ad una lezione di chimica quando le è stato comunicato che aveva vinto il Nobel per la pace. A Göteborg, in Svezia, una donna di 36 anni che aveva subito un trapianto di utero nel 2013 ed era stata sottoposta alla fecondazione in vitro all’inizio del 2014, ha partorito un bambino. Novembre Il ministro degli Interni del Regno Unito, Theresa May, ha rifiutato il visto e quindi l’ingresso nel paese a Julien Blanc, un venticinquenne americano conosciuto come “pick-up artist”, cioè “artista del rimorchio”. Blanc lavora per una società di Los Angeles (Real Social Dynamics) che organizza dei corsi per insegnare agli uomini come sedurre le donne. Blanc avrebbe dovuto tenere un corso nel Regno Unito a febbraio, ma più di 150mila persone (soprattutto donne) hanno firmato una petizione per non farlo entrare accusandolo di insegnare comportamenti che equivalevano a vere e proprie molestie, di usare un linguaggio sessista e misogino e di produrre nelle sue performance una vera e propria «apologia dello stupro». A Julien Blanc era stato revocato un visto anche in Australia e le proteste contro i suoi corsi si sono allargate: in Canada, per esempio, dove Blanc dovrebbe tenere dei corsi il prossimo anno, è nato l’hashtag #KeepJulienBlancOutOfCanada (“teniamo Julien Blanc fuori dal Canada”) e il ministro degli Interni canadese, Chris Alexander, ha scritto su Twitter che comprende la preoccupazione dei cittadini facendo intendere che probabilmente negherà anche lui il visto a Blanc. Quello che conta, in questa storia (al di là del fatto di condividere o no la negazione del visto), è la presa di posizione politica e collettiva contro la violenza di genere. Il magazine Time ha pubblicato un sondaggio che chiedeva ai lettori di votare la parola più brutta del 2015, perché superata o abusata. Insieme a vari neologismi della lingua inglese come influencer, yaaasssss, literally, bae, om nom nom nom è stata inserita anche la parola “femminista” che è risultata anche quella più votata. La direttrice Nancy Gibbs si è scusata pubblicamente. Sarà bene ricordare che “femminista” non è uno slogan. Dicembre Il Sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra ha approvato definitivamente una norma (ratificata dal Parlamento inglese e poi dalla regina Elisabetta, capo della chiesa anglicana) che consente alle donne di essere ordinate vescovo: lo scorso 17 dicembre è stata annunciata la prima nomina, si tratta della reverendo Libby Lane. Accuse contro Cosby circolavano da anni: i media hanno cominciato a preoccuparsene e molte donne a prendere parola. Da tutta questa storia è nato un dibattito molto interessante sul perché sia così difficile credere a una donna che denuncia una violenza sessuale (qui, qui e qui, qualche articolo che vale la pena leggere). * sì, uso il plurale femminile perché le cose che racconto le ho condivise, soprattutto, con le mie compagne di viaggio (accanto a me, qui, o su internet). E tanti auguri a tutte e tutti.
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